5 Marzo 2023
Avrei potuto sfruttare l’introduzione per girare attorno alla cosa, ma mi sento come obbligato ad andare brutalmente al nocciolo della questione: Tyron Kaymone Frampton trova a ogni sua uscita un nuovo modo di mandarmi in tilt. Già, perché se l’ottimo potenziale mostrato nel debutto veniva diluito in una scaletta non sempre all’altezza, l’omonimo seguito presentava una prima metà diretta ma troppo derivativa e una valida controparte più intima, quest’ultima sapientemente prodotta da Dom Maker dei Mount Kimbie.
Il problema sin qui non è dunque mai stato di natura tecnica, ma dettato da una certa confusione che evidentemente colpisce il Nostro quando arriva il momento di mettere insieme i pezzi. Giunto alla terza prova in studio, sarà riuscito a far fronte a questo limite?
Complessivamente no. UGLY (U Gotta Love Yourself) rappresenta una tappa importante non tanto per la carriera, quanto per la vita dell’artista, che ha imparato ad accettarsi durante le registrazioni. Nell’esprimere certe sensazioni si è affidato all’abrasività del post punk, e a detta di chi scrive si tratta di una scelta solo in parte azzeccata, perché se la fetta di pubblico che sperava in un cambio di direzione più vicino a hit come “Doorman” è stata accontentata, è anche vero che in alcuni pezzi viene commesso l’errore di non osare con la strumentazione.
“Yum” è una mosca bianca in questo senso, con la sua base à la Death Grips, e messa in apertura tende a illudere circa la formula su cui costruirsi delle aspettative. Se “Sooner” è praticamente l’opposto, che nonostante la poca inventiva riesce a dire la sua, il singolo “Selfish” è una via di mezzo che funziona e che avrei personalmente apprezzato più di alcuni episodi rilegati alle ultime battute. Detto ciò, UGLY è paradossalmente il suo lavoro più coeso, ma non al punto da mascherare macchie come la carica espressiva dei testi, che non sempre mantengono standard eccelsi.
Facciamo una lieve retromarcia. “Doorman” conteneva di tutto, dal dance punk all’industrial, tant’è che viene spesso citato come perfetto esempio dell’unione di hip hop e post punk in chiave moderna. Ora, dato che non mi pare che il debutto dei Beastie Boys sia uscito la scorsa settimana, perché in brani come “Wotz Funny” gli elementi hip hop sono ridotti al rappato? Manca un pizzico di identità, di voglia che i propri pezzi risultino distinguibili in mezzo al marasma di sperimentazione spiccia messo in atto da chi deve per forza strappare i consensi di tutti i palati.
Il recente turning point della carriera di Lil Yachty è un ottimo spunto per approfondire quel che intendo: quella di lasciarsi ammaliare dagli strumenti a corde è un’operazione sempre meno rara nel panorama hip hop, dove però fatico a capire quale possa essere il pubblico di riferimento e, soprattutto, quale ambizione artistica possa venire soddisfatta dalla costante necessità di guardarsi indietro. Intendiamoci, i due non stanno sullo stesso piano e nemmeno la genuinità delle proposte, ma forse tendo a perdonare meno volentieri il nativo di Northampton proprio a causa delle aspettative che nutro nei suoi riguardi.
Slowthai non ha commesso alcun peccato capitale, eppure il conto dei dischi in cui si avverte la sensazione di amaro in bocca sale a tre. Contenti che Tyron abbia imparato ad amare sé stesso, speriamo che al prossimo giro possa diventare pienamente consapevole delle proprie capacità.