Retrospettiva: Suede

Cominciamo col mettere le cose in chiaro: questa è la storia di uno dei venti gruppi più importanti degli anni Novanta. Se c’eravate lo saprete, se non c’eravate ve lo diciamo adesso, se c’eravate ma non condividete allora è il caso di farvi vedere da uno bravo, oppure di leggere questo alquanto superficiale articolo e magari riprovarci. Chissà che scambiando una manciata di vecchi CD che vi vergognate anche di ridare indietro, non vi portiate a casa uno dei classici del decennio rock inglese. Ad esempio il singolo di “The Drowners”, che nel 1992 creava il primo caso di next big thing della stampa britannica, ovvero la continua ricerca dei prossimi idoli generazionali e l’eventuale proclamazione già dapprima della loro uscita su long-playing.
 

Se i Suede non sono stati il primo caso in assoluto a pochi fondamentalmente importa, perché in fondo e per essere più banali possibile, è la musica a restare e quella della formazione londinese ha già superato la prova del tempo. Se ne può quindi infischiare di simili primati. Di contro, sarebbe quantomeno giusto il riconoscimento dei loro meriti e quindi delle loro canzoni presso una schiera di ragazzi che magari è arrivata a conoscere e ammettere il valore dei Radiohead, ma che ancora oggi se si parla di brit pop, riesce giusto a citare il casus belli della diatriba Oasis vs. Blur, forse lo specchietto per le allodole più clamoroso del decennio. In questo senso, capire cosa c’è di grande nelle canzoni che componevano quello storico primo singolo dei Suede è già un passo di ampia portata, prima ancora di arrivare al resto. Se poi si è in grado di ammettere che “Stay Together”, nella sua versione da 8 primi e 29 secondi, non è inferiore a pezzi simbolo del decennio come lo sono stati “Paranoid Android” o “Champagne Supernova”, arrivando a sorridere di felicità nell’ascolto prolungato di uno dei tre album sacri dei Pulp, o finalmente riscoprendo le radici di quella stagione del rock, allora è davvero fatta. Vorrà dire che si è una volta per tutte giunti a destinazione.

Mi è capitato di presentare i Suede a chi non sapeva minimamente chi fossero, uno di quelli che nei Novanta c’era, ma non sapeva di esserci. Allora ho citato questi nomi, più o meno in ordine casuale: David Sylvian, The Smiths, Radiohead, David Bowie, Queen, Japan, Roxy Music… aggiungendo che se non piace questa musica, non piaceranno neanche i Suede. L’equazione non può dirsi assoluta, ma grossomodo dovremmo esserci: non si pretende che il fanatico dei Pink Floyd o del progressive integralista, quello convinto che il rock debba ambire ad essere qualcosa di adulto, serio, artistico a tutti i costi – vedi anche concetto di arte fine a sé stessa – possa arrivare ai Suede, perché questi non arrivano a quel tipo di ascoltatore lì, magari nostalgico di qualcosa che neanche ha vissuto. Oddio, introdotta così, la musica di Brett Anderson e soci parrebbe robetta da mero intrattenimento adolescenziale, e non ci sarebbe errore più grave di valutazione. In fondo a fare presa sui ragazzini sono più facilmente ben altri generi e stili del rock: pensateci! Allo stesso tempo dovrebbe essere ormai chiaro che la musica pop diventa veramente qualcosa di più quando non è legata al mestiere, ma esprime – magari con una buona dose d’ingenuità certamente presente nei primi Suede – quei sentimenti minori e nobilissimi dell’animo umano che riempiono le nostre giornate, settimane, anni di vita. Certo, l’ingegno reclama a gran voce la sua parte di merito, e come vedremo un personaggio come Bernard Butler non ne è minimamente sprovvisto, ma nel trasformare una semplice melodia in poesia, è l’urgenza espressiva a giocare il ruolo più importante. E sì, nei Suede, in quelli veri, non c’è altro che poesia.

La peculiarità del gruppo sta soprattutto nel pericolante rapporto fra il chitarrismo del giovane Butler (anima musicale del gruppo), il cui idolo è Johnny Marr, e la voce fragile e decadente di Anderson, dalla pronuncia strettamente londinese. La risultante è un rock candidamente androgino, dai contenuti forti e con una chitarra in grado di intrecciare trame ed iperboli che pure in bilico fra gloriose referenze dal passato, non sta facendo altro che alimentare il fuoco di un nuovo stile musicale, con le sue coordinate e peculiarità ben precise. È il brit pop, che non significa solo e per forza “musica leggera proveniente dal Regno Unito”, e che la figura di Bernard Butler contribuisce in misura determinante a forgiare.

I singoli di esordio sono già un apice assoluto della band e del decennio tutto. Pezzi come “To the Birds” e “My Insatiable One” non lasciano indifferente la critica, che si prepara ai fuochi d’artificio per l’uscita del primo disco, omonimo. Suede vince il Mercury Prize (esce nel 1993, l’anno di Siamese Dream e In Utero, fra gli altri), e risulta essere la scossa decisiva per il boom del cosiddetto brit pop. Poco o nulla a che vedere con quanto stanno per mettere al mondo gli Oasis a Manchester, perfezionamento invece dei primi passi mossi dai giovani concittadini Blur. Le canzoni sono dominate dalle sovraincisioni di chitarra di Butler, e raccontano storie con uno spirito et giovanile et decadente figlio della scena post-punk britannica. I Suede decretano, se ancora ce ne fosse stato il dubbio, la fine di certi stilemi degli anni Ottanta, nonché la fine delle grandi attenzioni per la scena shoegaze, che ormai ha imboccato un vicolo cieco. Ma al di là delle spiegazioni razionali dello stile e della poetica della band, sono proprio le canzoni a fare la differenza e a parlare per loro stesse. Chi c’era ed ancora non ha goduto degli intrecci di chitarra nell’ossessionata “She’s Not Dead” o del melodramma sinfonico di “Breakdown”, probabilmente era impegnato a rincorrere chissà che porcherie usa e getta. Invece no, la musica dei primi Suede resta, alla faccia di chi superficialmente li ha bollati come musica per personaggi dell’altra sponda.

Tra un disco e l’altro, escono vari singoli, le cui tracce aggiuntive confermano la tradizione di molti artisti inglesi per i cosiddetti flipside. I Suede rivoluzionano il concetto di b side del periodo inserendo in ogni singolo almeno due pezzi dello stesso valore (quando non superiore!) di quelli poi presenti anche nell’album. È il caso dell’irripetibile cd single di “Stay Together”, i cui due lati B non entrano inspiegabilmente in Dog Man Star. Se “The Living Dead” compare fra le trame della colonna sonora di Trainspotting, almeno “My Dark Star” ci sarebbe stata benissimo nell’atmosfera buia di quel disco.

Le cose vanno benone in apparenza, ma circolano voci di possibili divergenze artistiche (e non solo) fra Anderson e Butler durante le registrazioni di Dog Man Star. Così è infatti. A sessioni quasi ultimate, quando ancora mancano i testi di Anderson, Butler segue le orme del suo idolo Marr e abbandona in modo non amichevole la band. Pare che se ne sia andato lasciando un nastro con le indicazioni per le parti mancanti di piano e chitarra, poi eseguite da qualcuno di passaggio nello studio o dallo stesso Anderson. I due protagonisti non hanno mai voluto chiarire le origini della rottura, e circolano varie versioni che al momento ci sentiamo di tralasciare, sebbene un pezzo come “The 2 of Us” possa chiaramente fornire qualche indizio. È un lento al pianoforte che evoca anche la copertina dell’album, in un crescendo emotivo non caso isolato nel catalogo della band. Eh no, David Sylvian negli anni Novanta non l’ha scritta una canzone così. 

Tuttavia il disco è un mezzo fiasco secondo la critica. Un polpettone sinfonico-progressivo che segnerebbe la fine della band. Col passare degli anni, Dog Man Star (1994) è risultato per molti, forse per i più, il capolavoro del gruppo di Londra. È un album dark, triste, depravato, tossico, critico, opprimente, tetro.. che a tratti sembra rispecchiare la crisi del rapporto di amicizia dei due attori principali. Le ultime 4 canzoni sembrano essere un mini-album a parte, con arrangiamenti orchestrali e interpretazioni che appunto riportano a Sylvian e in parte a Bowie, il cui spettro è sempre presente nella loro musica. È un’opera fragile e ricchissima di sfumature, con Butler a cimentarsi spessissimo al pianoforte, rivelandosi in modo definitivo come il miglior compositore rock della sua generazione. L’album non fece successo perché… è facile arrivarci se ci si pensa. Se l’esordio è ingenuo e diretto, questo è oscuro e introspettivo, l’esatto opposto di quanto stava accadendo tutt’intorno, con la ribalta di Blur (Parklife) e Oasis (Definitely Maybe). Dog Man Star è invece il disco più profondo e letterario di tutto il decennio inglese: meno sensazionalista di The Holy Bible dei Manics, certo non scanzonato e irriverente come la musica dei Pulp. Oggi nei suoi concerti da solista, spesso Anderson introduce le canzoni da questo album con sarcasmo e un pizzico di spirito vendicativo: “this next song is from my second record, Dog Man Star… yes, the shitty album…”. Dio solo sa come sarebbe stato un terzo album dei Suede con questa formazione. E peccato per l’involuzione successiva, perché è del tutto lecito chiedersi dove sia finita l’intellettualità di questi due album (a parte qualcosa di Anderson solista, il terzo in particolare).  

Già dal tour di Dog Man Star, Bernard Butler viene sostituito dall’allora 17enne (!) Richard Oakes. A rendere evidente l’importanza che aveva Butler all’interno del gruppo, Anderson si accorge che non basta il bimbo prodigio, e chiama anche Neil Codling ad occuparsi di tastiere e sintetizzatori. La stampa li dava per finiti. Poi esce Coming Up

…Che è l’album con cui i Suede – ed in particolare Anderson – si prendono la grande rivincita su media, fan di altri gruppi (in particolare dei Blur), conquistando adepti in tutta Europa. Brett scrive o dà il La a quasi tutte le canzoni, poi accreditate al duo Anderson-Oakes. È il terzo disco e ancora una volta è diverso dal precedente, in modo clamoroso. Sono dieci canzoni di cui cinque singoli. L’atmosfera è più serena, anche nei momenti che potrebbero essere bui come “By the Sea” o la stessa “Saturday Night”. I video imperversano su Videomusic ed Mtv. È il loro Californication, per rendere l’idea. Da qui in poi cercheranno di replicare questo successo, senza profitto. La mia tesi, oggi, è che Coming Up (1996) abbia in realtà distrutto il talento di Anderson che negli anni ha cercato di emulare quei singoli, quei successi commerciali, sia come Suede, che come Tears, che solista all’inizio. Pur essendo un buon album, non regge il lungo confronto vicino ai due colossi precedenti, ma si difende bene nella scena che è all’apice del sensazionalismo. È come se i Suede fossero tornati a dire “ci siamo anche noi”. Il risultato deve aver fatto male a Butler che magari andandosene era convinto di uccidere la band, che invece continua a sfornare singoli di successo: Coming Up contiene pezzi come “Trash” (bowiana al 100%) e “Beautiful Ones” che alla fine della storia risulteranno i loro più famosi. E se i meriti sono quasi tutti di Anderson, lo sono anche i difetti di questo nuovo corso: voce stridula, magari meno impostata e tetra, ma soprattutto dei testi che sembrano essere ispirati più da riviste glam come Vogue piuttosto che da tormenti giovanili. Un altro paragone: Coming Up sta a Dog Man Star come Mechanical Animals dei Marilyn Manson sta ad Antichrist Superstar. Si cresce e si cambia, per carità, e ci poteva stare un disco del genere dopo un album come Dog Man Star. Sono i lavori successivi a Coming Up a non poter essere del tutto perdonati.

Un altro aspetto evidente è il calo di qualità delle b side con l’arrivo di Oakes. Nel 1997 esce Sci-fi Lullabies, raccolta doppia delle b side dal 1992 al 1997. Una trentina di canzoni. Il primo disco (che contiene quasi tutte canzoni firmate Anderson/Butler), è strepitoso, da cinque stelle, imperdibile. Nel secondo Butler non c’è, ed è solo discreto. Trovate qui pezzi altrimenti difficili da reperire come “To The Birds”, “Europe Is Our Playground”, “Killing of a Flashboy”; “W.s.d.”…

Dopo il successone di Coming Up, succedono molte cose, non tanto all’interno dei Suede ma nel panorama rock contemporaneo. I Blur hanno virato verso altri lidi con l’omonimo, i Radiohead hanno fatto OK Computer, il brit pop in generale sembra non avere più molto successo, e in giro non c’è una scena in particolare a dettare legge. C’è quindi chi prova a reinventarsi, e lo fanno anche i Suede con Head Music (1999).

Nonostante Anderson venga dato in stato di grave tossicodipendenza, l’album non ne risente e come atmosfera sembra rilanciare da dove aveva terminato il precedente lavoro. C’è qualche tentativo non troppo convinto di suonare diversi, più elaborati, più elettronici (è l’album in cui viene dato ampio spazio ai synth di Codling), ma manca l’ispirazione, mancano le grandi canzoni che c’erano state fino ad ora. I testi suonano ripetitivi, quando ti aspetti un assolo di chitarra te ne ritrovi uno di archi fatto con le tastiere, quando arriva il momento perché pezzo evolva in una qualche direzione, ecco che finisce. Il grande assente in Head Music è Richard Oakes, per niente incisivo alla chitarra che finora era stata il punto di forza dei Suede. E’ un album tutto sommato passabile e che comunque vende bene (in Italia fece un successone il singolo “She’s in Fashion”…), ma non convince neanche loro, che per quanto più famosi, sono artisti intelligenti e coscienti.

Nel 2002 arriva nei negozi il profetico (al contrario) A New Morning (2002). Un fiasco totale sia dal punto di vista commerciale che artistico. Innocuo, ammorbante, sancisce la fine del gruppo che si scioglie, anche per via delle condizioni di salute di Codling che abbandona la band prima dell’uscita di questo ultimo sforzo.

Da allora sono successe diverse cose, di media o forse trascurabile importanza. Al di là delle prove soliste e collaborazioni di Bernand Butler (quella più riuscita con McAlmont), poi divenuto produttore piuttosto richiesto e di fatto autore di una carriera simile in tutto e per tutto a quella di Johnny Marr, è principalmente su Brett Anderson che risiedevano le speranze dei fan.

Nel 2004 Anderson riallaccia segretamente il rapporto con Bernard Butler e insieme preparano l’esordio di una nuova band chiamata The Tears. C’è clamore e le aspettative sono alte. In fondo fino a questo momento, Anderson ha sbagliato un solo disco di netto.
Here Come the Tears (2005) arriva puntuale l’anno dopo e i primi commenti riportano che non si discosta molto dai vecchi Suede. Sarebbe un pregio, ma non è così. Si tratta di un LP solo passabile, con 3-4 canzoni discrete (la migliore forse “Fallen Idol”) in cui la chitarra di Butler torna ad essere protagonista. Ma manca quell’ingenuità e quella voglia di osare che il duo aveva agli esordi.
Un album sparato a volumi esagerati, da ascoltare assolutamente in hi-fi, che a conti fatti raggiunge al massimo lo stesso livello di Head Music, magari mostrando meno la corda, ma senza incidere con convinzione. Non basta, i tempi sono cambiati, e non ottiene il successo e le attenzioni bramate.

Nel 2006 tocca al primo album solista – omonimo – di Brett Anderson, che negli anni ha imparato a suonare chitarra e pianoforte con buona tecnica. È pop sinfonico piuttosto scontato, nonostante qua e là come nel singolo “Love Is Dead” si ricordi di aver qualcosa da dire. Viene trattato fin troppo male dalla critica, che non gli perdona niente e gli ricorda continuamente chi è stato. Ci sono in realtà alcune buone canzoni, ma nonostante la buona volontà, manca la profondità e quell’urgenza espressiva che aveva determinato i primi successi. In più, c’è la sensazione che manchi una spalla musicale, un braccio che sappia mettere in pratica le pur sempre numerose idee del buon Brett, che ormai sembra destinato alla carriera solista. Da solo appare davvero lasciato al suo destino, che magari potrà divenire brillante come quello di un David Sylvian, ma che ancora stenta a decollare davvero.

Wilderness, del 2008, è un album spoglio, con arrangiamenti a base di violoncello, piano e chitarra arpeggiata, talvolta percussioni. E voce. Very British, inutile fare i nomi di cantautori di fine Sessanta inizio Settanta a cui in un certo senso può essere ricondotto. Resta la componente pop di fondo, e allora canzoni come “Blessed” avrebbero sicuramente fatto la loro figura anche con un abito da sera. Wilderness è davvero l’esatto opposto del patinato esordio, essendo ridotto all’osso o quasi. Convince in particolare “Funeral Mantra”, in cui Brett a momenti raggiunge la teatralità dark di Dog Man Star, mentre “Back to You” risulta il brano più vicino ai Suede come interpretazione vocale.

Per l’NME non fa notizia un disco così da parte di un personaggio come Brett Anderson, e come all’epoca hanno stroncato Dog Man Star perché troppo involuto e sofisticato rispetto alle mode del periodo, Wilderness si prende un bel ceffone in pieno volto. Ora, Wilderness non vale di certo i capolavori del passato, ma è davvero un album di cui potersi accontentare, da parte di un artista che probabilmente non ha più quello smalto (e quella voce!) che aveva in gioventù, e che neanche con la sua dolce-amara metà (Butler) coi Tears ha saputo più convincere. Probabile che la critica britannica però lo voglia di nuovo nelle braccia del buon Bernard piuttosto che così, da solo, triste, romantico, desolato…

Il migliore dei lavori solistici di Anderson è il terzo. Si chiama Slow Attack (2009) e ha quel qualcosa di autunnale che rimanda a certo post rock intimistico di riferimento Bark Psychosis e Mark Hollis. D’accordo, mancano le melodie memorabili, ma il concetto e la direzione verso cui si muove l’artista sembrano finalmente a pieno fuoco, dopo anni e anni in cerca di chissà cosa. Purtroppo, nuovamente non se lo fila nessuno e lui, per non essere preso come un jukebox, smette di suonare pezzi dei Suede ai concerti del tour di Slow Attack.

Lo credevamo ormai avviato verso il cantautorato più instropettivo, e invece Brett Anderson ci riprova con il brit pop delle origini. Si può riassumere così il quarto lavoro solista – che poi tanto solista non è – e per continuare a farla breve, il problema delle dieci nuove canzoni è che il risultato non rimanda tanto ai Suede dei primi tre dischi, ma piuttosto ai trascurabili Tears. Ai pezzi di Black Rainbows – quasi tutti impostati su ritmi mid-tempo – quel che manca è proprio l’anima. Sono tutti ben confezionati, ma dietro di essi non si nasconde il bisogno a volte anche fisico di esprimersi con delle melodie pop. Sono interpretazioni innocue di canzoni smussate di ogni possibile guizzo, che al contrario non aggiungono nulla al curriculum di un personaggio tra i più importanti della sua generazione. L’album desta anche qualche preoccupazione sul come potrebbe suonare un nuovo disco dei riuniti Suede, a prescindere dalla formazione. Quella con cui tornano assieme, è quella da Coming Up in poi.

Chiedere indietro la band dei primi tempi sarebbe ingiusto dopo vent’anni. E sebbene in Bloodsports (2013) ci siano molti degli elementi caratteristici della band londinese, lo sforzo per mantenere il songwriting su livelli decenti è davvero troppo evidente, tanto che dopo un po’ arrivi a domandarti se ha senso arrivare in fondo. Andrà a finire che quando si avrà voglia di Suede, si andrà a ripescare il vecchio repertorio, inevitabilmente. Bloodsports è un album di rock mainstream in tempi di dominio delle produzioni indie, che spera ancora nel passaggio radiofonico e quindi inciso con l’arduo compito di far rientrare la band dalla porta principale. Impossibile, appunto, ma questo è quello che Anderson sa fare, nel bene e nel male. Per il resto il singolo “It Starts and Ends with You” fa il suo lavoro, ma è giusto una consolazione. 

A noi fan-anziani possono piacere le tonalità dark che pervadono le 12 tracce, il disegno in copertina, la ritrovata foga del povero Anderson che continua a sbattersi con incomprensibile drammaticità, convinto di poter ammaliare come un tempo quando faceva il ..omissis.. col culo degli altri, ma tirando le somme, Night Thoughts (2016) non ci pare aggiungere molto alla discografia dei London Suede. D’accordo, è comunque musica seria e probabilmente anche realmente sentita, ma lontana anni luce in termini di qualità ed urgenza espressiva da quella composta nei suoi primi anni di vita dalla band, specialmente nel periodo con Bernard Butler, poi persosi anche lui per strada (perché non provate a sostenere che produrre Duffy e Libertines e una lunga serie di dischi biecamente easy listening eppure di scarso successo commerciale migliora il curriculum).

La voglia di riscatto, il sentimento di non essere arrivati a tutto il pubblico che meritavano è evidente, ed è il motivo per cui Night Thoughts non suona come il solito stanco LP di una formazione che si riunisce solo per battere cassa in tour, rientrando da subito nei cartelloni principali. Brett Anderson continua a crederci, e mentre altri suoi coetanei sono ormai in pace con se stessi e felici del percorso artistico che hanno fin qui svolto, lui lo senti ancora preso dal voler dimostrare il suo pieno valore. La popolarità dei Suede è d’altronde tremendamente inferiore a quella di band come Blur o Radiohead, e più vicina a quella di Pulp e Manic Street Preachers (provate a vedere quanti seguono queste band su Facebook e avrete un metro concreto), e crediamo che solo con la riscoperta dei primi 3 album i Suede possono accorciare le distanze, e non con uscite pur ben elaborate in studio come questa. Se tutti gli iscritti alla pagina Facebook dei Suede acquistassero Night Thoughts, le copie vendute sarebbero oggi 288 mila. Troppo ottimistico credere che la metà di quei fan lo farà, per cui, in mancanza evidente di un singolo che possa attrarre radio e pubblicità (ci provano “No Tomorrow” e “Like Kids”, ma chi te le passa?), l’obiettivo sarà anche stavolta fallito.

Per ora è quanto. Forse, purtroppo, basterebbe fare in modo di aver imparato a memoria Suede, Dog Man Star, Sci-Fi Lullabies e Coming Up.