1 Settembre 2016
La morte prematura di Adam Yauch il 5 maggio del 2012 è stata forse l’unica grande sconfitta patita dai Beastie Boys in quasi 30 anni di tracimante, e per questo anche discussa, carriera. Non si parla qui di una band, o forse sarebbe meglio definirli combo perché mai come altri un tutt’uno della musica popolare di fine Novecento, che ha soltanto etichettato un genere praticamente a posteriori (impresa davvero riuscita a pochi) che oggi corrisponde a 360 gradi al nome di crossover, ma anche e soprattutto di un’alchimia bestiale, sfrontata quanto basta, che ha pullulato di idee attraversando quasi tre generazioni. Newyorkesi eppure universali, non hanno loro spezzato le gambe gli eccessi degli esordi, le critiche estreme, lo svilimento della loro opera, le parentesi meno creative. Nemmeno i lunghi silenzi.
Ci è voluto un brutto male, per dirla all’acqua di rose, ma andando anche oltre il ricordo si può già affermare che non è finita qui: celebrazioni, outtakes, sessioni nascoste, materiale anche nuovo da parte dei compagni di viaggio Mike D (Michael Diamond) e Adam Horowitz (Adrock), una sconfinata autobiografia in programma per il 2015. E forse altro ancora. Eppure va messo un punto e l’occasione del primo anno senza MCA, questo il soprannome di Yauch, è un ottimo pretesto per una retrospettiva ragionata: lui era il cinematografico del gruppo, la mente delle iniziative (vedi concerti per il Tibet), la testa pensante delle relazioni esterne. Insomma, l’uomo della visione e della modernità che i Beasties hanno sempre saputo interpretare e precorrere.
Licensed to Ill (1986) 10 milioni di copie nei soli Stati Uniti, primo album rap-rock a entrare nelle classifiche di Billboard, disco di platino dopo appena un anno. Qui c’è la mano del giovane Rick Rubin e della sua Def Jam ma soprattutto la cadenza e il lessico di tre giovanotti ebrei sui quali nessuno avrebbe scommesso un euro: 13 pezzi senza riempitivi, schiaffi morali alla seriosa “Walk This Way” del tandem Run DMC/Aerosmith, rappate corali e moleste, temi sgangherati, suoni analogici, una parodia dei Motorhead (“No Sleep till Brooklyn” con la chitarra degli Slayer) e l’inno giovanile che fa la differenza nella società dei consumi (“(You Gotta) Fight for Your Right (To Party!)”. Con all’interno pezzi quali “Rhymin’ & Stealing”, “She’s Crafty” e il singolone “Brass Monkey” la gratificazione è direttamente proporzionale al volume d’ascolto. 88/100
Paul’s Boutique (1989) Il complicatissimo secondo lavoro sulla lunga distanza passa dalle mani dei Dust Brothers e viene di fatto composto, suonato e lavorato a Los Angeles sotto l’egida della Capitol dopo il divorzio da Rubin. Le premesse, poi mantenute, sono quelle di un disco diverso anche se non opposto rispetto all’old-school frontale e scanzonato dell’esordio. La ricerca del campionamento giusto è quasi ossessiva, i ricami triplicano e quasi si finisce con un piede nel trip-rave-hop (vedi “High Plains Drifter”) perché, qua e là, iniziano a spuntare anche le primissime tastiere che saranno poi uno dei grandi temi successivi. Non acclamato, verrà poi rivalutato dalla critica e anche dagli ascoltatori con il passare del tempo: nessuno in effetti era in grado di produrre hardcore-rap come in “The Sound of Science” e a livello di miscela in quell’anno soltanto 3 Feet High and Rising dei De La Soul può reggere il confronto. 88/100
Check Your Head (1992) L’onda lunga dei singoli della Boutique porta il trio di NY direttamente nel nuovo decennio, quello dove ormai il rap rock californiano di gente come Cypress Hill e Red Hot Chili Peppers va sempre più per la maggiore e porterà dritti alle estreme conseguenze, ovvero verso la nascita del nu-metal. Check Your Head, oltre a contenere un’infinità di campionature illustri, riporta alla luce le radici hardcore, e resta nella memoria per brani strepitosi come “So What’cha Want” e “Pass the Mic” (in realtà due dei pochi veramente rap qui inclusi), per gli intermezzi sperimentali e per la produzione di Mario Caldato, destinata a fare scuola di lì a breve (Beck ne sa qualcosa). 83/100
Ill Communication (1994) Otto anni dopo, ecco l’album della riscossa mediatica: il discorso intrapreso con Check Your Head viene ricombinato con il meglio delle caratteristiche precedenti. Ne escono nuova fama, nuovi passaggi radiofonici e la seguente centralità nel mondo rappresentato in quegli anni da MTV. Le peripezie groovy sono immerse in un disco mai così esplicito nei testi, gli strumenti sono protagonisti ma non solisti e la matrice crossover di un pezzo come “Sabotage” dimostra che tutto sommato i Beastie Boys sono tra i pochi a non dover andare a scuola dai Rage Against the Machine. La band quindi si propone nuovamente a livelli eccelsi e, per dedurlo, sono sufficienti i 3 minuti e 19 del pezzo d’apertura “Sure Shot” dove un loop di flauto ammazza ogni fantasia preconcetta. Il meglio? Forse “Root Down” e “Get It Together”, ma per i più accaniti qui ci sono anche materiale solo strumentale e pezzi hardcore prima maniera. 85/100
Hello Nasty (1998) Il quinto LP può spiegare perfettamente l’eclettismo dei Beasties. Un frullato colorato, qualcuno dice anche confusionario, di stili che hanno come unica matrice sempre e solo New York. I ragazzi danno meno spazio all’hardocore mentre l’hip hop old style resta l’ossatura principale su cui costruiscono un patchwork che impressiona per varietà. Intorno allo scratching di Mix Master Mike, più semplice di quello di DJ Hurricane, i tre newyorkesi costruiscono un dedalo di generi in cui ci si perde tra momenti elettronici, dub, jazz, funk, soul e chi più ne ha più ne metta. Hello Nasty è una tappa importante e necessaria per capire l’intera discografia dei Beastie Boys. 82/100
To the 5 Boroughs (2004) Spesso indicato come l’album del declino, To the 5 Boroughs è sicuramente un disco dall’effetto catartico per i Beastie Boys. È sorprendente la rottura con il passato, il suono è completamente stravolto rispetto al pluripremiato Hello Nasty. Messi da parte tutti gli sperimentalismi e le varie influenze, To the 5 Boroughs appare come un monolito hip hop. I suoni sono un’alternanza di fascinazioni classiche in stile Public Enemy, dove emerge ancora l’ottimo lavoro di Mix Master Mike, e il nuovo corso del rapping sperimentale di El-P, CLOUDDEAD e Outkast. Da molti bocciato per il taglio netto con il passato, in realtà To the 5 Boroughs è un ottimo e inaspettato disco di genere. 71/100
The Mix-Up (2007) È interamente strumentale il settimo LP del trio, e riceve responsi alquanto alterni (un grammy, ma anche tante critiche dalle riviste indie), non essendo né hip hop né niente altro di concreto. L’idea di provare qualcosa di diverso, più suonato e meno campionato, a questo punto della storia ci sta pure. Il problema è che la figosità tipica dei tre viene meno in questa forma che paradossalmente sa meno dei fumi delle strade di New York e più di studio di registrazione. Un giustificato controsenso. 60/100
Hot Sauce Committee Part Two (2011) L’ultima fatica è inizialmente pensata come un’opera doppia, divisa in due parti. Finora è uscita solo la seconda la cui release date è rispettata, mentre la prima è presto posticipata a data da destinarsi quando nell’estate del 2009 al povero MCA viene diagnosticato il cancro a una ghiandola salivare. Sembra solo un rinvio provvisorio, ma ad oggi si può parlare del più classico degli album fantasma. Forse Ad-Rock e Mike-D sono tornati a metterci mano per realizzare un addio postumo all’altezza del nome. Vedremo. Il Part Two è inferiore agli standard del trio, ma “Make Some Noise” funziona alla grande e anche la collaborazione con Nas in “Too Many Rappers” si segnala come potenziale traccia da best of. La storia è già stata scritta però, e nonostante i buoni sentimenti, finisce. 68/100