16 Maggio 2021

Esistono artisti che rimangono uguali a loro stessi per tutta la loro carriera, proponendo opera dopo opera piccole variazioni sul tema. Ce ne sono altri, invece, a cui piace evolversi e sperimentare nuove sonorità, alla costante ricerca di nuovi stimoli per evitare di rimanere intrappolati in un marchio di fabbrica stantio e banale. A questa seconda categoria appartiene sicuramente il britannico Justin K. Broadrick, che con i suoi innumerevoli progetti ha toccato generi diversi e spesso lontani tra di loro: grindcore, industrial metal, ambient, hip hop, techno, giusto per citarne alcuni. La sua ricerca incessante e ostinata è stata cruciale, soprattutto per l’evoluzione della musica pesante, influenzando numerosi che nel tempo abbiamo ascoltato a ripetizione.
Un’introduzione all’ascolto della produzione di Broadrick non può che fare maggiore riferimento ai suoi progetti principali, Godflesh e JESU in testa, che di fatto tengono in piedi un’altrimenti sterminata discografia di esperimenti intorno al tema industrial e ambient metal, oggi pressoché impossibile da reperire – e digerire – integralmente tutta d’un fiato. Ci vorrebbero mesi se non anni per venirne a capo. Questo pezzo, dunque, più che andare a cercare chicche nascoste, si ripromette di individuare i lavori essenziali dell’artista, elencandoli a beneficio del novizio che vi si avvicina, e formalizzando una volta per tutte una sorta di gerarchia di fondamentale ascolto, che potrebbe mettere d’accordo l’appassionato, o anche spingerlo a puntare il dito per sostenere che “hey, come fate a omettere questo?!”. Tutto calcolato. Qualcosa di più, magari, la si può rintracciare grazie alla playlist che Spotify ci permette di applicare in coda a questo post.
Napalm Death – Scum (1987). Ancora adolescente, Justin viene ingaggiato per prendere parte alla registrazione del disco che di fatto genererà il grindcore, uno dei generi più estremi, nato dall’incrocio tra hardcore e metal. Nei pochi minuti (quando non addirittura secondi) a disposizione, il nostro riesce a farsi segnalare per le sue ottime doti chitarristiche, contribuendo in maniera decisiva all’imponente muro di suono creato dalla band inglese. Il suo ruolo si limita in realtà solo alla prima parte dell’album, ma si trattava di un episodio dalla rilevanza storica troppo importante per essere trascurato in questa sede.

Godflesh – S/T EP (1988). Con le due bonus tracks della riedizione su Earache del 1990, si finisce a 52 minuti. In pratica il primo vero album dei Godflesh, e forse anche il migliore. Crudissimo e dritto al punto, contiene anzitutto la canzone manifesto dell’intero percorso artistico della band, ovvero quella “Avalanche Master Song” che dà anche il nome agli studi e all’etichetta indipendente di Justin. In principio non se ne rendono pienamente conto, ma in due, più una Alesis HR16 a scandire il tempo, hanno posto una delle pietre miliari dell’industrial. Per i documentaristi, la compilation Life Is Easy dei Fall of Because, pubblicata nel 1999, testimonia le prime infiorescenze di quello stile che poi è divenuto marchio di fabbrica del duo Broadrick-Green.

Godflesh – Streetcleaner (1989). Se la fusione tra musica industriale e rock/metal è stato uno dei temi chiave degli anni ’90, con la parabola di Trent Reznor come massimo esempio, molto del merito lo dobbiamo ai Godflesh e alla loro capacità di portare a compimento l’opera già iniziata dai Ministry e dagli Skinny Puppy, trovando una sintesi perfetta tra questi due mondi. Il primo EP, già di altissimo livello, aveva posto le basi per un sound che qui raggiunge la sua perfezione formale, con una chitarra ronzante e stridula fino all’eccesso. Tutto ciò viene integrato da un clima nichilista che permea l’intera opera, e ci consegna un ritratto destabilizzante dell’umanità. Un album cupo, violento ed iconoclasta fin dalla sua iconica copertina, ma soprattutto un capolavoro che a distanza di anni non ha perso un briciolo della sua potenza.

GOD – Possession (1992). Prodotto da Kevin Martin e pubblicato dalla Virgin, Possession dei GOD è fuori stampa dalla fine degli anni Novanta ed è ad oggi ritenuto una sorta di Sacro Graal dagli appassionati del genere industrial. Se fino a quel momento la musica di JK è tanto cruda quanto devastante, con questo lavoro ci si prepara all’impatto con il jazz free-form, l’avanguardia di John Zorn e il mondo sperimentale di Foetus. In tutta la discografia di Broadrick non c’è opera altrettanto varia e al contempo pienamente a fuoco come questa, che nel tempo influenza band come Lightning Bolt e tutto il filone post metal che ha fatto capo ai Neurosis. Un frullatore di esperienze da cui è bene stare alla larga dopo un po’, o ci si finisce pazzi e miscelati dentro.

Godflesh – Pure (1992). L’evoluzione dell’artista, dicevamo. Abbastanza evidente fin dal secondo LP dei Godflesh, che anche grazie all’ingresso in formazione di Robert Hampson dei Loop espande moltissimo le possibilità del loro suono. Se Streetcleaner era infatti un prodotto di rara violenza, qui l’uso delle chitarre ci consegna invece un disco molto più dilatato, straniante, quando non addirittura disorientante. Molte delle tracce qui presenti si accontentano di vagare nel nulla, sospinte dall’incessante battito della batteria elettronica, che assume dei connotati diversi a seconda del pezzo, lambendo territori vicini al dub o all’hip hop in varie circostanze. Il minimalismo presente in tutta l’opera viene portato alle estreme conseguenze nell’epico finale di “Pure II”, la loro agghiacciante versione dell’ambient music.
JESU – Heartache EP (2004). Due sole tracce che coprono circa quaranta minuti in cui il nostro si mostra nella fase di transizione dall’inevitabile implosione dei Godflesh alla nuova entità, di cui non ha ancora chiara la forma finale. Saranno i JESU, e questo documento è quanto di più prezioso Broadrick ha prodotto usando questo nome.

JESU – S/T (2004). Il primo full lenght a nome JESU (a proposito di richiami religiosi… chissà perché quest’uomo ha quasi spesso messo in mezzo Gesù o suo Padre quando doveva scegliere il nome di un nuovo progetto musicale?), propone, artwork compreso, uno sfondo industriale e grigio da cui il protagonista riuscirà parzialmente a svincolarsi nel corso della discografia. La catena di montaggio incline a uno shoegaze passivo, per questo, riesce a ricreare l’ambiente in cui nascono i sentimenti dello Steppenwolf, prima che questi elabori la soluzione della sua doppia natura, cittadino vs. lupo. Non è per forza di cose nichilismo quello di Broadrick (neanche nel successivo Conqueror, in cui pure sembra più luminoso), ma il lamento di un uomo scettico rispetto alla società, che cerca percorsi di salvezza verso la divinità, dopo aver finito per disprezzare tutto e tutti, perfino gli amici e se stesso.

JESU – Conqueror (2007). La svolta di Conqueror non è stata subito ben recepita da critica e fan, che probabilmente si aspettavano un altro album monolitico e opprimente. Ma, come abbiamo scritto più volte in questo speciale, JK non è tipo capace di restare ancorato ad un unico concetto per troppo tempo. Le otto tracce che compongono questo ennesimo centro della sua carriera trovano infatti la loro ragione d’essere nella malinconia più che nell’autodistruzione, descrivendo con grande profondità tutta le fragilità e le paure dell’uomo, tramite l’affascinante contrasto tra i riff lenti ed ultrapesanti e le melodie, mai così soffici ed in un certo senso pop. Non bisogna avere paura di usare questa parola per descrivere la musica qui presente: il sound di Conqueror è in effetti una sorta di pop industriale, dove la lezione dei maestri shoegaze di inizio anni ’90 è più evidente che mai, e che merita oggi di essere considerato uno degli apici assoluti della sconfinata produzione dell’artista.

TECHNO ANIMAL. La collaborazione con Kevin Martin negli anni ’90, guru della scena dub britannica, con una produzione vasta (quasi) quanto quella di Broadrick, e del quale ricordiamo in particolare i progetti The Bug e King Midas Sound, porta alla creazione dei Techno Animal, progetto all’incrocio dei ritmi dell’hip hop con le dilatazioni della musica ambientale, ovviamente senza mai disconnettersi quel suono abrasivo industriale che ha attraversato tutta la carriera del nostro. Difficile individuare il miglior lavoro sotto questo nome: meglio l’astrattismo di Ghosts o i beat dilatati di Re-Entry? Oppure, perché no, il più spiccatamente hip hop The Brotherhood of the Bomb, al quale partecipano guest star del calibro di EL-P, Vast Aire dei Cannibal Ox, e Dälek. Tutta gente che spingerà più avanti i confini del genere negli anni 2000, con opere capitali per l’evoluzione dell’industrial hip hop. E tutti artisti che, forse, non avrebbe raggiunto gli stessi risultati senza aver conosciuto Broadrick.
Altre pubblicazioni da provare includono il progetto ambient noise Final, perdurante tutta la carriera del nostro, di cui buona parte delle incisioni si perde nei cassetti della memoria dello stesso Justin (alcune incisioni risalgono a quando il nostro aveva sedici anni), e di cui probabilmente è la raccolta 3 uscita su Neurot nel 2006 l’episodio più significativo.
Possiamo citare JK Flesh, di fatto un progetto solistico che immagina dei club adatti a suonare musica che sia al contempo dub e industriale, priva dei chitarroni ma molto propensa a dare testate al muro e a ingerire paste vitaminiche.
Con la Hydra Head in procinto di sbaraccare, Justin si rimbocca le maniche e coinvolge il padrone di casa Aaron Turner, il vecchio amico Dave Cochrane degli Head of David, e l’ormai fedele Diarmuid Dalton, con lui nei JESU, per Disconnected, album unico dei Greymachine. A volte però la somma dei fattori non aumenta il valore finale della proposta.
Infine, la collaborazione dei Techno Animal col violentissimo digital hardcorer Alec Empire degli Atari Teenage Riot per The Curse of the Golden Vampire.
