1 Gennaio 2017

È incredibile che da quando abbiamo iniziato con il Panopticon ad oggi, seconda versione di DYR, non c’è mai stata l’occasione di approfondire il discorso Blur, se non per qualche sporadica recensione dei progetti di Albarn o per il loro recente ritorno assieme con The Magic Whip. D’altronde il quartetto di Londra è sempre tra i topic più popolari nei nostri forum ed è in alto tra le prime posizioni della Top 100 anni ’90, che rimettiamo online a breve, promesso. Per questo dobbiamo proprio averli dati per scontati, oppure, semplicemente, non c’è mai stata l’idea di riepilogare la loro ammirabile discografia.
Il format del Discography Ranking è tanto più interessante quando a essere incolonnati uno a uno sono gli album di band che hanno avuto alterne fortune, che hanno attraversato periodi diversi, e di cui magari non è già conclamato quale sia il capolavoro assoluto. Almeno come rivista possiamo prendere posizione, accusare ciò che non è buono, e dare una ragione al lettore per arrivare fino in fondo all’articolo.
Nel caso dei Blur riesce difficile evidenziare le croste perché non ci sono, per cui il maggiore motivo di interesse non potrà che essere l’ordine in cui abbiamo disposto i loro dischi, tutti ancora così splendidamente imperfetti e in alcuni casi da ridecifrare.
Abbiamo dato per garantito che tutti conoscessero già tutto sui Blur, e che chi voleva sapere ormai sa, ma se mentre scriviamo i Gorillaz hanno 9 milioni e 800 mila “mi piace” su Facebook, e i Blur appena 2,2 milioni, è chiaro che c’è qualcosa che non quadra. O forse, è del tutto naturale che sia così, perché i Blur non sono solo quelli di Girls and Boys o Charmless Man, ma anche quelli di musica pop rock difficile, perfino troppo colta per il vasto pubblico a cui sono arrivati col successo.
Al contrario dei più in Italia, io ho conosciuto prima i Blur, e poi gli Oasis. E per aver scoperto tanta buona musica in tenera età devo ringraziare principalmente VideoMusic, che ben prima che arrivasse MTV a rovinare tutto, trasmetteva la roba giusta agli orari giusti. Per questo i primi video promozionali del periodo Parklife mi avevano già fatto capire che poteva essere un gruppo da seguire – ai tempi i miei preferiti erano gli U2 – e quando l’anno dopo è arrivato nei negozi The Great Escape, l’ho noleggiato per cinquemila lire (esatto, ai tempi si faceva!) e registrato su musicassetta. Non il formato migliore per venire a capo di un album lungo e tortuoso come quello, per questo per me non c’era proprio partita: in quel momento stavo totalmente dalla parte dei fratelli Gallagher.
Due anni più tardi, giunto un po’ in sordina, ecco un nuovo disco, con la copertina giallo oro e senza titolo. Nel frattempo sono entrato nel mondo del grunge, e ho scoperto che dall’Inghilterra arriva anche un certo OK Computer. Di colpo il brit pop, compreso quello di Pulp e Suede, mi pare un po’ meno interessante. Decido di andare comunque ad ascoltare il nuovo dei Blur, perché il video di Beetlebum mi era piaciuto.
Vado da Box 25, praticamente l’unico negozio di musica rimasto nel centro della mia città, e indossate le cuffie provo a capirci qualcosa. Nisba. Ho con me 40 mila lire, e il negoziante, vedendomi indeciso, mi propone in alternativa Ultra dei resuscitati Depeche Mode. Sono in difficoltà, perché i suoni di Barrel of a Gun e It’s No Good mi sembrano fighissimi, ma scelgo di comprare il mio primo CD originale dei Blur.
Per diversi mesi rimpiango di non aver optato per i Depeche Mode e chissà che se l’avessi fatto non avrei scoperto prima altra musica ad essi più affine. Era stata un’autentica sliding door nel mio percorso musicale, e il disco che avevo prescelto, che doveva essere di più facile intrattenimento, in realtà spaziava su un campo a me del tutto ignoto. In pratica ci ero rimasto fregato due volte: non avevo avuto un buon rifornimento di brit pop, e non avevo aperto la porta della new wave e del pop elettronico.
Per perdonarmi parzialmente, masterizzo la raccolta doppia appena successiva dei Depeche, e lascio l’omonimo di Blur a prendere un po’ di polvere. Poi durante l’occupazione del liceo di quell’anno uno dei miei compagni chitarristi, grande divoratore di Metallica e Pearl Jam (dicesi intellectual rock confusion), mi fa: “ho ascoltato Song 2, grandissimo pezzo, quindi sono corso da Box 25 per acquistare tutto l’album… al che lo metto sullo stereo e… Beetlebum, what you done… che palle! E’ una merda! Gliel’ho riportato giù ma non me l’ha nemmeno cambiato”.
Quella sentenza mi stimola a riprovarci, perché per quanto distante da ciò che mi piaceva di loro, l’omonimo aveva comunque quei 4-5 pezzi orecchiabili che non capivo come potevano essere bollati come merda. E da quel nuovo ascolto, tignoso e bastian contrario, ecco che wow, scopro uno dei miei dischi preferiti di sempre, ancora oggi. Dal 1997, tra Blur, OK Computer e In the Aeroplane Over the Sea, non saprei quale portarmi nell’isola deserta se ne dovessi scegliere uno solo. A proposito di Radiohead si è detto spesso che Kid A rappresenta il più coraggioso passo artistico fatto da una band mainstream. Beh, vero, ma anche l’omonimo dei Blur in questo senso non scherza affatto. D’altronde le sue 14 tracce sono tutte grandi canzoni camuffate alla perfezione per allontanare l’ascoltatore impreparato e le ragazzine che si erano innamorate dei loro faccini puliti. Roba per intenditori.
OK. Dopo avervi ammorbato con il primo capitolo della storia del mio amore per i Blur (risparmio le successive puntate fino a nuova occasione), di seguito il ranking promesso (come sempre: niente EP, niente live, niente raccolte, niente remix). Al contrario dei precedenti episodi di questa serie, come detto, non ci sono passi falsi nella discografia della band. Semmai è interessante ristabilire un po’ l’ordine di preferenza tra gli album, e recuperare ciò che forse si è sottovalutato troppo facilmente senza motivo. Potrebbe essere il caso dell’esordio Leisure, e forse anche del recente The Magic Whip, che magari non aggiunge più di tanto alla vicenda, ma che dimostra ancora una volta che se non avessero bisticciato ai tempi delle registrazioni di Think Tank, i Blur avrebbero potuto continuare a sfornare ottima musica per un altro decennio. Avremmo avuto meno materiale dei Gorillaz probabilmente, ma almeno io,.. me ne sarei fatto una ragione.
Modern Life Is Rubbish (1993). Leggendo nei forum italiani ci si imbatte spesso in grandi esperti del periodo brit pop che, forti dell’assistenza di Rate Your Music, citano titoli di band che all’epoca non vendettero una copia neanche nel loro condominio quali presunti capolavori nascosti della scena. Fidatevi di noi quando sosteniamo che nessun disco dei vari Mansun, Gene, Puressence, James, Gorky’s Zygotic Mynci…. è al livello di Modern Life Is Rubbish, che pure ha i suoi evidenti difetti di produzione e arrangiamenti. Infatti il fenomeno sarebbe potuto esplodere molto prima se avessero trovato qualcuno in cabina di regia in grado di guidarli verso un suono che focalizzasse meglio le melodie di Albarn. Se questo è da considerarsi il peggiore… Da non perdere le b-side di Popscene (singolo dello stesso periodo), e le b-side di For Tomorrow, Chemical World e Sunday Sunday, che messe assieme formano un altro album dei Blur primo periodo.
Key Tracks: Blue Jeans; Chemical World; Villa Rosie
The Great Escape (1995). In coda al nostro ranking anche l’albo che li trasforma in idoli delle ragazzine e odiati rivali dei più proletari Oasis, che però è anche quello che nella prima metà ti spara uno dopo l’altro singoli spaccaclassifica come Country House, Charmless Man e The Universal, e che nel complesso, prima di dilungarsi eccessivamente con tre-quattro brani che sarebbe stato meglio lasciare nei lati B, risulta l’ultimo vero disco puramente brit pop della band di originaria dell’Essex. Mancano la coesione di Parklife e la profondità dei lavori che lo succedono negli anni Novanta, ma ci sono dentro abbastanza idee per tirar fuori altri due album. Forse troppo edonista e upper middle class per confrontarsi con il romanticismo irruento dei fratelli Gallagher, anticipa il concetto dei Vampire Weekend oltre un decennio prima.
Key Tracks: Country House; Best Days; The Universal
Leisure (1991). È corretto indicare nell’omonimo dei Suede e prima ancora nel singolo The Drowners (maggio 1992) l’effettiva nascita del movimento brit pop che ha caratterizzato gli anni Novanta inglesi. Tuttavia per quanto confusionario e ancora ereditiero delle ultime scie shoegaze (Sing, Repetition) e dei ritmi madchester (Bad Day, High Cool, There’s No Other Way), il debutto su full lenght dei Blur offre già l’anno prima un quadro delle sonorità del movimento. Le melodie lascive e post adolescenziali di tutti i brani, quell’imprecisione e ruvidità che spezza la trama degli Ottanta, la chitarra di She’s So High, hanno tutti i requisiti che si richiedono al genere. Mostra qualche ruga di troppo, okay, ma non vale lo stesso per altri signori album usciti nello stesso (glorioso) millesimo?
Key Tracks: Repetition; Sing; There’s No Other Way
The Magic Whip (2015). Di 13, l’ultimo LP prima che Coxon lasciasse il gruppo, The Magic Whip non ha proprio niente. A partire dal setting, così volutamente sia esotico che metropolitano da indurre molti ad accusare Albarn di esagerare con l’orientalismo o addirittura di simpatizzare per il nemico giallo. Le canzoni però sono in pure stile Blur, e aumentano il rammarico di non averli visti progredire assieme nel nuovo millennio, come invece è accaduto coi Radiohead. The Magic Whip resta infatti uno dei rarissimi casi in cui la reunion non è tronfia e non sporca il mito cantato da monografie e ricordi sbiaditi condivisi con la Rete. Ancor più doloroso il rimpianto di non aver avuto un intero albo sulla linea del singolo-anteprima Go Out, mix davvero spassoso della miglior formula della band di Londra, ma anche i pezzi che sembrano parenti stretti di quelli presenti nel primo vero solista di Damon – il sottovalutatissimo Everyday Robots – si possono dire perfettamente riusciti.
Key Tracks: Go Out; Terracotta Heart; New World Towers
Think Tank (2003). L’ultimo albo prima di uno iato durato dodici anni ha una gestazione turbolenta che vede il sofferto ma a detta degli altri tre inevitabile allontanamento di Coxon, e un risultato che risente della fascinazione di Albarn per la musica e i ritmi africani (dell’anno precedente è il progetto Mali Music). Think Tank pare voluto così in tutto e per tutto, e d’altronde come pensare diversamente brani riuscitissimi come Out of Time (uno dei più belli del nuovo millennio) o Sweet Song, sicuramente una delle loro migliori ballate. Allo stesso tempo, quando in coda ti piazzano un pezzo come Battery in Your Leg (l’unico in cui compare anche il buon Graham), ti viene da dubitare che quanto sostenuto fino a poco prima sia effettivamente vero. Cioé se è proprio vero che non si sente l’assenza di Coxon. E i dubbi ti vengono eccome, perché è uno dei migliori della loro storia. La verità sta probabilmente nel mezzo: nell’economia generale del disco l’assenza della chitarra di Coxon pesa come un macigno (l’esempio più concreto è l’averlo sostituito, laddove non arrivavano le virtù chitarristiche di Albarn, con stramberie o con il sassofono), ma allo stesso tempo non te la senti di dire “sì ma manca quella chitarra, non basta questa di Damon”, perché alcuni brani sono perfetti così, e sono tra i loro migliori, che Coxon se ne faccia una ragione.
Key Tracks: Out of Time; Battery in Your Leg; On the Way to the Club
13 (1999). All’epoca della sua pubblicazione, in molti vi si avvicinano grazie ai due giganteschi specchietti per le allodole quali sono i singoli Tender – un gospel per il nuovo millennio – e Coffee & Tv – un’ultima canzone brit pop prima della fine del millennio! – ma non capiscono che il nocciolo del disco non stava nelle due canzoni principali, quanto nei pezzi lenti, a tratti soporiferi e con punte di psichedelia quali Caramel, 1992, Battle e il terzo pubblicato anche separatamente No Distance Left to Run. La produzione spaziale di William Orbit, in principio ritenuta confusionaria, riesce invece a dare quel tocco di imprevedibilità in più a composizioni già arrangiate con audacia. Poi, come nel video di Coffee & Tv, Coxon scompare, ma non c’è il cartoncino del latte a ritrovarlo e riportarlo a casa. Da non perdere, dello stesso periodo, Music Is My Radar, presente nella raccolta uscita appena dopo.
Key Tracks: No Distance Left to Run; 1992; Battle
Parklife (1994). Assieme a Different Class dei Pulp, l’albo simbolo di quella stagione del rock britannico. Il periodo di massima creatività del quartetto coincide con le registrazioni di questo disco così completo e compatto come probabilmente nessun altro del loro repertorio. Tutto sembra essere al suo posto, perfino le stranezze e le licenze poetiche, tanto che quando ci ritorni dopo molto tempo, non sai se lo fai perché vuoi riascoltare i clamorosi singoli che ne fanno parte, o i brani minori, a cui ti eri comunque affezionato. Un altro dei grandi capolavori da registrare nell’annata 1994, probabilmente quello più rilevante proveniente dalla terra di Albione.
Key Tracks: Girls and Boys; Clover Over Dover; Trouble in the Message Centre
Blur (1997). Registrato a Reykjavik e uscito senza l’accompagnamento di una campagna promozionale aggressiva come accaduto per The Great Escape, l’omonimo arriva nei negozi in sordina, quasi come fosse destinato a prendere ulteriori schiaffi da chi ormai ha sentenziato che il rock inglese non ha più niente a che spartire con i Blur. Nell’anno in cui OK Computer e Urban Hymns si contendono i favori della critica, Blur sembra quasi l’ultimo capitolo di una band che ha passato il suo momentum. Invece, l’ambizione di riprovarci nel mercato americano, unito al chitarrismo di Coxon e alla padronanza tecnica degli altri strumentisti (clamoroso e sottovalutato, da qui in poi, l’apporto di Alex James che col suo basso regge in piedi tutta la baracca, e di Dave Rowntree alla batteria), coincidono in un disco dal valore unico e eccezionale, che sintetizza buona parte dei Novanta in quattordici tracce. Alla lunga, il loro album da portare sull’isola deserta è proprio questo.
Key Tracks: Beetlebum; You’re So Great; Strange News from Another Star