Jesu – Terminus

Jesu – Terminus

Oggi Justin K. Broadrick è uno splendido cinquantenne. Terminus, il suo primo album a firma JESU in sette anni, ce lo ripresenta intento a recuperare le sonorità e il concept originale del progetto, che tanto ci aveva entusiasmato agli esordi, e che in tempi alienanti come questo 2020, suona attuale come non mai.

Lo ammettiamo subito, Terminus riesce solo parzialmente a suonare aggiornato e soprattutto a evitare i paragoni coi vecchi tempi, che invece all’epoca nessuno aveva messo in discussione rispetto ai grandiosi Godflesh. Non vi riesce perché sceglie di continuare ad annacquare la faccenda – prendete un pezzo come quello che proponiamo in coda all’articolo – e di celebrare le influenze in modo fin troppo sfacciato (se durante l’epilogo di “Give Up” sarete convinti di essere arrivati in fondo a Loveless dei My Bloody Valentine, non vi preoccupate, non sarete stati i soli). Altrimenti, nell’insieme e a partire dalla titletrack, Terminus sa destare l’attenzione di chi ha provato a crederci ancora una volta. Ecco, i diciotto minuti che vanno dalla prima nota di basso di “Terminus” alla conclusione ambientale di “Sleeping In” sono esattamente quanto vorremmo sempre e comunque dal nostro, anziché profusioni oniriche che ammiccano a chi nel 2020 ancora non si è rotto i coglioni dei Sigur Rós.

Certo che i dischi imprescindibili di/dei JESU restano i primi pubblicati dall’indimenticata Hydra Head, l’etichetta di Aaron Turner (ISIS, Sumac, etc.), ovvero l’omonimo LP del dicembre 2004, il successivo full lenght Conqueror (2007, finito anche nella nostra TOP 100 anni ’00), e l’iniziale mini Heartache (2004), con cui Justin aveva posto le basi del progetto. Quanto avvenuto successivamente a Conqueror è risultato quasi sempre materiale già scaduto al momento dell’uscita, che nulla aggiungeva e anzi, qualcosa toglieva alla poetica e quindi al concetto originale da cui JESU era (ri)sorto. 

In questo senso Terminus prova a portar pace presso chi è rimasto scottato dall’inconsistenza e dalla ridondanza di release in cui Broadrick sembrava aver perso la formula che l’ha portato a ricavare bagliori di luce dal profondo oscuro della sua solitudine. Quell’industrial meccanico, alienato e sentimentale suonato assieme a Ted Parsons (batteria) e Diarmuid Dalton (basso) era l’aggiornamento ideale dell’esperienza Godflesh, e una delle più sincere realtà della scena post metal, di cui faceva parte in qualità di padrino.

Ci piace ancora sostenere questo artista, e ci piacerebbe potergli dare qualche punticino in più nel rating finale, ma siamo ancora troppo lontani dall’intensità emotiva con cui è capace di trascinarti nella sua spirale. Non è neanche questione di stile o di songwriting. Justin è in grado di scavarti dentro, mentre con Terminus riesce solo ad appoggiarti una mano sulla fronte per chiederti se stai bene o hai la febbre.