Top 100 Electro 2000-2020

100. Yaeji – EP2 (2017)

Quello di Yaeji è uno pseudonimo che porta con sé una formula ambiziosa tanto nel variegato mix di scene coinvolte – dove house e hip hop fanno da coordinate principali – quanto nell’intento di risultare accessibile alle nuove generazioni di ascoltatori. Ebbene, dell’accoppiata di EP pubblicati a suo nome nel 2017 scegliamo di premiare il secondo, una gemma contenente alcuni dei migliori singoli della decade, nonché ancora oggi il miglior tassello di una discografia a cui ci si augura venga dato il tempo di sbocciare pienamente.

99. Convextion – Convextion (2009)

È sempre un piacere ricordare i primi passi mossi da Gerard Hansen nei territori dub techno, eppure, giunti all’esordio, rilegarne la proposta entro un pugno di etichette appare riduttivo. In Convextion si possono percepire gli influssi dei maestri della techno più classica e gli echi della scena di Detroit, che guarda con nostalgia quella che è stata la sua golden age. L’unico peccato è che lo statunitense abbia poi deciso di sparire gradualmente dai radar attraverso sporadiche apparizioni sotto diversi moniker; un debutto così impattante avrebbe meritato miglior seguito.

98. Loraine James – For You And I (2019)

Alla fine del decennio scorso, questa giovane producer londinese è riuscita a rilanciare le ambizioni della storica etichetta Hyperdub in un periodo estremamente prolifico e denso di uscite. Perfettamente calata nell’hardcore continuum, Loraine James si è dimostrata capace di rielaborare con efficacia alcuni degli stili più significativi dell’elettronica inglese, infestando i pezzi con breakbeat e glitch, e dimostrando uno stile che aveva la sagacia compositiva dell’IDM ed il gusto metropolitano della prima dubstep. Anche grazie al lavoro degli ospiti, a queste influenze classiche si sommano alcune inclinazioni più contemporanee, con un risultato difficilmente replicabile. Soprattutto, emerge una visione d’insieme sia collettiva, come espressione di una giovane donna nera e queer, sia personale, con i sentimenti ed i ricordi legati al suo vissuto che riaffiorano prepotenti in ogni pezzo.

97. Theo Parrish – Sound Sculptures Vol. 1 (2007)

Il leggendario producer nero di Detroit ha cementato, nei 2000, lo status che si era creato a fine anni Novanta col seminale First Floor, soprattutto grazie a questo lungo progetto che ci restituisce tutte le spezie della sua ricetta sonora. Ricondurre i suoi groove ipnotici solo ad house e techno sarebbe un errore madornale: Parrish, infatti, ha un’abilità notevole nel ricollegare questi generi alle loro origini nere, alla sensualità del funk ed alla profondità del jazz. Non è un caso che la copertina sembri più riconducibile ad una registrazione bebop che non ad un prodotto pronto per le discoteche. Non solo l’erede designato di Frankie Knuckles, dunque, ma uno storico della black music che come il concittadino J Dilla rende i suoi samples vivi e pulsanti.

96. Efdemin – Efdemin (2007)

Phillip Sollman lancia il suo alias in un momento dove non è né uno sbarbatello né un’artista dal grande bagaglio di esperienza. Questo limbo deve avere giocato un ruolo importante nella produzione dell’omonimo debutto, che ci consegna una minimal techno atipica non tanto nella struttura, quanto nel suo volersi concentrare su groove tradizionalmente più vicini alla deep house. Questi aspetti vengono centellinati lungo la scaletta così da non macchiarne la meticolosità, e garantiscono al tedesco una nicchia di fedelissimi all’elegante linearità delle sue costruzioni.

95. Nathan Fake – Drowning In A Sea Of Love (2006)

L’annuncio della prima prova in studio del britannico fu tutto fuorché un fulmine a ciel sereno; a fare da apripista vi erano singoli del calibro di “Outhouse” e “The Sky Was Pink”, che già lo avevano reso un talento del ramo progressive techno da tenere d’occhio. Il debutto in questione conserva parte di quell’energia, la forgia e lascia che venga intrisa di una poetica inesorabile e toccante al tempo stesso. Annegare in un mare d’amore, per l’appunto.

94. Voices From The Lake – Voices From The Lake (2012)

Che la minimal techno riesca ancora a tracciare geometrie interessanti è da dibattere. Sicuramente può torcersi e sommarsi a sé stessa andando a descrivere con tratti – questi sì – minimi un paesaggio artistico, nel caso del duo italiano Voices from The Lake, sublime e terrifico, evocativo. Ad ogni battuta, ad ogni frase corrisponde un passo davanti al primo in questa malinconica e sognante e spettrale gita al lago.

93. Shackleton – Three EPs (2009)

Three EPs ammorbidisce il sound più puramente etnico e tribale che contraddistingueva le prime sperimentazioni del DJ inglese Sam Shackleton con la Skull Disco, per assorbirlo in una maggior componente metropolitana e claustrofobica. Sono complici probabilmente le lezioni impartite da Burial da una parte e dalla vecchia scuola berlinese dall’altra. O forse sarebbe meglio dire il contrario, ovvero che una volta trapiantato a Berlino, Shackleton non ha fatto altro che prendere ciò che di buono trovava in quella techno minimale per contaminarla con le sue elaborazioni dub. Già da “(No More) Negative Thoughts” o “Let Go” si intravedono i punti di rottura e al tempo stesso di congiunzione con il passato di Shackleton, anche solo la presenza di voci sinistre contribuisce a rendere l’atmosfera più fumosa quando, invece, le ritmiche rielaborano un groove mai del tutto perduto.

92. Lustmord – Carbon / Core (2004)

Un’esperienza sempre catartica quella di un nuovo albo di Brian Williams – meglio noto come Lustmord, dio assoluto della musica ambient dai toni noir e horror – anche quando questo si limita a codificare le coordinate mappate in precedenza, aggiungendovi giusto quel tocco di profondità in più rispetto a tomi essenziali per il genere come Heresy e The Place Where The Black Stars Hang. Le cinque tracce sembrano un viaggio ventimila leghe sotto il mare, l’ideale colonna sonora di una spedizione in un sottomarino verso il buio più profondo e gelido, dove l’eco di un movimento e del suono della bombola dell’ossigeno riempiono il vuoto più assoluto.

91. Roly Porter – Third Law (2016)

Tra i due membri del progetto Vex’d abbiamo sempre riservato più attenzioni a Jamie Teasdale (Kuedo) trascurando invece l’altro volto di quella creatura bifronte, Roly Porter. Come la sua controparte, egli si ispira alle sue fonti fantascientifiche preferite, e per quanto non sia materia particolarmente originale la sua interpretazione non è affatto priva di fascino. Third Law prende le mosse da evidenti elementi fantasiosi e continua a svilupparsi in quella direzione, ma tali sensazioni restano inalterate. “4101” è un riferimento a Cities In Flight dell’autore sci-fi James Blish, mentre le voci iniziali seguono i movimenti nervosi di un occhio come se si fosse in 2001: A Space Odyssey, ma più che un trip psichedelico immaginario qui si ha l’effetto di un viaggio spaziale vero e proprio. Third Law è un disco dark ambient di movimento, sa scorrere efficacemente tanto lento e ruvido quanto violento ed esplosivo.

90. Giant Swan – Giant Swan (2019)

Abbiamo più volte esaltato in questa classifica la raffinatezza compositiva di molti artisti techno, ma questo non ci impedisce di esaltarci anche per l’esatto opposto. Perché se è vero che la maturità del genere lo ha trasformato in alcuni casi in un raffinato sottofondo per intellettuali, non va mai trascurata la sua forza eversiva. L’assalto senza compromessi del duo ci riporta alla dimensione del rave party, ad un approccio quasi punk. Uno dopo l’altro i pezzi non lasciano spazio ad interpretazioni, martellano senza alcuna pietà con i bpm sempre altissimi e con il rumore che soppianta qualsiasi parvenza di melodia. Ma la descrizione fatta fin qui non rende giustizia alle capacità dei Giant Swan, che sono memori anche delle esperienze storiche dell’industrial inglese, con i Throbbing Gristle che fanno capolino a più riprese. E anche quando nel finale i due tentano il pezzo ambientale, i clangori e le distorsioni cannibalizzano il tutto ancora una volta, chiudendo con una sfumatura sinistra uno degli album più violenti degli ultimi anni.

89. Yves Tumor – Serpent Music (2016)

Serpent Music è il secondo LP di Sean Bowie ed è un disco piuttosto schizofrenico, fatto di sample, tracce sovrapposte, field recording. Le influenze sono molteplici, dall’ambient al soul, dal deconstructed club più rumoroso al pop più melodico. Sono brani che, se approcciati distrattamente, sembrano susseguirsi in modo apparentemente poco coerente, ma che a un ascolto più attento rivelano una sorprendente coesione. Non è un caso che il talento di Bowie venga notato da Bill Kouligas e messo sotto contratto dalla PAN, l’etichetta portabandiera del deconstructed club. Con i dischi successivi, in cui otterrà un grandissimo successo di critica e che pubblicherà per Warp, Yves Tumor si sposterà progressivamente verso il formato canzone, mantenendo sempre una qualità elevata e consacrandosi come uno degli artisti più importanti degli ultimi anni.

88. Caterina Barbieri – Patterns Of Consciousness (2017)

La diffusione di sintetizzatori a basso costo ha aiutato sempre più persone ad avvicinarsi al mondo della sintesi del suono, ma quelli che riescono a produrre musica a livello professionale sono sempre la minoranza. Per questo che è molto più facile imbattersi in una bella prova di abilità sui synth grazie a qualche video di YouTube piuttosto che in un album ben pensato e prodotto. E ben venga, allora, un lavoro come Patterns Of Consciousness di Caterina Barbieri, che nessun amante della sintesi analogica dovrebbe farsi sfuggire. Dietro di esso, c’è tutta una filosofia riguardante l’essenza dei pattern e gli effetti delle loro variazioni sulla psiche di chi è all’ascolto. Tutto ciò è meraviglioso, diamole credito.

87. M.E.S.H. – Hesaitix (2017)

“Search. Reveal.” è il nucleo pazzesco dal quale si irradia la materia che compone gli altri pezzi di Hesaitix: tanti suoni quanti sono i possibili significati della parola percussione. Questo tappeto ritmico fa da base a suoni riconoscibili, tutti familiari all’ascoltatore meno sgamato, tutti se vogliamo profondamente umani nelle sensazioni che evocano, che però, e qui sta la maestria vera di M.E.S.H., risultano davvero algidi se ascoltati nel complesso. Col suo approccio allo stesso tempo tribale e spaziale, M.E.S.H. arriva dove i maestri dell’IDM hanno solo osato affacciarsi.

86. Macintosh Plus – Floral Shoppe (2011)

Quella che da molti è ritenuta non solo la pietra miliare di Ramona Xavier, ma del vaporwave tutto, è Floral Shoppe. Parte dalle intuizioni di Eccojams ma le amplia e fornisce anche una nuova base estetica: la statua greca in copertina su sfondo retrotecnologico sarà la base per i meme vapor che invaderanno i social, ma anche per copertine, videoclip e quant’altro. Il primo impatto non può che essere straniante: voci così rallentate da non sembrare più nemmeno umane, sassofoni dozzinali anch’essi passati attraverso filtri, frasi melodiche spezzettate e messe in loop fino allo spasmo. È musica psichedelica in fondo, sta tutto nell’accettarne le premesse (anche concettuali), abbandonarsi e lasciarsi trascinare. Ma ha anche tanta forza comunicativa grazie alla sensazione di nostalgia costantemente evocata, seppur accompagnata da un intento dissacrante e ironico.

85. Jlin – Dark Energy (2015)

Tra i vari generi che hanno caratterizzato l’elettronica del passato decennio, l’emergere del footwork ha sicuramente rappresentato uno dei casi più bizzarri. È bastata infatti la compilation Bangs & Works della Planet Mu a trasformare quello che prima era un fenomeno underground, fortemente legato alla realtà di Chicago, in un sound tra i più popolari. Tra i tanti artisti ghetto house emersi in quegli anni spesso indistinguibili tra di loro, la producer dell’Indiana Jlin ha fatto la differenza grazie ad un’impronta personale ed immediatamente riconoscibile. Nel suo primo album, i ritmi sincopati ed i samples vengono accelerati e vivisezionati con una violenza inedita. In mezzo a queste schegge impazzite, l’assalto sonoro va di pari passo con una perizia compositiva ed una fantasia capaci di guardare con efficacia ad altre esperienze, ponendola rapidamente al di sopra dello stuolo dei suoi contemporanei.

84. Fuck Buttons – Slow Focus (2013)

I Tangerine Dream saranno orgogliosi di questo disco di pura magnificenza cosmica, che riesce ad andare ben oltre la terrestre psichedelia o la sbornia e la volgarità di certa trance elettronica. I signori Hung e Power intraprendono un viaggio ai limiti della fisica, nel tentativo di scoprire la ragione teleologica, e dunque uno spirituale sopraelevato rispetto ai tribalismi degli esordi.

83. The Bug – London Zoo (2008)

La forma, l’immaginario evocato da Kevin Martin, basterebbe per spiegarne il contenuto. L’insetto che minaccia lo skyline londinese in copertina racchiude le caratteristiche delle tracce qui presenti: consapevolmente dominanti, abrasive, e guidate da una rabbia senza precedenti per il genere. London Zoo offre un brutale concentrato di contaminazioni dub, reggae, grime e industrial, e si rivela un riuscito affresco del meglio che Londra aveva da dare in pasto all’industria dell’epoca.

82. Moderat – Moderat (2009)

Anche se non siete avvezzi al mondo della musica electro e non conoscete i Moderat, supergruppo tedesco nato dall’unione di Apparat e Modeselektor, è molto probabile che vi siate imbattuti in almeno un loro pezzo. “A New Error”, traccia di apertura del loro disco di esordio, è un manifesto creativo di una forza senza pari ed è diventato rapidamente uno dei brani di musica elettronica più utilizzati come sottofondo in vari servizi televisivi, anche mainstream, oltre che suonato in tutti i club techno del mondo. Il suo incedere marziale e potente, con poche variazioni sul tema, è allo stesso tempo un pugno nello stomaco e una scarica di piacere per tutti i clubber del mondo. Il resto del disco alterna episodi più melodici, con vere e proprie canzoni, ad altri ottimi pezzi techno minimali, con influenze dubstep che fanno capolino qui e là. Un ascolto fondamentale per chi vuole conoscere la musica elettronica sviluppatasi su queste coordinate negli ultimi decenni.

81. Amon Tobin – Supermodified (2000)

Nato a Rio De Janeiro e spostatosi nel Regno Unito per esigenze artistiche, il poliedrico producer apre il nuovo millennio con una rinnovata consapevolezza dei mezzi a sua disposizione. Lo spartito del disco è reso noto dal titolo, dove la mutevolezza delle tracce viene estremizzata dal repertorio del brasiliano: breakbeat, downtempo, intricate contaminazioni jazz e una sezione ritmica ampliata rispetto ai precedenti lavori. Supermodified, grazie alla natura caleidoscopica delle composizioni in esso presenti, riesce a suonare come un viaggio di scoperta tanto per l’ascoltatore quanto per l’autore stesso.

80. Sandwell District – Feed-Forward (2010)

Con Feed-Forward, il collettivo formato da Function, Female, Regis e Silent Servant ha dimostrato una volta per tutte quanto la techno possa essere creativa e complessa. I quattro producers non si limitano infatti a chiudersi nei loop, ma dimostrano una visione artistica notevole, decidendo di concedere respiro e pause a questi brani. Le ritmiche dub e l’influenza ambientale non erano certo una novità in un disco techno, ma per quanto evidenti non prendono mai il sopravvento, restando semmai sullo sfondo come cornice efficace nella quale far sviluppare le canzoni. Su tutte, si impongono “Falling The Same Way” e “Immolare”, lo yin e lo yang di un progetto che sa dimostrarsi emotivo come l’IDM inglese e martellante come solo i maestri tedeschi hanno saputo essere.

79. Blanck Mass – World Eater (2017)

Dumb Flesh si concentrava concettualmente sulle debolezze del corpo, mentre World Eater fa i conti con la rabbia e la frustrazione. Il territorio in cui si muove Blanck Mass, per fortuna, non lascia molto spazio alla banalizzazione di tali sentimenti e tenta invece di esprimerli in maniera forse più astratta della media, ma ancora molto diretta. Capita che si affaccino anche vaghe influenze nostalgiche provenienti direttamente dalle nicchie del web, ma queste vengono subito prese a morsi e sommerse dal caos. Lezioni di vita prive di buonismi e false promesse. Serrate i denti e premete play.

78. Dedekind Cut – $uccessor (2016)

Strana storia, ciò che avremmo voluto trovare in Love Streams di Tim Hecker è arrivato alle orecchie sul finire del 2016 da un (semplificando) produttore hip hop californiano. Dedekind Cut è lo pseudonimo di Lee Bannon, che è a sua volta lo pseudonimo di Fred Welton Warmsley III, e il suo $uccessor è certamente più vicino al sound di Oneohtrix Point Never che a quello di Flying Lotus come si potrebbe erroneamente supporre dall’esterno. Un disco ambient dalla notevole forza espressiva, rumoroso e oscuro, disturbato e inquieto quasi quanto i Coil ultima maniera.

77. Bicep – Bicep (2017)

Come spesso accade, nulla di nuovo alle luci dell’alba, ma il duo irlandese Bicep sa il fatto suo. Se i suoni della progressive house e della trance di una volta fanno parte del proprio background musicale, è facile che un lavoro del genere finisca per colpire nel segno di una sana nostalgia, e con grande eleganza. E con un pizzico di melodramma, sostengono gli esperti del settore. Diversi pezzi sono dei veri e propri classici istantanei.

76. Sepalcure – Sepalcure (2011)

Creatura bifronte, Sepalcure è l’unione perfetta di sensualità e ritmo. Quando il cosiddetto post dubstep sembrava essersi spesso insterilito in sofismi sonori sempre uguali, in atmosfere prevedibili e in epigonismi ormai stanchi anche alla luce di risultati spesso mediocri, questo grande LP rimescola le carte in tavola. Impostando un nuovo discorso musicale partendo dalle basi che hanno fatto la fortuna del filone elettronico inglese dell’ultimo ventennio, Sepalcure, realtà americanissima, parte dalle proprie terre selvagge per ricolonizzare l’UK e l’Europa.

75. Guy Gerber – Fabric 64 (2012)

L’idea di sacrificare la propria opera a un marchio non solo è coraggiosa, è folle e, in certi casi, visionaria. Se il marchio in questione è quello del Fabric, i grandi autori capaci di tanta sicurezza e confidenza sono Ricardo Villalobos (Fabric 36), Shackleton (Fabric 55) e, oggi, Guy Gerber. Rispetto agli altri due, è vero, manca la concentrazione intossicata e monomaniaca: il Fabric 64 è un capolavoro di classica bellezza. Profondo, narrativo, esteticamente sottile e appagante, evocativo, romantico, malinconico, sensuale e turbolento. Un album mixato, visto che tutte le tracce sono state prodotte dall’artista, capace di superare il già ottimo disco d’esordio Late Bloomers. Una pietra miliare istantanea.

74. Jam City – Classical Curves (2012)

Col senno di poi, la deconstructed club è stata la corrente elettronica più rappresentativa degli anni Dieci. Eppure, all’inizio del decennio scorso, si trattava semplicemente di un fenomeno sotterraneo legato agli ambienti queer. Perché venisse identificato come un vero e proprio genere, c’è stato bisogno di questo album, capace di anticipare tante tendenze degli anni immediatamente successivi. È già tutto qui: l’accelerazione ossessiva dei pezzi, le varie sezioni dei brani che vengono brutalizzate da tagli improvvisi, la riproposizione di vecchi stilemi ormai irriconoscibili nel miasma sonoro. È difficile dire se proprio l’opera di Jam City rimarrà ai posteri come la massima espressione di questo modo di produrre, ma è abbastanza evidente come in pochi abbiano poi saputo raggiungere tali vette.

73. Jamie xx – In Colour (2015)

Jamie si propone come un artista con idee fresche e personali, totalmente padrone dei propri mezzi e forte di un utilizzo veramente espressivo dei campionamenti e dei software con cui ha scelto di produrre la sua musica. Il motore degli xx è bello e lucente, e nel decennio successivo al clamoroso esordio omonimo del trio del quartiere londinese di Wandsworth, quella raccolta in In Colour è la migliore musica prodotta con la stessa matrice.

72. Vladislav Delay – Anima (2001)

Per il suo terzo lavoro sotto l’alias Vladislav Delay, l’originario di Oulu propone un’unica granitica traccia dalla formula inafferrabile. L’essere così sfuggente e al contempo finemente assemblata rende l’opera un’esperienza multisensoriale, che non per questo va approcciata con riverenza, poiché nel vano tentativo di unire i puntini si perderebbero per strada fondamentali tasselli dell’ascolto. Anima anticipa alcune mosse della carriera di Ripatti e ci insegna ad essere curiosi nel ricercare le bellezze insite nell’ignoto.

71. Skream – Skream! (2006)

Il ragazzo di Croydon è la sintesi umana dell’incontro fra l’arteria pulsante e vitale del dub e l’approccio quasi da ragioniere dell’artista di musica elettronica di nuova generazione. Da Skream! in avanti – dove a spiccare sono la freschezza dei beat e un groove ricercato – l’enfant prodige britannico diventa capace di espandere il suo lavoro dal touch del piatto a collaborazioni efficaci e remix anche molto popolari. La bellissima ritmicità che caratterizza i suoi diversissimi lavori è un marchio unico che continua a pervadere i territori elettronici d’oggi.

70. Ross From Friends – Family Portrait (2018)

Family Portrait racchiude in sé tutti gli elementi necessari per piacerci. Presenta quel suono apparentemente stropicciato e nostalgico che avevamo adorato all’epoca del glo-fi, ma le vibrazioni emesse dalle casse sono potenti irresistibili. Le melodie sono memorabili e, a livello di attitudine, i pezzi viaggiano costantemente su quel filo che separa la malinconia dal divertimento, ti fanno sentire tutto senza prendersi troppo sul serio né nell’uno né nell’altro caso. Con l’house music che sembra non morire mai, questa declinazione indipendente è perfetta per le nostre orecchie.

69. Alva Noto – Xerrox Vol. 1 (2007)

Inseguire ciò che è melodico viene associato ad un piccolo fallimento da artisti fortemente dediti alla sperimentazione, che fanno della manipolazione sonora il proprio credo. Carsten Nicolai lima la sua ruvida proposta con in mente non l’ostinata ricerca dell’accessibilità, ma il ben più nobile scopo di avvalorare le sferzate glitch diluendole in un’ambient, udite udite, vulnerabile. Primo tassello di quella che è forse l’opera più espressiva della sua carriera, Xerrox Vol. 1 è responsabile dell’elevazione ad arte di un sound spaventosamente moderno.

68. Caribou – Our Love (2014)

Con Our Love, Caribou vince su tanti fronti: comunicazione sincera e onesta, costruzione e disposizione dei pezzi formalmente perfetta ma anche audace all’occorrenza, nonché, soprattutto, rielaborazione personale di una varietà di stili ormai conosciutissimi nell’ambiente. Se nel 2014 sei riconoscibilissimo anche se ti metti a fare chillwave, R&B e garage, significa che di tuo ci hai messo tanto e la vittoria è automatica. Di Dan Snaith in Our Love c’è tanto anche oltre la musica, e la scelta di aprirsi al proprio pubblico e parlare del più classico dei temi da canzone pop, l’amore, è forse più rischiosa di qualunque ardita sperimentazione.

67. Objekt – Flatland (2014)

Esordio su lunga durata per TJ Hertz, producer tra i più acclamati della scuola di Berlino. Pur facile da inquadrare entro un paio di filoni della musica digitale, Flatland è uno di quegli album di pura elettronica che non risulta né sperimentale, né conservatore, ma che riesce a risultare intrigante per tutta la sua durata. Forse non il disco da club che nei suoi intenti Hertz sperava di realizzare, perché in queste undici tracce lo spazio per un’idea di uomo è del tutto assente o assorbita in un astrattismo robotico, senza spirito né cuore. Ma alla fine dei giochi, ripensandoci, proprio questo essere marziana e di non ovvia lettura rende quest’uscita così attraente. Il suo club è differente.

66. DJ Rashad – Double Cup (2013)

Ci sono alcuni album che nascono già con la consapevolezza di fare da spartiacque ad interi movimenti. È il caso di Double Cup, che ha definitivamente imposto all’attenzione del pubblico il suono del footwork di Chicago. DJ Rashad, uno dei pionieri di questo stile, non ci ha regalato solo quello che forse è il classico definitivo di un genere che ha contribuito a creare, ma ha dimostrato come questa musica potesse evolvere in qualcosa di esaltante. I samples che si rincorrono rapidissimi, gli hi-hat scoppiettanti, le batterie spinte ai limiti delle loro possibilità: sono questi gli ingredienti fondamentali, ma non è tutto qui. La morte di Rashad pochi mesi dopo ha trasformato questo album in una sorta di testamento, del quale il lascito più importante è una dichiarazione d’amore e di appartenenza alla tradizione musicale della sua città.

65. The Other People Place – Lifestyles Of The Latpop Café (2001)

La convinzione di trovarsi semplicemente davanti a una lezione del meglio che la scena di Detroit aveva da proporre durò un solo anno, per poi essere seguita dalla notizia della prematura scomparsa di James Stinson. Da qui si iniziò a spulciare Lifestyles Of The Laptop Café in cerca di note di commiato che, a ben vedere, erano lì sin dal principio. Con le sue otto perle di techno minimale, dal sapore trip hop prima e deep house poi, l’LP è un viaggio nell’indole dell’americano, nonché testamento di un intero movimento che di lì a poco avrebbe esalato l’ultimo respiro.

64. King Midas Sound – Waiting For You (2009)

King Midas Sound è un progetto della Hyperdub firmato Roger Robinson e Kevin Martin. Per Waiting For You, i due si sono avvalsi del contributo della cantante e illustratrice Kiki Hitomi (suo infatti l’efficace artwork), giapponese di base a Londra. Si tratta di un disco sì immerso nel contesto dubstep e certamente parte del filone, ma che si muove di qua e di là del suo confine per abbracciare di volta in volta sensazioni differenti; eppure, ben amalgamate fra loro. Waiting For You rilascia fumi di urban soul mentre scorre lungo la trasversale diretta al termine della notte. Non resta che attendere il buio, accendere una candela e inforcare le cuffie. 

63. Disclosure – Settle (2013)

La proposta di casa Disclosure è garage di facilissimo ascolto, una fotografia ben a fuoco del dancefloor di fine anni Novanta con l’esperienza future bass. Settle è frutto di un gusto melodicamente impeccabile, fatto di puro sesto senso e, contemporaneamente, di genuinità e verità. Insomma, tutto scorre nella direzione e nel modo previsto dall’istinto, reinterpretando a proprio modo quello che al tempo era la concezione del vintage: di un’epoca passata e al contempo assolutamente nuova.

62. Visible Cloaks – Reassemblage (2017)

Reassemblage ha la capacità di evocare immagini così vivide da sembrare reali, trasportando l’ascoltatore in un viaggio attraverso le meraviglie del Sol Levante. È uno dei dischi ambient più particolari ed interessanti degli ultimi anni, perché la fascinazione per la new age nipponica non si traduce in una musica fastidiosamente stereotipata, rappresentando invece una delle tante fonti sonore dalle quali attinge questo progetto. I viaggi sensoriali di Reassemblage sono lì a dimostrarci, una volta di più, che nella musica le differenze culturali e la distanza sono estremamente facili da superare.

61. George Fitzgerald – Fading Love (2015)

Fitz costruisce brani corti dal nucleo melodico molto forte, spesso con un arricchimento vocale determinante nella creazione di una musica ormai ben lontana dai primi esperimenti dubstep. “Call It Love”, con il suo giro di basso riuscitissimo e il circolare refrain, era il perfetto esempio di come un brano dovesse suonare all’epoca, così intriso di richiami ad una musica elettronica allo stesso tempo berlinese e londinese da riuscire a esprimere una sorta di sfumatura rock non tanto nella struttura quanto nello spirito.

60. Shed – Shedding The Past (2008)

Rene Pawlovitz si è imposto come uno dei più importanti artisti techno della sua epoca grazie alla sua capacità di farsi influenzare da ciò che stava intorno a lui pur rimanendo sempre consapevole dei grandi maestri del passato, in un periodo in cui il genere rischiava di impantanarsi in schemi abusati e ripetitivi. Il producer tedesco invece ha dimostrato di possedere una fantasia policroma, sapendo passare con assoluta maestria da schegge da dancefloor come “Another Wedged Chicken” a maestose sinfonie ambient techno sulla scia dei migliori Orbital come “Slow Motion Replay”, trionfando col breakbeat spezzettato della bellissima “Estrange” e con “Ithaw”, che con i suoi samples vocali eterei e il suo andamento notturno guarda addirittura a Burial. Un trionfo in piena regola, a cui nemmeno il suo autore riuscirà più ad avvicinarsi.

59. Akufen – My Way (2002)

La Trapez è stata un’etichetta fondamentale per lo sbocciare del fenomeno microhouse, e quello di Marc Leclair rientra certamente nei suoi nomi di punta. Con My Way, il canadese si aggrappa alle radici del genere e realizza un lavoro meticoloso, dove l’ascoltatore viene spinto a scomporre nel minor numero di pezzi possibile un puzzle che, una volta portato alla sua forma più spoglia, emana amore verso i glitch, il sampling, e tutti quei lampi sonori che rendono tale il genere. Un inno all’attenzione per il dettaglio e alla gioia di veder nascere le proprie produzioni.

58. Kuedo – Severant (2011)

Un debutto destinato a un pubblico ben più ampio di quello della nicchia dubstep, e capace di abbracciare sonorità che rimandano a concetti IDM, hypnagogic e addirittura della kosmische musik. Così facendo, Jamie ha realizzato qualcosa di certamente più ruffiano, ma che, come un vino invecchiato in botte grande, riesce a mantenere tutti i sentori del frutto, apparendo sin dal primo approccio elegante e ricco nel bouquet di suoni, così da poter far concorrenza al tanto venerato Four Tet.

57. Iglooghost – Neō Wax Bloom (2017)

Fate finta di aver riempito la lavatrice di robe belle, che vi mettete quando volete fare bella figura, le varie camicie scure, pantaloni con la piega, calzini chic, e poi, solo dopo aver fatto partire il lavaggio, vi ricordate che nel cestello ci avevate messo anche le magliette di guerre stellari e dei Radiohead e la canotta NBA con la quale dormite, che vi spuntano davanti a singhiozzo coi loro colori accesi in un mare di colori scuri ed eleganti. Ecco, questo è Neō Wax Bloom: fantasioso, schizofrenico, iper-stratificato. E bellissimo.

56. Mount Kimbie – Crooks And Lovers (2010)

I Mount Kimbie, con Crooks & Lovers, ci propongono un disco capace di proporci un sound più che delle canzoni: un’idea di musica, una normativa sonora. Le tracce si susseguono suggerendoci immagini formali e nuove, dove il discorso musicale intrapreso precedentemente attraverso la macrostruttura degli EPs si rinfrange a livello microstrutturale e nell’ordine dei brani in un cosmo(gramma?) coloratissimo sì, ma lieve e impressionistico. Il tutto però attraverso una rifrazione concreta, che diventa rimbalzo di materia e rottura; i brani diventano scaglie di specchi spezzati che guardano e ci fanno guardare in plurime direzioni: la struttura si spacca e l’ascolto si decentra, comunica instabilità, precarietà. Siamo già oltre il dubstep e il suo accento temporale: siamo oltre le porte del futuro perché siamo esattamente sulla soglia fra due porte.

55. Skee Mask – Compro (2018)

Questo progetto di Bryan Müller parte sempre da una base di batteria e breakbeat che in seguito si adatta alle modalità di certa techno ormai vintage. Spostandosi ora su coordinate più IDM, Compro è un LP che funziona soprattutto quando Müller lascia che siano le trame ambient a dettare l’umore, permettendo di immaginare scenari eterei, glitch e postmoderni. Chi è partito con le prime uscite di Aphex Twin, Autechre e LFO, non potrà non godere di un ottimo lavoro nostalgico come questo.

54. Herbert – Bodily Functions (2001)

Conosciuto per i suoi metodi anticonvenzionali in fase di produzione, Matthew Herbert firma all’alba del nuovo millennio il suo lavoro più ricercato. Bodily Functions emana una strana familiarità dettata dall’apparente linearità delle composizioni, ma si fa presto ad alterare questa sensazione man mano che si afferrano le sfaccettature dell’LP, il cui obiettivo è quello di esplorare le potenzialità sonore del corpo umano per elaborarle in salsa nu jazz. Un’opera di raro ingegno a cui nemmeno il britannico stesso sarebbe poi riuscito qualitativamente ad avvicinarsi.

53. Demdike Stare – Symbiosis (2009)

Demdike Stare, un duo di Manchester formato da Sean Canty e Miles Whittaker, ha proposto con Symbiosis una visione originale e altamente sperimentale della musica post dubstep che iniziava a svilupparsi in quegli anni. La fascinazione per le ritmiche esotiche conferisce ai pezzi dei colori inediti, espandendo in svariate direzioni il pulsare ritmico tipico del dub metropolitano. Parlare di colori potrebbe però risultare fuorviante, perché i brani che compongono questa compilation si presentano cupi e spettrali fino all’eccesso. Le variazioni timbriche e di ritmo sono estremamente sofisticate, in alcuni casi addirittura subliminali, e si impongono come metro di paragone per chiunque dopo di loro provi a raggiungere il fondo dell’abisso: artisti come The Haxan Cloak hanno sicuramente fatto tesoro di questa lezione.

52. Leyland Kirby – Sadly, The Future Is No Longer What It Was (2009)

I titoli di coda della prima decade targata Duemila segnano per Leyland James Kirby una piccola separazione dall’alias The Caretaker, occasione utile per dedicare del tempo a sé stesso e uscire dalla spirale negativa che all’epoca lo teneva prigioniero. Ispirandosi a pilastri del genere come Brian Eno e William Basinski, l’albionico decide di tramutare quei momenti di perdizione in evocativi passaggi dark ambient trainati da un pianoforte cupo, elegiaco, che scava nelle profondità dell’ascoltatore e contempla un futuro in caduta libera.

51. St. Germain – Tourist (2000)

La vastità di scene che il nuovo millennio avrebbe visto nascere di lì a poco non era pronosticabile nemmeno dai più attenti, eppure sul DJ francese erano stati puntati i riflettori già dall’ottimo incasso ottenuto in patria con Boulevard. Tourist vede emergere non solo tutto il potenziale di Ludovic Navarre, ma il primo vero e proprio connubio di jazz e musica elettronica in chiave dancefloor, esperimento che avrebbe spinto sempre più artisti a cimentarsi in questa unione.

50. Boards Of Canada – Tomorrow’s Harvest (2013)

Eternamente enigmatici e assolutamente non curanti di quello che regge le sorti della musica odierna, i Boards Of Canada rimangono tra le poche realtà artistiche che ci tengono ancorati a quella sensazione romantica, e spesso dimenticata, di dover cercare risposte nella musica semplicemente ascoltandola ancora, e ancora. Il loro ritorno sulle scene è un piccolo evento per chi segue la musica elettronica, e rimane negli anni come uno dei lavori più coesi di IDM e ambient techno di questi anni. 

49. Lorenzo Senni – Persona (2016)

Dopo l’ingresso di Clap! Clap! negli elenchi della Warp Publishing ecco un altro italiano entrare in orbita Warp, e in questo caso addirittura dalla porta principale della casa madre: ora il nome di Lorenzo Senni compare vicino a quelli di Aphex Twin, Autechre, Flying Lotus, Boards Of Canada e Brian Eno. Non male, eh? Impossibile non sentirsi orgogliosi. Un posto meritatissimo che corona un percorso di ricerca sonora che ha preso le mosse dalle scene hardcore (punk e digital) e dai pausoni dei brani trance (chi c’era sa) per raggiungere un punto che ad oggi trascende le definizioni. E, cosa ancora più importante, tutto è accaduto in piena libertà e inseguendo il divertimento più puro. Persona è un EP di talento e visione.

48. DJ Healer – Nothing 2 Loose (2018)

Ascoltando Nothing 2 Loose la sensazione è quella di essere sospesi in un paesaggio etereo perfettamente delineato da un’ambient house che nei suoni è riuscita a portarsi avanti, rispetto ad un passato di nomi ingombranti per farsi molto personale e inaspettata. Una sensazione anche d’immersione in cui tutto, dalle voci ai synth e ai bassi, è incredibilmente reale, umano e vicino all’ascoltatore.

47. Metro Area – Metro Area (2002)

L’omonimo dei Metro Area è un prodotto club-oriented sulla lunga durata così ben confezionato da sfuggire a qualunque etichetta concepibile al tempo, in quanto riesce con la sua proposta apparentemente semplice a tracciare le coordinate della dance del nuovo millennio. La prova del duo americano racchiude le declinazioni di un genere che si svuota dei suoi seccanti cliché per attualizzarsi, al punto di fungere come riferimento per una miriade di DJ emergenti e di scene che sotto l’ala protettrice della Grande Mela avrebbero avuto la possibilità di splendere negli anni a venire.

46. DJ Dixon – Body Language Vol. 4 (2007)

Ripetutamente premiato come miglior DJ in circolazione, di Dixon possono essere messe in discussione alcune scelte stilistiche, che tuttavia riguardano le fasi più recenti della sua carriera. Certamente, mai nessuno avrà il coraggio di cercare il pelo nell’uovo in Body Language Vol. 4, sia data l’innegabile capacità del tedesco di lasciare alle singole tracce uno spazio che tanti riterrebbero eccessivo – e di sfruttare ciò come uno dei maggiori punti di forza del mix – sia perché, semplicemente, non lo si riuscirebbe a trovare.

45. Against All Logic – 2012-2017 (2018)

Ragionando col senno di poi, era ovvio che un talento naturale come Nicolas Jaar ci avrebbe fregato tutti in contropiede prima o poi e nel 2018 lo fece con un gioiello di puro godimento house: niente più sobrietà, malinconia e impegno politico, bensì il lato caloroso ed espansivo del cileno, con vere e proprie tracce da club, singolo, mix, ci siamo capiti. È vero, noi in fondo avremo sempre un debole per l’altra sua faccia, ma ignorare che gemme come “Now U Got Me Hooked” e “Some Kind Of Game” figurino ancora in ogni singola playlist del web sarebbe da folli.

44. Arca – Mutant (2015)

Il linguaggio di Mutant è assimilabile a quello ai pianoforti polverosi di Tim Hecker e al caos di Oneohtrix Point Never, con un orecchio al Flying Lotus pre jazz, ma l’elettronica di Arca è un edificio ultramoderno nel cuore di una foresta pluviale, lontano dalle influenze della civiltà. Non si attiene a un copione prettamente fantascientifico, ma inserisce a tradimento misteriosi e affascinanti elementi tribali, trascina l’ascoltatore in mezzo alle rapide guidandolo tra le rocce affioranti col cuore in gola, poi lo lancia giù per la cascata percuotendone i timpani con scariche di suoni interpolati. Lo dice la prima traccia della lista: “Alive”. Mettersi seduti, aspettre e subire. Astenersi spiriti poco avventurosi.

43. Jan Jelinek – Loop-Finding-Jazz-Records (2001)

A volte la pazienza richiesta da un determinato ascolto non è la stessa che si è effettivamente disposti a concedergli, ed è per questo motivo che lavori come Loop-Finding-Jazz-Records vanno approcciati con una buona dose di diligenza. Nelle orecchie dei più insistenti la fatica del tedesco si dispiega nelle sue intuizioni, dove la natura jazz serve esclusivamente a dar forma a un ambizioso quadro generale, in cui la ripetitività glitch celebra il carattere sperimentale di Jelinek e tiene conto di una modernità via via più alienante.

42. Four Tet – Rounds (2003)

Il terzo lavoro di Four Tet traccia un segno indelebile, nel cui solco inciamperanno tanti ascoltatori e tanti musicisti. Rounds è un raggiro fatto a fin di bene. È un disco decisamente complesso, stratificato, ma in cui l’armonia e il ritmo riescono a ridurre l’ascolto distratto alle sue categorie di base di bellezza estetica. Rounds è anche un gioco di parole, un calembour in cui melodie fingono di inseguirsi simili a gocce d’acqua, per poi infrangersi all’ultimo e ricompattarsi al contrario, stonate un po’, con qualche accento diverso, dando all’insieme un’idea IDM che rende estremamente interessante l’ascolto più attento. Comporre bellezza come azione adulta per poi scombinare tutto e ripresentarlo in una forma (quasi) uguale. Un raggiro.

41. Burial – Burial (2006)

Burial può essere considerato il definitivo passo per la completa legittimazione di un campo, la dubstep, fino a quel momento mai capace di inserirsi definitivamente fra i generi più considerati nell’elettronica. Decisiva, oltre all’impressionante ondata di interpreti del genere (su tutti Kode9), è stata la sensibilità di Burial, capace di farcire ritmiche spezzate e sincopate con suoni metallici, freddamente emozionali, uscendo dai canoni classici della dubstep in genere più vicini alla musica da club, smorzando le basi in favore della cura del suono e delle atmosfere, raggiungendo una suggestiva coerenza compositiva in grado di far della sua musica un mezzo espressivo completo e in quanto tale capace di avvolgere magicamente e totalmente.

40. Michael Mayer – Immer (2002)

Il DJ mix è un formato spesso incompreso dai fan di altri generi, ma la sua importanza nel mondo elettronico è fuori discussione. Esso rappresenta la visione dell’artista a 360 gradi, con la sequenza dei brani inseriti che deve riuscire al tempo stesso ad omaggiare l’opera originale e formare un viaggio emozionante, oltre che coerente. Michael Mayer ha fatto questo, e molto di più, in Immer. Attingendo principalmente alla libreria Kompakt, non solo è riuscito a raccontare una storia destinata a rimanere nel tempo, ma ha lanciato la nascente scena microhouse tedesca ad un livello superiore. Rimane pertanto molto più rilevante di tanti album in studio degli stessi anni, una nitida fotografia del suo periodo che tuttavia riesce sempre a risultare attuale ed avvolgente come le tracce minuziosamente scelte.

39. Boards Of Canada – Geogaddi (2002)

Il duo scozzese aveva già lasciato un segno indelebile nel 1998 col bellissimo Music Has The Right To Children, ma è con Geogaddi che iniziano a prendere il largo sui loro inseguitori. Il loro suono, sempre al confine tra IDM, glitch, ambient ed hip hop strumentale, si sublima qui in un traguardo formale con un lavoro estremamente intricato ma anche sinceramente emozionante. I pezzi che compongono questo puzzle non si discostano troppo da quelli già proposti nel disco precedente dal punto di vista sonoro, ma sono il frutto di una maggiore consapevolezza e maestria in fase di composizione e montaggio. Per comprendere realmente la portata dell’opera, il viaggio va goduto dall’inizio alla fine, ma sarebbe impossibile non menzionare perlomeno “The Beach At Redpoint”, che sullo sfondo di una melodia che si ripete ciclicamente scatena a metà un set di percussioni disarticolate, o la meravigliosa “Music Is Math”, un inno al tempo stesso malinconico ed inquietante che si impone come uno degli apici della musica elettronica degli ultimi vent’anni.

38. Huerco S. – For Those Of You Who Have Never (And Also Those Who Have) (2016)

Da notare come due delle pubblicazioni ambient più interessanti del 2016 (questa e Animal Disk di Jorge Velez) siano nate in seno alla scena house/techno contemporanea (L.I.E.S. e Proibito). A livello compositivo l’albo in questione ricorda i loop ritmati di Lorenzo Senni; i suoni invece sono totalmente estranei alle atmosfere ipernitide della pointillistic trance. Strettamente correlato alle tematiche bucoliche di Velez, si differenzia per i suoni organici e per le ipnotiche melodie rituali. Col predominio dell’estetica HD, è una scelta stilistica coraggiosa.

37. Fennesz – Endless Summer (2001)

Anticipatore di alcuni degli orizzonti che sarebbero stati esplorati dal panorama elettronico e non, Christian Fennesz chiude la sua avventura sotto l’etichetta Mego firmando il capolavoro della carriera e, probabilmente, del glitch tutto. L’effetto calmante della chitarra nel mare di distorsioni in cui viene immersa è simbolo della rivoluzione in atto nel percorso dell’austriaco, sempre più calato in una dimensione quasi dedita alla forma canzone che, grazie alla contrapposizione con la cacofonia, rende Endless Summer un albo sì alieno, ma sorprendentemente cosciente.

36. Autechre – NTS Sessions 1-4 (2018)

Il vocabolario definitivo del sound Autechre si trova nei quattro volumi delle NTS Sessions. Se il quantitativo di roba prodotta con la sequenza degli elseq aveva spaventato i più, che dire delle otto ore complessive di queste sessioni realizzate da resident per l’emittente NTS? Eppure, si tratta di una delle loro uscite più amate in assoluto, considerate come il loro miglior lavoro dai tempi di Confield, forse proprio perché contengono un po’ tutto il loro mondo dei dieci anni precedenti, anche se in versione molto, molto aliena. L’elevato numero di pezzi, ben trentasei, crea l’illusione di poterne diluire meglio l’ascolto rispetto agli elseq, recepiti per lo più come una massiccia e impenetrabile fortezza. Delle NTS Sessions è difficile parlare in maniera estensiva senza scendere in epicamente noiose descrizioni track-by-track; l’ideale sarebbe imparare ad immergersi nell’intero complesso delle Sessioni, per trovarvi qualcosa di nuovo e di più bello ogni volta.

35. Tim Hecker – Ravedeath, 1972 (2011)

Mentre ci lasciamo portare via dalla suite in tre parti “In The Fog”, in un inesorabile scorrere di nebbia, grigiore e paesaggi desolanti, diviene chiaro l’umore dell’album: siamo entrati in un mondo plumbeo, tetro, con note sfumate di pianoforte in lontananza, echi d’organo e strati melodici che compongono crescendo rumorosi. Come ogni altro lavoro ambient, è visionario e lascia molto spazio all’immaginazione. L’atmosfera creata da Hecker lo rende pesante e molto esigente in termini di attenzione, forse un po’ troppo per chi magari non ha intenzione di lasciarsi catturare da momenti di profonda riflessione. Meglio, almeno rimaniamo in pochi ad ascoltarlo.

34. Pantha Du Prince – This Bliss (2007)

Se in Diamond Haze il tedesco si sentiva ancora in dovere di includere, seppur in piccola parte, quelle sei corde tanto care alla sua formazione, la struttura di This Bliss è techno nella sua forma più fredda e meccanica. In opposizione, Hendrik Weber lascia esprimere il calore umano del disco ai tocchi del carillon o a tele orchestrali sopra cui dipinge sognanti passaggi dub. Qui siamo dinanzi alla maturazione di chi aveva lasciato intravedere un talento del quale forse non era pienamente consapevole, attraverso cui ci avrebbe cullati per una decade a livelli esemplari.

33. The Haxan Cloak – Excavation (2013)

È la cupola della londinese Tri Angle a metterci la faccia; c’è un iniziale disorientamento visti i trascorsi drone metal del producer inglese, che tuttavia riesce a rendere coerente la sua proposta grazie a un maggiore utilizzo dell’elettronica, che richiama sia l’esordio dei Raime che le escursioni di inizio anni ‘10 di Burial, in un concept dalle tinte nerissime.

32. Floating Points – Crush (2019)

Il punto di partenza dell’LP è la scena UK Bass da cui Sam Shepherd è emerso ormai oltre un decennio fa. Traccia dopo traccia Crush consolida i molti lati e la sensibilità dell’artista, organizzando lo sviluppo del suo marchio, ad oggi riconosciuto come DJ club, compositore, proprietario di etichetta e produttore. Sono dodici pezzi di complessa elettronica che coinvolge esempi perfetti di melodie di synth modulari. Un piacere da ascoltare con il giusto impianto audio.

31. Nicolas Jaar – Space Is Only Noise (2011)

Prova intensa, complessa, ambiziosa quanto appagante nei suoi saliscendi d’umore ed atmosferici. Un quadro straordinariamente diversificato, in cui Jaar ha sorprendentemente saputo conservare l’eleganza impeccabile, la compostezza stupefacente di chi nasce con il dono del gusto, apertamente visibile tra le strutture marcatamente dimesse del suo modo intelligente di concepire la microhouse. Negli anni si è rivelato più rilevante e consequenziale di quanto era sembrato all’epoca.

30. Booka Shade – Movements (2006)

Il duo tedesco decide di attirare l’attenzione di critica e pubblico con una formula pressoché ineccepibile per quegli anni, ossia un tripudio tech house dall’incedere ipnotico che strizza l’occhio ad un’orecchiabilità mai stucchevole. In Movements a fare da padrona è la rotondità dei bassi, che risalta nella prima metà della scaletta per poi liberare la sua carica impetuosa con “In White Rooms”, dove a spiccare è la vena techno dei teutonici. Da qui in avanti i Booka Shade decideranno di inseguire ostinatamente i grandi numeri senza successo, donando a Movements uno status di cult ancor più pregiato.

29. Oneohtrix Point Never – R Plus Seven (2013)

Il disco in cui diviene conclamato che Daniel Lopatin altri non è che l’Aphex Twin dei nostri anni, quello in cui esibisce il suo immenso patrimonio immaginifico, il genio visionario supportato da una varietà sterminata di suoni di qualità sconcertante, che spaziano dalle voci liriche a vibrazioni provenienti da altri pianeti fino all’impiego di pianoforte e sassofono. Non si può più parlare di musica elettronica senza conoscere questo artista.

28. Trentemøller – The Last Resort (2006)

La Danimarca trova il suo principino dell’elettronica, l’Amleto anno doppiozero, che si presenta alle scene mondiali con un disco monumentale. The Last Resort è la sintesi musicale delle effusioni nordiche con Berlino e il suono che proprio negli stessi anni riscalda più di un produttore, bpitchiani per primi. Come una brioche con il gelato, il caldo e il freddo si mescolano per un sapore musicale mai aspro, ma sempre avvolgente e pieno, capace di soddisfare le esigenze più ricercate e soffuse come quelle meno controllate e più dancefloor-oriented. Capolavoro che, come ogni capolavoro, fonda un mondo e detta una legge, una giurisprudenza di battiti e suoni che, prima, solo raramente ci hanno trovato così nudi dinanzi a noi stessi. 

27. Amnesia Scanner – AS (2016)

La loro musica è sufficientemente fuori di testa da non poter passare inosservata, il loro è un caos minaccioso e ballabile, tanto disturbante quanto irresistibile. L’unico problema è che AS finisce troppo presto, e allora ci si ritrova costretti ad ascoltare e riascoltare in loop gli stessi pezzi, rasentando a tutti gli effetti la follia. Per fortuna sul finire del 2016 si è aggiunto AS Truth, che fa raggiungere al tutto un minutaggio finalmente soddisfacente. E la soddisfazione dell’utente finale, per degli Xperienz Designers, ha giusto un pelo d’importanza.

26. Andy Stott – Luxury Problems (2012)

La nuova operazione di Stott consiste in gran parte nella rielaborazione dei propri tratti stilistici usuali e ciò che sorprende maggiormente è la varietà di generi presenti in Luxury Problems, un disco difficilmente etichettabile, che non dà altro punto di riferimento se non quello di avere un sound estremamente personale, capace di fagocitare avidamente i generi in vista di un nuovo disegno sonoro stilisticamente inedito. Stott gioca con le compressioni e scava dei solchi profondissimi, pezzo per pezzo ricrea la sua ambientazione ideale e col passare dei minuti i brani si stratificano diventando sempre più ipnotici, oscuri. 

25. Actress – Splazsh (2010)

Attraverso protesi di beat simil-industrial che si mixano con i suoni della matematica, Darren Cunningham produce un disco in grado di spaziare da momenti dove quasi si scherza con le linee di basso a cavalcate techno di enorme portata. Tutto il disco è un rilancio continuo alle miriadi di manifestazioni che i vari dispositivi elettronici possono fornire e, con il suo occhio per un’avanguardia che anziché innovare a tuttotondo si concede delle battute per cantare i vari sound del presente (e forse anche un po’ del passato), mette in luce tutta la vena creativa di un nome divenuta garanzia del panorama contemporaneo.

24. GAS – Pop (2000)

Che Wolfgang Voght non fosse un compositore come tutti gli altri, si era già capito da Zauberberg e Köningforst, che a fine anni ‘90 avevano reso la sua figura una delle più rilevanti in campo ambient techno. Ma Pop alza notevolmente la posta, trasfigurando quello che già era un approccio originale alla materia in qualcosa di unico. Parlare di techno in questo album in realtà può apparire fuori luogo, visto che il beat riappare solamente in due tracce, rendendo prevalente la componente ambientale. Le foglie che cadono, la pioggia che scorre, il vento che si insinua tra gli alberi: questi samples naturali vengono integrati nelle melodie tracciate dai synth che devono qualcosa alla gloriosa scuola cosmica tedesca. E così gli otto, nove, dieci minuti di turno scorrono senza mai risultarci indigesti, dimostrando che abbandonarci in mezzo alla natura rende relativo il concetto di spaziotempo.

23. Stars Of The Lid – The Tired Sound Of (2001)

Due CD per sei suite frammentate in un susseguirsi di movimenti eterei, ovvero l’idea che Brian McBride e Adam Wiltzie decidono di mettere in pratica in quello che rimane l’apice della loro carriera, nonché un punto fermo del drone tutto. Tomo così intimo e così maestoso al tempo stesso, The Tired Sounds Of è un sogno lucido in cui la realtà circostante viaggia al rallentatore e si ha l’occasione di gestire a proprio piacimento quei piccoli attimi che contano davvero, accompagnati da un tappeto ambient agrodolce capace di toccare le corde più importanti: quelle dell’anima.

22. James Holden – Balance 005 (2003)

Non c’è neanche bisogno di ribadirlo: James Holden è uno dei più creativi musicisti elettronici del nuovo millennio, e Balance 005 va tenuto in considerazione quando si discute del miglior DJ mix mai realizzato nella storia. Difficile credere che questi pezzi siano stati composti singolarmente e non come parte di unico progetto, eppure è così. Il tutto suona come un flusso continuo, nel quale nulla è fuori posto e tutto ha il proprio senso. Ogni rallentamento è funzionale all’esperienza, ogni accelerazione euforica ci riporta sulla pista da ballo più esaltati di prima. In mezzo alle tante perle, spicca il crescendo enfatico del mix di “Outhouse”, un pezzo di Nathan Fake che Holden piazza al posto giusto nel momento giusto per farci rapire definitivamente da un lavoro immortale.

21. William Basinski – The Disintegration Loops (2002)

Limitandosi ad un’analisi musicale superficiale, non c’è poi molto da dire sulla serie Disintegration Loops: si tratta, come da titolo, semplicemente di loop che si autodistruggono nel vuoto sullo sfondo di ripetitive melodie di synth. Ma questo non ci restituirebbe assolutamente la profondità dell’opera di Basinski, in realtà una meditazione metafisica che richiama alla tragedia dell’11 settembre. All’interno di una serie così influente per tanti artisti successivi, abbiamo deciso di citare il primo volume, il più emozionalmente intenso di tutti. La musica contenuta qui dentro attraversa un suo ciclo vitale, rendendosi dapprima indipendente dallo stesso autore che l’ha composta e successivamente decomponendosi fino a morire, espandendosi minacciosa come la coltre di fumo che avvolge la città ritratta in copertina.

20. Pan Sonic – Kesto (234.48:4) (2004)

Definire Kesto (234.48:4) come un progetto sperimentale sarebbe riduttivo, se non addirittura irrispettoso. Si tratta semmai di un manifesto programmatico che indaga le nevrosi della società moderna, e che raggiunge dei risultati mai più sfiorati nel suo campo. Il combo finlandese qui si spinge nettamente al di là di quanto fatto precedentemente, con un progetto ambizioso e visionario che nelle sue quasi quattro ore racconta una vera e propria storia. Passando da una brutalità estremamente fisica al nulla cosmico nell’arco di quattro dischi, oltre ad un’opera chiave per l’elettronica, i finlandesi hanno composto una colonna sonora sul senso stesso dell’esistenza umana.

19. Luomo – Vocalcity (2000)

Sasu Ripatti non sa stare con le mani in mano. La scelta di cambiare moniker in continuazione ha un senso molto preciso: con ognuno di essi, egli esplora generi e mood differenti. Così, messe da parte le lunghe pieces ambient dub che lo avevano reso famoso, con Luomo il finlandese indaga le possibilità dell’uso delle voci nell’house music. Molto diverso, dunque, da Anima, che pure di house aveva moltissimo: qui troviamo un suono più caldo, più avvolgente, in parte anche più semplice. Questo non toglie nulla però alla sempre sofisticata ricerca musicale dell’autore, che anzi in questo formato più libero e divertito compone quello che probabilmente è il suo capolavoro. I lunghi pezzi attraversati da pulsazioni irresistibili, settano il nuovo standard per la microhouse del decennio, sostituendo ai glitch usati come espediente da altri artisti una più profonda ricerca emotiva. Ma è inutile perdersi in ulteriori descrizioni cariche di paroloni di sorta: mettete “Tessio”, una degna candidata al titolo di miglior pezzo house di sempre. E tanto basta.

18. SOPHIE – Product (2015)

È difficile non riascoltare questi rivoluzionari singoli con una punta di malinconia, vista la fine prematura di SOPHIE. Eppure, quando sono apparsi per la prima volta sulla scena musicale, essi volevano comunicare tutt’altro: gioia, orgoglio della propria identità, divertimento e libertà creativa. È quindi invece abbastanza facile quantificare l’importanza di queste canzoni nelle varie evoluzioni dell’elettronica del decennio scorso, che è altissima: se l’esperienza PC Music ha immaginato il pop del futuro, SOPHIE ha mandato a sbattere queste melodie volutamente esagerate e zuccherose contro muri di rumore post industriale, rivelando la loro vera essenza. Questa compilation è decisiva per lo sviluppo di bubblegum bass, deconstructed club, e per tutto quello che vi pare: a prescindere dai generi, rimane l’unicità di una producer che poi avrebbe espanso il suo suono verso nuove direzioni. Non ci è dato sapere fino a dove questa ricerca sarebbe arrivata, non ci rimane che ascoltare con grande rimpianto la risicata ma al tempo stesso immensa produzione di un’artista straordinaria che ci ha lasciato troppo presto.

17. Machinedrum – Room(s) (2011)

Il suono iperattivo di Chicago e Detroit è il collante per tutte le diversità di cui Machinedrum è il riassunto, dando quella stessa sensazione di compattezza, di impossibilità di fuga che contribuisce ad aumentare il senso di tragicità di cui è cosparso l’album. All’ascolto, non è raro ritrovarsi in quegli stati mentali meditativi, urbani e malinconici resi cari da Burial come dagli stessi Sepalcure, fatti di suoni impercettibili, sintetizzatori pensosi e bordate che risvegliano l’anima. Al passo coi tempi, già senza tempo.

16. Various Artists – Mono No Aware (2017)

La compilation di ambient music più coinvolgente di questi anni è edita dalla PAN e si intitola Mono No Aware, che nella cultura giapponese indica l’essere coscienti dell’impermanenza delle cose e, in questo, l’essere in grado di coglierne l’effimera bellezza e di partecipare emotivamente ad esse. Un senso di nostalgia tipico di certa letteratura nipponica che si ritrova nelle profondissime sedici tracce di questa raccolta così magica e cinematografica. Un autentico gioiello da non perdersi nel marasma di produzioni più e meno alternative sputate da Bandcamp.

15. The Field – From Here We Go Sublime (2007)

L’idea artistica di scomporre una realtà per poi ricomporla in un’alterità è una delle intuizioni base della musica contemporanea e l’applicazione elettronica di questo credo ha ormai una storia consolidata; ma è proprio su quest’asse di tradizione che il lavoro di The Field si innesta con perfezione glaciale, creando un dispositivo sonoro tanto freddo quanto magicamente caldo, in una fusione di groove e loop capace di colpire mente e corpo. From Here We Go Sublime è una progressione spezzata ad arte; è un discorso fortemente innovativo che lascia una traccia nel mondo della musica elettronica; è un album senza testimoni: in fondo, una nuova relazione fra uomo, tecnologia e passione. 

14. Ben Frost – AURORA (2014)

Il concetto delle macchine intelligenti è stato ormai ampiamente digerito da decenni di musica elettronica, la prospettiva concreta della creazione della vita artificiale è invece ben più attuale, nonché apertamente più inquietante: ecco, Ben Frost ha generato una creatura sintetica vivente, e questo LP codifica il suo stile, già presentato molto bene in By The Throat e integrato col successivo The Centre Cannot Hold.

13. Jon Hopkins – Immunity (2013)

Milkshake techno pop con carota rock oriented. Che poi è come dire che Hopkins è riuscito a portare dentro i confini di un ascolto assolutamente rock le strutture e le forme ritmiche tipiche di una larga parte dell’elettronica leggermente oltre la barriera della sfera indie (anche se oggi, certi confini sono quantomeno incerti), con il surplus di un mood di synth davvero pop, ed ecco la carota, ad attirare anche quella parte più ancorata a melodie maggiormente digeribili, commestibili.

12. The Caretaker – Everywhere At The End Of Time (2019)

Come riuscire a riproporre in musica un’esperienza così drammatica come quella provata dalle persone colpite da malattie neurodegenerative che ci privano delle nostre memorie come l’Alzhemeir? Articolato su sei volumi, il monumentale progetto di The Caretaker indaga tutti gli stadi di questa malattia, articolandosi in una sorta di dicotomia: se nei primi tre si assiste infatti alla progressiva decomposizione dei ricordi, passando dalla nostalgia ad una fitta nebbia che avvolge gli ultimi ricordi coerenti, gli ultimi tre si spingono in direzione noise con il rumore come mezzo espressivo per descrivere la confusione ed il caos che hanno ormai preso piede nella testa del malato. Il tutto si conclude con il vuoto, con una triste melodia seguita da un minuto di silenzio finale a raffigurare la morte del paziente. Everywhere At The End Of Time è uno di quei rari casi nei quali una release così estremamente sperimentale riesce ad essere così straziante e commovente. 

11. Daft Punk – Discovery (2001)

Basterebbe pronunciare il titolo della prima traccia, “One More Time”, per far capire a tutti di che disco stiamo parlando; per rendere chiaro ed evidente la larghezza planetaria di un successo nato in Francia; per sintetizzare chi sono i Daft Punk. Il duo francese spinge e investe sé stesso in questo disco che ha segnato, più o meno consapevolmente, parte della storia musicale. Canzoni come “Digital Love” sono dei veri e propri classici contemporanei, dove il gusto pop e mainstream sposa uno spirito e un progetto veramente originale, anche se derivativo, abilissimo nel formulare una grammatica elettronica da non dimenticare mai, perché i veri sentimenti, nella musica electro, raramente hanno trovato manifestazioni digitali così sinteticamente perfette. 

10. Autechre – Confield (2001)

Come abbiamo avuto modo di ribadire più volte in questo sito, ad ognuno il suo disco preferito degli Autechre. Sono in molti però a pensare che il loro apice sia contenuto in questo LP, dove Booth e Brown pongono una pietra miliare decisiva nell’evoluzione del loro suono. I brani acquisiscono una sfumatura tridimensionale, con i vari elementi sonori che evolvono in maniera indipendente e spesso in contraddizione tra di loro. Confield è anche uno studio sulle possibilità dell’utilizzo delle percussioni, che raggiunge il proprio apice in “Pen Expers”, uno dei brani più clamorosi mai realizzati nella loro lunga carriera. E così, mentre le macchine seguono le regole dettate dai due, i brani si sviluppano da soli accumulando via via sempre maggiori dettagli, e svelando anche una componente emozionale molto forte. Un lavoro che, a distanza di più di vent’anni, suona ancora oggi alieno e futuristico come gran parte della loro produzione.

9. The Avalanches – Since I Left You (2001)

Abbiamo riflettuto molto se includere o meno questo album. Possiamo ritenerlo un disco di elettronica? Ha senso in mezzo ad album che sviluppano ardite manipolazioni ritmiche o che lanciano i synth in viaggi spaziali? In fondo, si tratta solamente di un umile gruppo che costruisce le proprie canzoni accumulando un sample dopo l’altro. Ma, ad essere sinceri, non ce la siamo sentita di tenere fuori un gioiello del genere, probabilmente lo studio sui samples più creativo ed incredibile mai realizzato assieme ad Endtroducing di DJ Shadow. A differenza di Davis, però, gli australiani si spingono spesso e volentieri in territori nu disco non così dissimili dai Daft Punk, sebbene rimanga sullo sfondo una marcata componente hip hop specialmente in fase di composizione. Decostruendo e ricombinando i campioni, gli Avalanches hanno dato vita ad un disco che, lungi dal risultare cervellotico, sprizza gioia e divertimento da tutti i pori.

8. Aphex Twin – Drukqs (2001)

Quello che è certamente l’album più sottovalutato del buon Riccardo Davide Giacomo, è anche la collezione di tracce più ingegnose del suo ormai lungo e intricato percorso artistico. Quindi non può mica trattarsi di un disco facile, da usarsi come mero sottofondo da camera mentre si sorseggia rilassati del buon tè verde: Drukqs esige partecipazione, perché il suo obiettivo è quello di straniare e stravolgere l’ascoltatore innocente, prima carezzandolo con gentili note di pianoforte, a tratti anche orientaleggianti, poi strapazzandolo da una parte all’altra con beat violenti e frustate techno-hardcore. Drukqs è la collezione più geniale di Richard D. James, è questa la scomoda verità.

7. DJ Sprinkles – Midtown 120 Blues (2008)

Giunto al culmine del suo percorso, Terre Thaemlitz suona un campanello d’allarme necessario a rinsavire la scena deep house su quelli che dovrebbe essere i suoi principi fondanti. A fare da supporto in fase di realizzazione è un immaginario volto a celebrare ogni sfaccettatura del genere, con un focus d’eccezione sulle problematiche sociali che hanno portato alla nascita di un movimento pregno di urgenza espressiva, sfuggente nel tempo e nello spazio. A conti fatti, l’opera maestra del DJ si rivela un elegante viaggio da percorrere rigorosamente a 120 battiti al minuto.

6. Oneohtrix Point Never – Replica (2011)

Con il suo massiccio e quasi totale utilizzo di attrezzature vintage, passando dai vecchi sintetizzatori Akai e Roland alle leggendarie drum machine Korg, tra melodie reminiscenti dei Boards Of Canada più introspettivi o i texture cari a istituzioni come Cluster e Brian Eno, Replica è realmente in grado di portarti in un altro pianeta, magari più vicino alla Terra rispetto alle escursioni di Betrayed In The Octagon o di Returnal, ma pur sempre alieno. È un disco fondamentale perché da questo momento in poi, Daniel Lopatin diviene l’asse a cui si appoggiano le sorti della musica elettronica contemporanea.

5. Ricardo Villalobos – Alcachofa (2003)

Prima dell’uscita di Alcachofa, quello di Ricardo Villalobos era considerato un nome solito attenersi ai canoni del panorama minimal techno, senza spingere troppo sul pedale dell’innovazione. È grazie al carciofo che prende forma la buona nomea del cileno, un LP che rimescola totalmente le carte in tavola e spicca per spirito avveniristico, tanto nella sua ferma volontà di non guardarsi le spalle in cerca di intuizioni quanto nell’aver mantenuto ancora oggi la condizione di opera semi-irripetibile.

4. Flying Lotus – Cosmogramma (2010)

Con Cosmogramma, Flying Lotus raggiunge il nirvana. L’empireo in movimenti digitali cui solo pochissimi hanno saputo avvicinarsi in tre decenni di musica elettronica. Steven Ellison, questo il suo nome di nascita, è personaggio capace di fondere, permeare, distruggere e ricostruire categorie e generi differenti, per ottenere qualcosa di soltanto sfiorato in passato. Un flusso sonoro che può fregiarsi del grande merito di aver fatto convivere – una volta e per sempre – la musica d’avanguardia e la normale elettronica d’ascolto. Lassù nell’olimpo, di fianco agli Autechre e ad Aphex Twin, FlyLo è l’espressione compiuta di una coscienza artistico/musicale definita e straordinaria.

3. Tim Hecker – Harmony In Ultraviolet (2006)

Scegliamo Harmony in Ultraviolet come apice del canadese e come primo tassello del podio della chart, perché è il disco con cui emerge definitivamente – quantomeno a livello di popolarità indie e underground – il talento di Tim. Abrasivo, prosciugante e panoramico, lo stile Hecker riesce a dare un nuovo significato al concetto di industrial nel mondo della musica. Ascoltarlo dal vivo poi è un’esperienza che trascina il pubblico in uno stato di catarsi nuovo e trasognato, come se ci si ritrovasse all’interno di un film proiettato nella nostra mente. Ovvero, l’ambient del nuovo millennio.

2. Andy Stott – Faith In Strangers (2014)

Per quel suo essere così difficile da afferrare, e chiaro, grazie all’esot(er)ismo generale che aleggia sull’opera sin dalla copertina, il fascino misterioso che emana Faith in Strangers lascia la sensazione di un disco epocale per il dub metropolitano, per chi ricerca sfumature emozionali tra le diverse tonalità dei bassi, e in sostanza il possibile successore di Untrue di Burial. Un altro capolavoro dopo il già splendido Luxury Problems.

1. Burial – Untrue (2007)

La palma di miglior disco del ventennio non poteva che andare al monumento che è Untrue. Nato in un periodo imprecisato, così come imprecisate sono non solo le sue coordinate, ma la sua stessa essenza e struttura. Il campionamento, il cutting, l’upload di frammenti distanti anni luce da un discorso-del-buio vivono armonicamente in un tutt’uno spalmato su beats pieni, tondi, storti: vivi. Quel che appare sintomatico è l’attenzione sul passo, quello step che non finiremo mai di apprezzare e che fa di Burial il campione incontrastato, il nostro paladino prediletto sui campi di battaglia della musica più smaccatamente rivoluzionaria. Burial ci consegna una dubstep nuova. Una dubstep che ha scoperto, nei suoi passi, la coscienza.


UNA PLAYLIST DI 100 CANZONI

Hanno contribuito alla redazione della classifica: Giovanni Filippeddu, Giuseppe Rotundo, Daniele Sassi, Manuel Boninsegna, Pierluigi Ruffolo, Denis Bosonetto, Giacomo Colombo, Manuel Dal Fara, Danilo Betti.