Brit Pop vs. Madchester

Confondere la scena brit pop con la scuola Madchester è un errore assai comune presso ascoltatori e riviste italiane che amano definirsi specializzate. In questo altrettanto superficiale articolo ci proponiamo tuttavia di reintrodurre una ad una le maggiori formazioni che hanno caratterizzato i Novanta britannici, cercando di fare chiarezza sull’origine delle stesse. Escludiamo dunque a priori artisti come Doves o Elbow, che certo potrebbero essere ascritti al genere – perché il brit pop è un genere – ma che hanno esordito su LP dal 2000 in poi. Come in ogni corrente musicale, ci sono dei fondatori, delle varianti più o meno interessanti, e un sacco di furbi. Cercheremo di limitare le attenzioni su questi ultimi.

Il brit pop non è altro che una ibridazione fra le varie esperienze che il rock inglese aveva vissuto negli anni antecedenti. Lo fonda Bernard Butler dei Suede a 22 anni. Quando lo shoegaze aveva ormai imboccato un vicolo cieco, mentre a Seattle i romei accorrevano in pellegrinaggio o per strappare un contratto discografico, fra una fazione e l’altra dello stile Madchester, ecco sbucare il singolo di una giovane band londinese, “The Drowners” dei Suede appunto. Posto che il brit pop è stato anche e soprattutto una faccenda di singoli, quello che apre la sua intensa stagione è anche uno dei migliori degli anni Novanta tutti, grazie anche alla presenza di due b-side entrambe all’altezza della traccia principale. Proprio il concetto di b-side viene rivoluzionato – o meglio riportato alla ribalta – da band come Suede, Oasis, Radiohead (negli USA solo gli Smashing Pumpkins tra i gruppi dai grandi numeri) che incidono e pubblicano singoli con annesse canzoni extra. L’appuntamento non è più solo quello con l’uscita del nuovo album, ma a cadenze spesso regolari diventa anche quello con l’uscita del nuovo singolo o EP. Di band con comportamenti simili ce ne sono miriadi, ma quasi sempre le loro b-side sono dei palesi scarti. Non è così nel brit pop.

Ma da dove proviene lo stile brit pop, quali sono le componenti che lo hanno creato? Come accadeva a Seattle, artisti di astrazione e caratura differenti venivano accomunati sotto un’unica grande scena – il grunge – che neanche aveva delle concrete forme definite. A metà anni Novanta cadere nel tranello “Blur vs. Oasis” diviene la norma, un inganno che miete vittime ancora oggi e distoglie dall’origine di un movimento che ha invece pescato da varie poetiche ed espedienti tecnici del rock precedente. In primis, la scuola di Madchester.

A partire dai padri Smiths, a Manchester si erano create due correnti artistiche. Una era capeggiata dagli eccellenti Stone Roses, che rilanciava da dove Johnny Marr e soci avevano abdicato, l’altra dagli Happy Mondays, che invece mescolava la lezione degli Smiths con i ritmi dance e funk in voga da fine anni Settanta in poi. Gli Happy Mondays non sono mai stati una band del livello artistico degli Stone Roses, ma sono stati decisamente più influenti presso la generazione di artisti appena successiva, in particolare sui Blur e i Pulp. Curioso, tuttavia, il fatto che il miglior singolo alla Happy Mondays sia in realtà degli stessi Stone Roses, vale a dire “Fools Gold”. La stessa “Waterfall”, dall’incredibile primo omonimo album di Ian Brown e compagni, e i remix pubblicati tempo dopo di altri loro classici, si prestano ad un accostamento concreto all’altra fazione dello stile Madchester. D’altronde con musicisti come John Squire, Reni e Mani, ogni deviazione era possibile, persino quella psichedelica e in qualche modo progressista (si ascolti la maestosa “I Am the Resurrection”) che poi ritroveremo nei Verve.

Ci sono poi i Charlatans, in particolare quelli degli esordi, che seppur con minore originalità sono da annoverare tra le migliori realtà della scena, nonché anch’essi utili a band come Oasis e Cast.

Gli Oasis di Definitely Maybe non sono altro che una nuova versione degli Stone Roses, con differenti e altrettanto riuscite variabili (in particolare quella acustica che li ha fatti accostare ai Beatles). Una nuova versione però aggiornata e integrata con la lezione del punk dei Sex Pistols e una poetica di ideali tipicamente rock ‘n’ roll, che tuttavia all’epoca risulta credibile perché decantata da un punto di vista esterno, da perfetti sconosciuti. L’atteggiamento arrogante dei fratelli Gallagher ha giovato agli esordi, quando il songwriting di Noel era inappuntabile e qualsiasi critica rimbalzava loro addosso. Negli anni si è rilevato un’arma a doppio taglio, un autentico boomerang che ha demolito la reputazione di una band che ha in realtà lasciato ai posteri due dei maggiori album che il decennio ricorderà. Un’intera generazione di giovani – quella presa dal per altro ritardatario scoprimento di Pearl Jam ed Alice in Chains – salterà a piè pari gli Oasis e tutto il brit pop, convinta che fosse porcheria adolescenziale, quando in realtà la musica meno raffinata era proprio quella dei loro idoli di allora. Le canzoni di Definitely Maybe e Morning Glory non si possono attaccare, fazioso o incosciente è chi lo fa, mentre quelle degli album successivi… sì. I Gallagher non si sono più neanche lontanamente avvicinati alla freschezza dei primi periodi, e mentre altre band provenienti da Londra e dintorni – rivali e contemporanee – progredivano, loro rimanevano fermi al palo, sbattendo testardamente la testa contro il muro tentando di emulare i fasti degli esordi. Osservandola con distacco oggi, la parabola discendente degli Oasis sembra del tutto simile a quella di una delle loro fonti di ispirazione, i Jesus & Mary Chain.

Posto che gli Oasis sono dunque da avvicinare più allo stile Madchester degli Stone Roses che ad altro, le formazioni londinesi nascono da tutt’altro. Certo più dalla tendenza dettata dagli Happy Mondays che direttamente dagli Smiths. Di conseguenza, le aspirazioni sono quelle di fondere non solo Madchester, ma anche un innegabile gusto new wave quando non anche tributario dell’esperienza glam entro la forma canzone. Band simbolo di questo incontro di eventi è quella di Jarvis Cocker, ovvero i Pulp da Sheffield. Attivi da oltre dieci anni quando esce l’album omonimo dei Suede, bivaccano fino ad allora insicuri della propria vocazione, azzeccando una melodia ogni tanto e forse anche incoscienti delle loro reali capacità. Da controfigura dei Cure più sbarazzini, i Pulp divengono immagine di riferimento di tutto un genere, almeno nel Regno Unito. Una band su cui cade dal cielo l’occasione della vita grazie al botto artistico e mediatico di Brett Anderson e Bernard Butler, vale a dire un contratto discografico con la Island, la stessa etichetta degli U2, che mette a loro disposizione il produttore che si rivela di lì a poco il più influente di tutta la scena brit pop: Ed Buller, già affermato dal successo dei primi singoli dei Suede. I Pulp mettono in fila tre album eccezionali, impeccabili sotto ogni punto di vista. In particolare, quel Different Class destinato a rimanere uno dei migliori cinque dischi degli anni Novanta inglesi. Un’opera in grado di fotografare perfettamente i tempi e la propria generazione, con l’ironia raffinata e – perché no – matura di Jarvis. In Different Class ritroviamo anche il singolo più importante di tutta la stagione brit pop, “Common People”, un autentico capolavoro nel capolavoro, che oscura pezzi altrimenti enormi quali “Do You Remember the First Time” (forse il loro migliore in assoluto), “Disco 2000”, “A Little Soul” arrivati prima e dopo di esso. In generale, Different Class non è inferiore a nessuno degli album inglesi della sua generazione, This Is Hardcore e His ‘n’ Hers pure, nonostante manchino di quella rilevanza storica di cui sembra dotato Different Class sin dalla sua uscita, a partire dalla copertina che riporta in qualche modo ad altri due lavori simbolo del rock inglese: Sgt. Pepper’s dei Beatles e il secondo album dei Led Zeppelin. Ritiratosi a vita parigina, Cocker non ha perso il vizio di comporre buona musica: il suo primo album solista risulta piacevole e dignitoso, per alcuni tratti non inferiore alla band di culto di cui è stato il leader.

Beneficiano dell’exploit dei Suede anche i Blur da Londra, col tempo riconosciuti dal mondo profano soltanto come i rivali degli Oasis, quando semmai una concorrenza era più fondata proprio coi concittadini Suede. Dopo esordi ingiustamente sottovalutati seppur precursori del genere tutto (tra cui è possibile rintracciare ottime canzoni come “She’s So High”, “There’s No Other Way”, “Chemical World”), i Blur si trasformano in musicisti di alto rango al servizio della forma canzone, mettendo al mondo un album che negli USA non hanno ancora capito e che si gioca con Different Class la palma di più rappresentativo della scena, Parklife. Senza dubbio però, Parklife tratteggia la quintessenza della vita londinese come mai nessun disco prima di allora. È un capolavoro istantaneo che guadagna premi su premi a casa sua, mentre nel resto d’Europa si fa conoscere solo per il singolo di “Girls & Boys”, ancora reminiscente della dottrina Happy Mondays e certo non peculiare del resto del disco.

È bene chiarire in questa sede che i Blur non hanno nulla a che fare con gli Oasis, fanno tutt’altra musica agli esordi, ne fanno altra ancora nel corso degli anni. È vero, tuttavia, che se in termini assoluti un confronto qualitativo tra le due band poteva reggersi fino a metà anni Novanta, con l’uscita del superlativo disco omonimo del 1997 i Blur prendono il largo nei confronti degli Oasis ancora fermi al palo, e diviene, oltre che fazioso, assurdo continuare a rapportare la discografia di Damon Albarn e amici a quella dei rissosi fratelli Gallagher. La polemica era stata creata ad arte dalla stampa britannica, tuttavia non senza mancanza di buon senso da parte degli attori protagonisti (irragionevole la scelta delle band di pubblicare un singolo lo stesso giorno dell’altra, creando un’inutile sfida). Come si diceva, i Blur svoltano verso una nuova strada nella seconda metà dei Novanta, quasi provando vergogna per ciò che erano, o per dimostrare qualcosa a qualcuno, tipo che non sono più dei giovani intellettualoidi disposti a battagliare con gli Oasis e i Suede. L’album omonimo è il punto di non ritorno per la band e per il genere tutto, un disco importante almeno quanto OK Computer dei Radiohead, solo che quello stesso anno i media si ritrovano troppo impegnati ad incensare Yorke e i Verve, che con Urban Hymns sembrano lì per lì aver inciso un disco più importante di quel che si è rivelato poi. Il 2015 è l’anno in cui esce dopo non poche vicissitudini The Magic Whip, albo dal setting esotico e metropolitano dove si rivede la formazione al completo – che, orfana di Coxon, aveva pubblicato quel Think Tank che tanto risentiva della fascinazione di Albarn per la musica e i ritmi africani – cosa che non accadeva in studio dai tempi di 13. Progetti molteplici quelli di Albarn, non secondi numericamente a quelli di un Mike Patton (ex Faith No More), con la differenza che se quelli dello pseudo-sperimentatore di San Francisco sono quasi tutti usa e getta, le produzioni del buon Damon hanno quasi sempre spunti di interesse per vari tipi di pubblico. Oggi Alex James produce formaggio, Dave Rowntree si è dato con scarso successo alla politica, Graham Coxon continua nella sua altalenante carriera solista (partita debolmente quasi quanto quella di John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, con la differenza che il buon Coxon è davvero un talento sprecato, per poi riprendersi parzialmente negli anni recenti), mentre il progetto più interessante di Albarn rimane The Good, The Bad & The Queen, con membri di Clash e Verve al suo servizio. Dei Blur restano almeno due capolavori (Parklife e Blur), alcuni album di valore medio alto (in particolare il più sperimentale 13), e alcuni singoli memorabili (come dimenticare quelli da The Great Escape, o la superba “Music Is My Radar”?) che rendono la loro carriera quella più sfaccettata tra le formazioni del periodo.

Sono molte le band che da esordi confusi si rivelano in grado di dire la loro con autorevolezza nella scena. Non sfuggono alla regola, dopo Pulp e Blur, anche Verve e Radiohead, due formazioni in cui almeno inizialmente è focale l’utilizzo delle chitarre per lo sviluppo del suono, con riferimenti direttissimi allo shoegaze e alla psichedelia per la band di Wigan, e una strana ibridazione Smiths-Seattle per gli altri.

I Verve sono fondamentalmente una band inconcludente, che anche quando produrrà il proprio opus magnum sceglierà di chiuderla lì per poi ripresentarsi dopo oltre dieci anni pretendendo di essere ancora un nome di riferimento. Certo, sempre meglio un ritorno tutto sommato apprezzabile dei Verve che sorbirsi i lavori solisti di Ashcroft, in cui cerca senza trovarla la definitiva soluzione di un pop sinfonico da camera. Inconcludenti ma anche incompresi sono i primi due lavori, in cui il canto baritonale (reminiscente dei Jesus & Mary Chain) di Richard Ashcroft non riesce ad emergere come in quell’Urban Hymns che farà invece furore nel 1997. Ci sono buoni episodi anche nei primi Verve, ma sono o eccessivamente visionari (e tuttavia perdonabili essendo degli esordi) o eccessivamente retorici nel caso di pezzi come “On Your Own” e “History”, quest’ultima divenuta poi il modello di ballata che Ashcroft continuerà a inseguire e perseguire negli anni. Urban Hymns è diverso invece, perché fonde bene l’anima psichedelica del gruppo (quella del chitarrista Nick McCabe, formatosi in ambiente shoegaze) con quella più rock tradizionale del suo cantante. Curiosamente i Verve sono una delle poche band della scena rispettate da Noel Gallagher, forse perché chiaramente inferiori agli Oasis. Sono un valido, validissimo gruppo i Verve, ma i fuoriclasse dei Novanta sono altri.

Per esempio i Radiohead, che fuoriclasse diventano con OK Computer, il disco che infligge un colpo che si rivelerà mortale al brit pop, il disco che attira sul gruppo fin troppe attenzioni rispetto a quelle dedicate con serietà ad altri attori della scena. Fuoriclasse i Radiohead lo erano stati in realtà sin dall’inizio in termini di vendite, grazie ai quattro accordi di “Creep”, oggi brano praticamente rinnegato dalla band, ma a cui devono comunque molto, e fuoriclasse lo erano in The Bends, almeno per una manciata di brani che, seppur usurati dal tempo e dunque invecchiati maluccio come sonorità, rappresentano alcuni dei momenti più alti di una discografia che poi si scinderà definitivamente dalla coordinate brit pop, rilanciando almeno un paio di volte e facendo piazza pulita intorno. Restano canzoni come “Just” (ancora quattro accordi, ma che arrangiamento intorno!), “Bones” e soprattutto quella “Fake Plastic Trees” rimasta ad oggi la loro migliore canzone in assoluto. Si renderanno conto i Radiohead di saper scrivere buone canzoni, ma di non far paura a nessuno con i distorsori accesi. Il rock più grezzo e hi-fi lo suonano meglio in America.

Le stesse “Creep” o la titletrack “The Bends” scompaiono di fronte alla sezione ritmica degli Smashing Pumpkins o alle lesioni punk dei Nirvana, non volendo scomodare anche nomi minori della scena grunge. Decidono dunque di ibridare il loro sound con l’elettronica (OK Computer, Kid A) e con arrangiamenti orchestrali (i successivi). Lo fanno con lungimiranza e successo artistico, divenendo l’unico gruppo inglese compreso da un certo tipo di ascoltatore, impreparato o semplicemente immaturo per capire perché Different Class, Suede o Parklife sono altrettanto importanti di un OK Computer. Ai Radiohead, infatti, vengono spesso attribuiti meriti eccessivi, frutto della totale misconoscenza del resto della scena da cui provengono. Gli applausi sono tuttavia meritati e come i Talk Talk anni prima, la formazione capeggiata da Yorke e i fratelli Greenwood si apre ad un’evoluzione tra le più clamorose nella storia della musica pop. Uno dei rarissimi casi di estrema popolarità unita ad una qualità superiore di molto alla media. OK Computer è d’altronde uno degli album più belli degli anni Novanta, e Kid A, che ha fallito nel diventare il riferimento per i Duemila, resta comunque un unicum destinato a rimanere ai posteri, un’opera la cui totale riuscita rimane ad oggi impenetrabile, anche agli stessi Radiohead.

Così come i Radiohead, i giovani Supergrass provengono da Oxford, e rispecchiano gli ideali più spensierati del rock, fingendo una demenza quasi zappiana su basi a tratti omaggianti dei Rolling Stones. Il loro in realtà è puro brit pop, per altro di buonissima fattura nei primi ispirati lavori. I Should Coco risulta ben più di un fortunato episodio sbucato fuori nel momento di massima esposizione del fenomeno brit pop, con i suoi arrangiamenti sempre funzionali alla forma canzone e un singolo su tutti, quella “Alright” rimasta uno dei massimi momenti pop del decennio. Incideranno molto materiale negli anni a seguire Gaz Coombes e soci, azzeccando anche diversi altri singoli, ma non riuscendo più a tenere il ritmo dei primi due album, assolutamente da tenere in buona considerazione quando si raccontano storie come questa.

Alla base del movimento restano tuttavia i Suede, a cui inevitabilmente torniamo in conclusione di questa panoramica sui protagonisti del brit pop. È grazie a quel singolo di “The Drowners” che si spezza la catena con un decennio – gli Ottanta – che in Inghilterra non sembrava ancora essere finito, nonostante i promettenti esordi dei Blur. Ne accadranno di tutti i colori invece negli anni Novanta inglesi, senza dimenticare quindi la nascita del trip hop di scuola Bristol, la musica jungle dei Prodigy o l’elettronica più pura. Lungi dal conferire ai Suede più meriti di quelli – tantissimi – che già la storia ha loro attestato, non ci si può esimere dal raccontare in breve della superba qualità dei primi due album (e relative b-side, come dicevamo). Quelli dell’alchimia Anderson-Butler sono dischi irripetibili, in grado di ripescare il meglio dei Roxy Music e dei Queen (e non era facile), resuscitare Ziggy Stardust e far sembrare lo stile chitarristico di quel fenomeno di Johnny Marr superato. Una poetica – quella dei Suede – sia decadente che intellettuale, in grado di ammaliare come poco altro nella storia del pop inglese, e dunque della musica in generale. Il rapporto sempre in bilico fra la chitarra di Butler e la voce disperata ed ambigua di Anderson si dimostra un connubio di rara potenza, non inferiore a quello fra Morrissey e Marr anni prima. Una storia nella storia quella dei due, raccontata in parte nell’addio prematuro immortalato nelle canzoni del successivo Dog Man Star, all’epoca vittima di un autentico tiro al bersaglio da parte della stessa stampa inglese che li aveva osannati agli esordi e ora incapace di comprendere l’evoluzione naturale di una relazione al collasso. Troppo colto e raffinato per i fan degli emergenti Oasis, troppo involuto, doloroso e misterioso per chi si avvicinava ai Blur. Al suo confronto, il nichilismo cronico dei Radiohead sembra un male minore. Dio solo sa cosa sarebbe stato un terzo album dei Suede con la formazione originale. C’è stato invece Coming Up, l’album della rivincita del solo talento di Anderson nei confronti dei critici dell’epoca che lo avevano dato per spacciato senza l’aiuto del geniale Butler, che però non raggiunge i livelli dei primi due capolavori. Si tratta di un disco in cui tutto suona differente, nuovo, laccato e diciamolo, ben fatto. È un buonissimo disco Coming Up, ma è un’altra band, che non si regge più su quel sottile e funambolico equilibrio che aveva reso eccelsi gli esordi; è un album più diretto e alla moda nel 1996, e rilancia per un po’ la vita artistica di Brett Anderson, da lì in poi colpito da un potentissimo maleficio che gli farà trasformare in pietra senza vita ogni cosa che toccherà. Nel 1997 OK Computer fa sfracelli e i Suede nel loro piccolo cercano di aggiornare il loro sound dando maggiore spazio al tastierista Neil Codling, che con Simon Oakes alla chitarra aveva avvicendato il fuggitivo Butler (si noti, due elementi per sostituirne uno). Head Music, l’album successivo a Coming Up, è l’inizio della fine. Dalla reunion ad oggi sono arrivate quattro prove in studio, sufficienti a placare l’appetito di chi è affezionato al gruppo, ha vissuto il brit pop negli anni Novanta e ora vuole convivere l’età adulta con i personaggi di un tempo – seppur naturalmente invecchiati – ma non di certo a smuovere le sorti di un genere che a pochi passi dal nuovo millennio avrebbe esalato l’ultimo respiro. Il brit pop non c’è più, è stato risucchiato dall’ambizione di Blur e Radiohead, dalla mancanza di attenzioni della stampa e soprattutto da un mancato ricambio generazionale credibile. L’ultimo disco degno di nota da considerarsi brit pop resterà il problematico This Is Hardcore dei Pulp. Il sortilegio su Anderson sarà così forte che anche la sorprendente riunione con Butler nel progetto The Tears non riscuoterà grandi consensi, nonostante una manciata di pezzi nettamente sopra la media del pop inglese del periodo. 

Si diceva dell’oscurità di Dog Man Star, ebbene, c’è un album tanto buio quanto quello, ed è The Holy Bible dei gallesi Manic Street Preachers. Un lavoro sofferto e deviante che verrà colpevolmente trascurato dalla critica quando la vicenda di Richey Edwards – scomparso e mai ritrovato (la sua automobile è stata ritrovata parcheggiata nei pressi di un fiume…) – e gli sviluppi melodici della band occulteranno il suo valore. Più facile parlare d’altro. All’ascoltatore più attento, all’appassionato il remunerativo compito di recuperare un simile gioiello, momento più elevato di una discografia altrimenti impostata su un piano inclinato tendente al ribasso.

Ci sono però attori minori degni di nota, a margine dei protagonisti assoluti. Non ci riferiamo a nomi come James, Elastica, Cast o Embrace, che avranno pure azzeccato un paio di pezzi, ma che se anche non ci fossero stati, nessuno ne avrebbe lamentato la mancanza. Piuttosto è utile in questo superficiale saggio ricordare i Mansun di Attack Of The Grey Lantern, magari troppo leziosi e sinfonici per affondare colpi decisivi al genere, ma certo autori di arrangiamenti al limite dell’impeccabilità, per uno di quelli che rimarrà tra i tesori nascosti del genere (almeno al di qua del canale della Manica). Per i nostalgici degli Smiths la chimera Gene ha lasciato almeno due album (i primi due) decisamente interessanti, seppur privi dell’istrionismo contagioso di cui Morrissey è portatore sano. Per chi si accontenta, comunque un nome da riscoprire. Gli stessi preamboli degli scozzesi Travis promettevano qualcosa di più di quel che è stato poi, ovvero solo un discreto gruppo di pop elettroacustico per chi si accontenta di poco. C’è tuttavia una band scozzese che ha lasciato alcune delle canzoni e, perché no, tre degli album più belli prodotti nel Regno Unito nei Novanta.

Il riferimento è chiaramente al combo dei Belle and Sebastian, che tra il 1996 e il 1998 pubblica tre dischi di ottima fattura l’uno dietro l’altro, recuperando sin dall’immaginario delle copertine il gusto degli Smiths, senza però includere l’istrionismo di Morrissey tra le note dei loro brani. Le loro canzoni sono piccole gemme di pop da camera, in grado di cantare quei sentimenti minori che riempiono le giornate, i mesi, gli anni. Ascriverli al fenomeno brit pop può risultare eccessivo per alcuni, ma a conti fatti, pur mancanti di determinate varianti stilistiche, i Belle and Sebastian meritano menzione in questo articolo almeno quanto Oasis e Verve.

Se all’inizio dei Duemila si è affacciato con profitto solo il giovane Badly Drawn Boy a riproporre coordinate folk e brit pop, nei Novanta l’unico solista in grado di tenere il passo dei giganti – almeno in patria – è stata una vecchia conoscenza del rock britannico, quel Paul Weller già leader di Jam prima e Style Council poi. Il suo Stanley Road, pur con evidenti limiti di produzione, era stato addirittura nominato come miglior album ai Brit Awards del 1996. Gli altri candidati erano The Bends dei Radiohead, The Great Escape dei Blur, Different Class dei Pulp e Morning Glory degli Oasis. A vincere fu quest’ultimo, con annesse scene al limite del demenziale al ritiro del premio in diretta tv. Fu la stessa edizione in cui quel fenomeno di Jarvis Cocker fece la storica improvvisata durante l’esibizione di Michael Jackson, che gli costò una breve detenzione in carcere. Siamo passati di colpo al passato remoto… è proprio il caso di dire “altri tempi”.