14 Marzo 2018
Che il metal si sia fatto largo anche fra un pubblico sempre più eterogeneo di giovani europei è ormai appurato. E no, non ci riferiamo ai folkloristici personaggi chiodati in acciaio e di nero vestiti che ci sono sempre stati da quando il metal esiste, in particolare quello dei Venom o dei Mayhem. Quell’idea di metallaro è superata, sebbene di fenomeni del genere se ne possano incontrare ancora oggi nei mezzi di trasporto pubblici delle nostre città (si tratta spesso però – ad onor del vero – di ragazzini che vanno a scuola). Il metal ha ormai raggiunto anche ascoltatori più coscienti e preparati, non solo nichilisti integralisti con il santino di Burzum nel portafogli, amanti della velocità di esecuzione o del gotico ad ogni costo. Anzi diciamolo chiaramente, il fan del black e progressive metal scandinavo è in crisi d’identità da un po’, mentre le compagini storiche americane non producono roba decente da un pezzo, se ne accorgerebbe anche un profano. Se poi ci si aggiunge che rimorchiare una ragazza indossando la maglietta dei Dream Theater risulta impossibile, il quadro è completo.
Il profilo del metallaro cambia in corrispondenza di tre principali attori che spostano sensibilmente e più di altri le coordinate del genere. Anzitutto lo stile gotico e tenebroso degli Swans di Michael Gira e Jarboe, su cui si forgiano le ramificazioni d’acciaio e di folk apocalittico dei Neurosis da Oakland, spesso non a torto ritenuta la formazione madre della scena post hardcore più tendente al metallo. Ma soprattutto, a rendere il metal intellettuale per la prima volta nella sua storia ci pensano i Tool. Intellettuale, arcano, ma allo stesso tempo ironico e fortemente emotivo. Qualità che solo una band di confine come quella di Maynard James Keenan può avere: il genere dei Tool, una volta per tutte, è il genere Tool. Non rientrano nel grunge quando pubblicano Undertow nel 1993 (disco per altro già suonato per intero dal vivo nel gennaio 1992!), non suonano prog metal classico e non sono concept album i loro, come erroneamente crede qualcuno.
All’epoca di Ænima (1996) c’è anche chi li include nell’industrial, figurarsi. L’approccio di Adam Jones, che cura maniacalmente ogni dettaglio dell’arte della sua band anche a costo di impiegare cinque anni prima di pubblicare qualcosa di nuovo, è uno dei modelli che si rivela più influente presso le nuove generazioni, passata la sbornia del grunge. Già perché non tutti i giovani americani si riconoscono nel connubio funk/metal promosso dal crossover prima e dal nu metal poi: non per tutti i Korn sono degli esempi da imitare. Ecco dunque che mentre i Tool rappresentano un fenomeno a sè stante, allo stesso tempo contribuiscono a formare il nuovo profilo del metallaro, finalmente più aperto e raffinato. Perché i Tool e non altri indiscutibili pionieri come Melvins o Today Is the Day è facile intuirlo: Keenan e soci diventano famosi da far paura negli States, mentre rimangono per molti anni un culto (poi sfociato anch’esso nella popolarità da Lateralus in poi, grazie anche al successo degli A Perfect Circle) in Europa e particolarmente nel Regno Unito, senza minimamente scomporsi o scendere a gravi compromessi come invece altri della loro generazione; fanno ciò che vogliono i Tool, senza fare la morale a nessuno e senza perdere un grammo di integrità agli occhi degli ascoltatori che giudicano la loro musica, sempre fedele al proprio stile ma mai banale. Non sono un gruppo di genere per un pubblico di genere, come molti attori post core che stiamo per incontrare in questo articolo. E restano nonostante la celebrità tremendamente antipatici e snob, per questo rappresentano l’alternativa a molti giovani aspiranti intellettuali europei che non si riconoscono per forza nella poetica dei Radiohead. Per l’appunto, aprono a molti la via del vero nuovo metal: il post metal. A contribuire alla formazione di questo ideale ci sono però numerose varianti sonore figlie dirette dell’evoluzione che dai Black Flag in poi, passando per Squirrel Bait, Scratch Acid e Rapeman, ha portato diretti agli anni Novanta, in cui invece sono appunto i nomi fin qui segnalati i punti saldi sui quali si fonda la scena e l’ideale definito solo inizialmente “post hardcore”, parola troppo generica che in realtà corrisponde anche all’estetica dei Jesus Lizard o dei Fugazi, sino ad arrivare a fine decennio con Refused e At the Drive-In. “Post hardcore” significa tutto e niente, o se preferite troppe cose tutte insieme. Direste mai che gli ISIS fanno musica simile a quella dei Jesus Lizard, o addirittura che i Cult of Luna vanno mano per la mano con gli At the Drive-In? La risposta la sapete.
Nel contesto in cui fioriscono i Neurosis – probabilmente la prima vera band post metal in senso stretto – sono anche da ricordare le innovazioni sonore apportate dall’industrial (non certo quello dei Nine Inch Nails, semmai quello dei Godflesh) e dal lavoro alle chitarre di Page Hamilton degli Helmet, magari non abilissimo compositore nella forma-canzone, ma certo formidabile nella costruzione di un impianto d’assalto sonoro all’epoca futuribile. Ma non solo: se si è arrivati a parlare di post metal, è certo grazie anche alla nascita e all’evoluzione del post rock, che non passa inosservato nelle sue migliori e più influenti forme riconducibili ai nomi di Slint, Godspeed You Black Emperor! e Mogwai. Gli altri sono quasi tutti attori minori riscoperti solo recentemente e non incidenti nel forgiare le poetiche dei protagonisti di questo articolo.
Nati come formazione tipicamente hardcore, i Neurosis non ci mettono molto a spezzare la catena e a fondere le proprie radici con nuove sensazioni – per il genere – in un’ibridazione che sa tanto di rifiuto delle regole quanto di presa di coscienza non tanto dei propri mezzi, quanto di voler dire qualcosa di rilevante nella storia del rock americano. I Neurosis sono infatti una band di ampie vedute che comprende la necessità di evoluzione del proprio stile con musica affine ai propri gusti e sentimenti. Prendono dunque gli Swans come principale modello di riferimento, accendono il forno e ne ricavano un’alchimia che viene rispettata e presa a sua volta da esempio da decine e decine di nuove band. Sta nascendo il post metal.
Si distinguono tre maggiori periodi nella discografia dei Neurosis. L’approdo – dopo un lento percorso – a lavori come A Sun That Never Sets e The Eye of Every Storm è una delle migliori rappresentazioni possibili del genere; anzi, la musica dei Neurosis dei Duemila è puramente post metal. Vi riesce tramite la fusione delle due anime della formazione, Scott Kelly e Steve Von Till, il primo crudo e radicale, il secondo in grado di conferire un lieve ma non superficiale taglio spirituale alle interpretazioni. Di album fondamentali per la formazione della scena i Neurosis ne hanno più di uno anche nei Novanta, quando sono se non l’unica, la maggiore realtà del fenomeno. Se Souls at Zero è probabilmente il primo disco seminale in questo senso – parallelamente a White Light from the Mouth of Infinity degli Swans – i colpi decisivi li affondano i lavori della fase centrale della loro discografia, con particolare riferimento a Through Silver in Blood, autentico punto di non ritorno e fonte di ispirazione per le band della nuovissima generazione che si affacciano sulle scene sul finire del decennio. Non è – al contrario di quanto sostenga qualcuno – il momento più importante di tutta la scena, il non plus ultra del post core, ma definirlo determinante per ciò che sta per avvenire è un segno di altrettanta reverenza per il valore socio-musicale dell’opera. I Neurosis, nei quasi quindici anni che vanno da Souls at Zero a The Eye of Every Storm, non hanno praticamente commesso alcun grave passo falso, tanto che è lecito ammirare qualsiasi dei loro album anche più di quelli fin qui citati. È altrettanto vero che la trasformazione del suono della band è stata molto molto lenta e che negli anni a seguire, i Neurosis sembrano un po’ meno artisti intransigenti e un po’ più mestieranti. Tuttavia nell’epoca di maggiore esposizione del fenomeno post core, quando questo si fa post metal, la band di Oakland come si diceva produce due album eccezionali: il monolitico A Sun That Never Sets e il sottovalutato ma profondissimo The Eye of Every Storm, più il disco in collaborazione proprio con la cospiratrice Jarboe, anch’esso da non lasciar cadere nel dimenticatoio.
Le discografie soliste delle due menti della band, per quanto rispettabili, risultano allo stesso tempo anche trascurabili, ad eccezione forse di As I Should Fall to the Field di Von Till, che mescola il suo canonico sentore apocalittico con i suoni autenticamente tradizionali dell’America più rurale. E’ un folk ridotto all’osso, che omaggia Neil Young e ripesca per primo quella “Am I Born to Die” poi divenuta fulcro di Black Ships Ate the Sky dei Current 93 anni dopo.
Nel finale degli anni Novanta succede anche altro, per esempio nasce il cosiddetto math core, di cui principali attori sono Dillinger Escape Plan dal New Jersey e Botch da Seattle. Queste due formazioni contribuiscono in misura determinante ad avvicinare l’ascoltatore di hardcore a quello di metal, e viceversa, mossa impensabile negli anni Ottanta e ora divenuta realtà, dando merito ovviamente anche ai Converge di Kurt Ballou e Jacob Bannon. Il math o metal core porta alle estreme conseguenze la furia dell’hardcore, in un processo ormai giunto all’ultimo stadio con le uscite di album definitivi e insuperabili come Calculating Infinity e soprattutto We Are the Romans dei Botch. Se i Dillinger Escape Plan si sono mostrati di volta dopo volta con nuove formazioni e mascherate non sempre così ispirate, la band di Seattle resta ad oggi uno maggiori rimpianti per tutto il filone in questione, anche se perlomeno ha lasciato ai posteri due album imperdibili, che dovrebbero essere nella discoteca di tutti quelli che non hanno preconcetti verso la parola “metal”. Parlare di singoli brani non ha molto senso nel metal core, ma la batteria metallica, il basso mai così graffiante e le ottave estrapolate dal manico della chitarra in “Man the Ramparts” rappresentano il culmine di un genere tutto. Il canto pseudo-gregoriano incluso nel pezzo non fa altro che rendere ancor più epico un brano di rarissima bellezza, il finale di un disco e di una breve ma formidabile vita artistica.
Sei album e vari EP per i Dillinger Escape Plan invece. Fra questi ultimi si segnala in particolare la combinazione con Mike Patton, per quattro brani divertenti ed ispirati, fra cui compare anche una stramba cover nientepopodimeno che di Aphex Twin. Un EP talmente riuscito che influenzerà anche il controverso Ire Works, full lenght di qualche anno dopo in cui la nuova formazione dei Dillinger sembra mescolare i Faith No More con i Glassjaw: un mix non particolarmente riuscito, per usare un eufemismo. Senza eccellere si salva in corner invece il precedente Miss Machine, il primo con Greg Puciato dietro al microfono, ma la loro forma migliore la band del New Jersey l’aveva trovata nel 1999 con Calculating Infinity, un lavoro frivolo e strabordante di quell’urgenza espressiva chiaramente persa nel tempo.
Ci sono poi due band misconosciute che contribuiscono molto parzialmente al lento trasformarsi di questa frangia del metal, a conferma tuttavia che il proliferare della specie non è più affare soltanto americano, ma raggiunge anche altri continenti: si tratta dei giapponesi Zeni Geva e degli svedesi Breach. Il combo di Tokyo ha vissuto una carriera parallela a quella dei Neurosis, raccogliendo qualche consenso soltanto nel 2001, con la pubblicazione di 10,000 Light Years, disco in grado di fondere lo sludge metal in voga con tutto un apparato rumoristico incentrato sui sintetizzatori, in un amalgama che ha influenzato i pochi che lo hanno ascoltato all’epoca e i più attenti che lo hanno ripescato successivamente. La collaborazione con Steve Albini del 1993 giustifica inoltre il chiaro omaggio agli Shellac di alcuni brani, come ad esempio “Blastsphere” e “Interzona 2”, per altro neanche troppo distanti dal math rock dei Don Caballero.
I Breach sono invece una formazione più concentrata sull’unione di ideali sludge e post rock, raggiunti con risultati più o meno convincenti nella loro uscite più note, vale a dire gli album Venom e Kollapse. L’hardcore è sempre dietro l’angolo, ma quando irrompe fragorosamente sembra egualmente circoscritto e subordinato al sistema messo in piedi, che si concede anche aperture al doom metal e quindi alle sonorità drenanti tipiche di quello stile. Kollapse è un lavoro molto vario, forse fin troppo eterogeneo in una scena che vede l’album come un macigno compatto e costante nell’umore per tutta la sua durata. Nel post metal non sono le singoli canzoni le protagoniste, ma il tutto, il flusso sonoro continuo che o convince pienamente, o annoia.
Rimanendo in quel decennio, gli altri paladini della scena hardcore sono certamente i Converge da Boston, città che assieme a Chicago offre le migliori realtà underground nei Novanta americani, sostituendo con meno clamore e maggiore qualità la chiacchieratissima Seattle. I Converge sono i duri e puri della situazione, e dedicano la loro proposta artistica alla mera urgenza espressiva che c’è da dirlo, finora non è mai venuta loro meno, seppur sia chiaro più o meno a tutti quali siano gli album imprescindibili della band, quelli più ispirati e coinvolgenti, per altro incisi nei Duemila. Si tratta del capolavoro – riconosciuto – Jane Doe, e del formidabile You Fail Me, che ha pagato proprio l’essere venuto dopo il suddetto disco. In un percorso di estrema sofferenza, urlata in faccia al primo interlocutore che capiti a tiro, i Converge propongono un hardcore di perfetta fusione punk/metal, dove il punk è inteso come ideale artistico e il metal viene nobilitato nella sua furia da contenuti emotivi ben distanti dai toni apocalittici degli Slayer. Quella dei Converge è musica che esprime puramente il concetto di hardcore dei suoi anni, e rientra nella categoria post-metal più per un’effettiva appartenenza come attore di riferimento alla scena (che vede coinvolti anche gli amici concittadini Cave-In e ISIS, coi quali nascerà il side project Old Man Gloom) che non per concretissime affinità stilistiche. D’altronde non c’è nei Converge alcun segno del passaggio dei Codeine o degli Swans, né tantomeno interesse per l’evoluzione canadese del post rock, invece tanto cara et negli Stati Uniti et nell’Europa che non conta (Italia, Scandinavia). I Converge sembrano quasi disdegnare ciò che sta accadendo attorno, e continuano imperterriti a perseguire i propri intenti a modo esclusivamente loro, proponendo minuscole novità sonore fra You Fail Me e i successivi No Heroes e Axe to Fall. “Se da un lato l’intransigenza di Ballou e Bannon risulta un importante punto a favore, allo stesso tempo rischia di limitarli e confinarli ad uno stile che non potrà essere sempre parimenti ispirato dalle buone stelle, specialmente col passare degli anni”, dicevamo ai tempi della prima pubblicazione di questo speciale. I dischi successivi, All We Love We Leave Behind e il più recente The Dusk in Us, ci hanno smentito clamorosamente. Il tempo passa, ma i Converge non mollano un c@§§o.
Altro nome da inserire nel contesto post metal seppur nella pratica distante dal suono della maggior parte dei protagonisti di questo articolo, è quello dei Mastodon da Atlanta, prodotti così come ISIS e Botch da Matt Bayles, autentico guru dietro a molti degli album di maggiore riferimento di questa scena, a cui i Mastodon partecipano attivamente sin dagli esordi, fino a divincolarsene con la scelta di passare alla Warner, divenendo l’unica formazione del filone ad essere distribuita da un’etichetta major. Un primato passato quasi inosservato, visto che Blood Mountain (2006), il primo LP del nuovo contratto, non rinnega il discorso fin a quel momento portato avanti, ponendosi semmai come sua naturale evoluzione. È un album che la critica applaude convinta e che riesce a coinvolgere anche ascoltatori di differente astrazione, grazie ad una fruibilità che di fatto i Mastodon hanno sempre avuto in serbo. Canzoni formalmente perfette come “Sleeping Giant”, “This Mortal Soil” e “The Wolf Is Loose” – per citarne tre a caso – fanno il resto, aprendo definitivamente le porte dell’olimpo ai quattro di Atlanta. Non può essere sottaciuta tuttavia l’imponente campagna promozionale che la Warner inscena per promuovere i Mastodon presso il pubblico metal e dintorni, cercando di accostare la band ai nomi più in voga di ogni circuito: dalle collaborazioni con Josh Homme dei Queens of the Stone Age e Cedric Bixler dei Mars Volta, ai tour in compagnia di Lamb of God, Metallica, Iron Maiden, Slayer e Tool. Insomma, di tutto un po’, proprio come la loro musica. Quella dei Mastodon è infatti una miscela sapientemente dosata di varie componenti del dio metallo, entro un’ambientazione da farsa pagana, a cui contribuisce il lavoro dell’artista Paul Romano che cura le copertine dei loro primi lavori. Prima di formare la band, il batterista Brann Dailor e il chitarrista Bill Kelliher (già insieme nei Lethargy) vengono arruolati da Steve Austin per In the Eyes of God dei Today Is the Day, un’esperienza che si rivela fondamentale per la crescita artistica e la messa a punto dello stile dei due componenti della band. Se lo sludge e l’hardcore sembrano essere le coordinate di partenza, i Mastodon riescono già con Remission a rendere una perfetta ibridazione delle loro ispirazioni, grazie anche alla poetica e all’impianto vocale messo in piedi da Brent Hinds e Troy Sanders, che supera in efficacia perfino l’esperienza collaudata del duo Kelly/Von Till dei Neurosis. Pezzi come “March of the Fire Ants”, “Trainwreck” e “Ol’e Nessie” rappresentano già dei vertici della discografia della band, in un album che mostra tutta la tavolozza dei colori a disposizione dei quattro. Leviathan esce nel 2004, l’anno d’oro del post-metal, e convince una volta per tutte i discografici di Los Angeles a puntare forte su di loro, destinandoli a divenire i nuovi Metallica. D’altronde si tratta di un capolavoro assoluto del metal, un’opera che suona fresca ed imponente sin dal primo impatto. Come pochi altri dischi dei suoi anni, Leviathan promette di crescere ascolto dopo ascolto, rilasciando sfumature e sensazioni non facili da assorbire per il fruitore distratto. Suona epico e progressivo senza risultare stucchevole, forse perché lo stile dei due chitarristi ricorda più quello degli indimenticabili Death piuttosto che il suono degli Iron Maiden. Il background dei protagonisti non comprende il metal più volgare ed inflazionato, o quantomeno, in fase di composizione vengono fuori solo le migliori ispirazioni. Ecco dunque che al disco partecipano anche Scott Kelly dei Neurosis e Neil Fallon dei Clutch, rispettivamente in “Aqua Dementia” e l’iniziale “Blood and Thunder”. Non c’è un momento di stanchezza, si corre da una parte all’altra passando dalla magniloquente, formidabile “I Am Ahab” alla mistura distorto-acustica di “Seabeast”, fino all’epopea di “Hearts Alive” che supera i tredici minuti in un autentico viaggio nel mare in burrasca. Si potrebbe parlare di ognuno dei dieci brani che compongono questa narrativa sul tema di Moby Dick di Melville, perché ognuno contribuisce a rendere in una parola epico questo disco, ma come per ogni cosa bella, affinché questa mantenga inalterato il suo fascino, è bene non sovrabbondare nei commenti e nelle interpretazioni. “La deriva progressive di Crack the Skye preoccupa, mentre dice anticipatamente addio alle coordinate sludge e core di partenza”. Qui invece c’abbiamo preso. Saranno anche più popolari e avranno vinto anche un Grammy (per “Sultan’s Curse”, da Emperor of Sand, 2017), ma il timore che ormai sia rimasta loro solo la simpatia c’è. La piega che hanno preso è inspiegabile perché non li porta a vendere più copie. I Mastodon dovevano continuare sulla falsa riga di Blood Mountain, che era un album che univa il metal al rock come pochi altri, come appunto sanno fare giusto Tool e Deftones. Invece, principalmente per mancanza di ispirazione, ma anche per scelte di produzione sbagliate, sono andati a finire nella terra di nessuno. Intesa come una zona dove non fai contento né il metallaro trve vecchio stampo, né quello più intellettualoide dell’era post metal.
Caso (umano) a parte è quello di Steve Austin, padre padrone del progetto Today Is the Day che dai primi anni Novanta fino ad oggi continua imperterrito ad incidere su disco le sue fobie in un metal che se non è da considerarsi sperimentale tout court, rappresenta certamente un mondo separato, parallelo a quanto accade intorno, e anch’esso fondamentale nella trasformazione della poetica metal. Steve Austin produce musica infischiandosene di tutto il resto, mettendo al centro la propria persona – o ego se preferite – e spaziando di qua e al di là del confine dell’estremo, lasciando ai posteri una manciata di album tanto fenomenali quanto schizofrenici. Se col tempo le sue ossessioni compulsive si sono fatte maniera (Kiss the Pig, Axis of Eden), la via crucis che porta sino al cospetto del doppio Sadness Will Prevail (2002) non comprende episodi da considerarsi minori, avvicinandosi anzi all’appellativo di “capolavoro” con Temple of the Morning Star (1997). Chiariamoci, la presenza di Austin in questo articolo è più dovuta al suo contributo al metal in generale negli anni di Neurosis e Tool, che per concrete affinità elettive coi maggiori attori della scena unitaria del post-core: anzi, la parola “post” non ha praticamente senso se affibbiata alla musica dei Today Is the Day, o quantomeno non nel significato per cui lo è su ISIS, Neurosis o Cult of Luna. È più logico rintracciare il noise/grindcore della band di Nashville nei Mastodon, che tuttavia presentano elementi di differenziazione piuttosto evidenti. La musica di Austin e gregari di volta in volta arruolati è un’autentica valvola di sfogo, un percorso naturalmente caotico e lacerante che va oltre il concetto di hardcore e probabilmente anche di metal in senso stretto. Da Supernova (1993) a Sadness Will Prevail, ogni album ha la sua forte raison d’être, e se i Neurosis negli anni hanno cominciato a raccogliere insperati consensi e ricavi, i Today Is the Day sono ancora un mondo rimasto ignoto ai più.
Al momento giusto sceglie di tornare fra i vivi anche una figura ormai mitologica del metal, si tratta di Justin K. Broadrick, già deus ex machina dei Godflesh ed ex membro dei Napalm Death, per anni praticamente assente dai circuiti che contano. Figura mitologica, ma anche schiava di un’ossessività religioso-spirituale che lo porta a chiamare col nome di Dio molti dei suoi progetti: Godflesh, God e quindi JESU. Quest’ultima la sfida che Justin propone sul mercato del post metal, con l’ausilio e la distribuzione della Hydra Head di Aaron Turner degli ISIS. Jesu (pronunciato “ièsu”) crea musica estremamente industriale – d’altronde Broadrick è inglese di Birmingham – ma con un taglio malinconico quando non anche etereo che riallaccia le gravi distorsioni delle chitarre e le cadenze marziali della batteria del fido Ted Parsons (Godflesh, ma anche Swans e Prong) allo shoegaze dei primissimi anni Novanta, nonché a reminiscenze di uno dei suoi primissimi esperimenti musicali, vale a dire l’elettronica minimal noise di Final. Ne nasce un metal post-industriale, meccanico e allo stesso tempo in grado di creare ambiente, già dalla prima uscita Heartache, il primo di una lunga serie di EP. Col successo underground del primo album omonimo, Justin ritrova la voglia di incidere – forse mai del tutto smarrita – ed entra in un vortice di iperproduttività che di fatto sminuisce il valore delle opere principali, che è bene evidenziarlo, sono oltre all’EP menzionato, proprio il disco omonimo e il successivo Conqueror (2007), clamoroso tentativo di pop industriale che inizialmente fa storcere il naso a coloro che aspettavano nient’altro che un nuovo lavoro monolitico e ultracompatto – soprattutto nell’umore – come il precedente full lenght. Conqueror riesce dunque ad evitare il soffocamento, la difficoltà ad arrivare in fondo, pur non superando l’effetto claustrofobico che imperversa qua e là, ritratto con macchie di acquerello e parallelo alle laceranti melodie vocali. Resta l’alienazione, resta la solitudine, resta il rimpianto.
Jesu tuttavia si fa largo presso gli ascoltatori della scena, riportando Justin fra i signori del rumore, tra le cui fila ora militano Tim Hecker, Ben Frost e un certo Brian Lustmord, riscoperto da Adam Jones che lo raccomanda ad Aaron Turner, Buzz Osbourne dei Melvins e dunque di fatto a tutti gli affezionati dei Tool. L’ambient noir di Lustmord e le sperimentazioni di questi protagonisti aggiungono colori e possibilità ai militanti del post-core, che si mostrano sempre più attenti alle loro produzioni. Quanto a Tim Hecker e Ben Frost, i loro dischi rivelano un sentore post-moderno, bianco e oscuro, ibidem industriale e spaziale, civile ed alieno. Il suono disturba e avvolge l’ascoltatore, rendendolo assuefatto ed impotente di fronte all’evoluzione dei paesaggi osservati. Con Hecker e Frost si va oltre il drone e oltre l’ambient.
La figura cardine del post metal però si chiama Aaron Turner, un personaggio in grado di calamitare attorno a sè le eccellenze della specie in evoluzione, contribuendo più di chiunque altro nei suoi anni alla creazione di un profilo del metallaro alternativo, indipendente e grazie al percorso fin qui raccontato, finalmente intellettuale. Giovanissimo, Turner fonda la Hydra Head, un’etichetta divenuta nel tempo uno dei più intelligenti distributori sulla scena, raccogliendo le promesse dei Duemila e rilanciando personaggi come appunto Justin K. Broadrick e Lustmord. Oltre al suo gruppo principale, collabora a numerosi progetti e progettini registrati coi suoi amici: membri illustri della scena di Boston o conoscenze fatte lungo la strada che lo ha portato a trasferirsi a Los Angeles e non ancora giunta al capolinea. Aaron è un ragazzo sì tormentato, ma tremendamente audace e maturo da tentare qualcosa che nessuno alla sua età ha mai realizzato con tale successo, garantendosi ben presto credibilità e rispetto da parte di tutta la scena, e anche di attori già affermati come Mike Patton – che mette gli ISIS sotto contratto con la sua Ipecac – e i Tool, che invece prendono la band sotto la loro ala protettrice, quasi fossero dei fratelli minori. I suoi esperimenti sonori paralleli Old Man Gloom (con membri di Converge e Cave-In), Lotus Eaters (James Plotkin e Stephen O’Malley), House of Low Culture (col bassista degli ISIS Jeff Caxide e Luke Scarola) hanno tutti la loro ragione. Con lo scioglimento degli ISIS, sono i suoi Sumac a tenere in vita le speranze del post metal. Tralasciando le sue amorevoli pubblicazioni in duo con la consorte Faith Coloccia, il debutto dei Sumac, la creatura animata assieme a Nick Yacyshyn dei Baptists e Brian Cook dei Russian Circles, è stato una sorprendente delusione. Ci si aspettava una direzione più orientata verso il rock, vista l’età ormai avanzata e quello che era stato il percorso fino a Wavering Radiant, invero sempre più ammiccante alla lezione e soprattutto al vasto pubblico dei Tool, e invece è stato un testardo tentativo di re-boot di tutte quelle conoscenze sludge e hardcore che non avevano più tutto lo charm dei vecchi tempi. The Deal (Profound Lore, 2015) era il più classico dei dischi di genere, per un pubblico di genere ormai disperso, divenuto anch’esso troppo adulto per curarsene, o preso da altri pensieri, parole, opere e omissioni. In una parola: anacronistico. What One Becomes, il secondo LP, è invece la cosa più bella capitata al post metal negli anni ’10, e riporta speranza a tutto un filone musicale ormai assuefatto alla noia, quando non anche destabilizzato da improbabili tentativi di divagazione. È un disco che va alle radici del concetto che ha animato la band di Turner, e in qualche modo oltre, perché un suono così potente non lo avevano neanche Celestial o Mosquito Control. Si torna quindi agli ISIS del primo periodo, quelli il cui viaggio è culminato con la pubblicazione di Oceanic. Difficile chiedere più potenza.
Perfino i suoi compagni d’avventura nel gruppo base si avventurano in escursioni fuori dal tracciato, tanto che sarebbe una pignoleria volerli enunciare tutti uno per uno, per par condicio. Ci limitiamo a quelli di Turner, perché è lui il fulcro, il nucleo incandescente che arreca energia agli altri. Aggiungiamo però il progetto Palms, ovvero gli ISIS senza Turner e Mike Gallagher, ma con Chino Moreno dei Deftones. Il risultato è discreto, ma manca proprio il chitarrismo di Gallagher a condire la base, sensazione che ritroveremo anche in alcuni dei progetti di Turner.
Per quanto siano i Mastodon – grazie al contratto con la Warner – il nome di maggior richiamo del lotto, sono invece gli ISIS il gruppo simbolo della scena, dando per scontato che i Neurosis vengano prima e facciano un po’ la parte degli zii piuttosto che dei colleghi/rivali. Sono infatti album come Oceanic e Panopticon quelli presi da modello da imitare ormai, non altri loro contemporanei come A Sun That Never Sets o Remission, figuriamoci i Cult of Luna o altri attori minori. Sono quei due capolavori istantanei o quasi a fomentare gli animi e a convincere ragazzi (anche dalle località più improbabili della crosta terrestre) a credere in ideali post-core intransigenti. A ben vedere, già dall’EP d’esordio – Mosquito Control del 1998 – gli ISIS avevano trovato qualcosa da dire senza risultare anacronistici; anzi, quel mini album propone dello sludge anche più a fuoco del debutto di due anni dopo, Celestial, forse troppo legato al concetto di base e dispersivo dei momenti di maggior pathos. La formazione è ancora stretta intorno al solo Turner: è lui fino ad Oceanic a determinare le coordinate, non c’è molto spazio per i pur talentuosi compagni di viaggio, che tuttavia si distinguono per la buona tecnica delle performance (Aaron Harris) e la ricerca di un suono che risulti sia personale, sia figlio di un incrocio di influenze tutto sommato ben chiare: The Cure (Simon Gallup), Slowdive, e certamente lo slow/sad core dei Red House Painters e dei Low per il basso di Jeff Caxide. Con l’ingresso in formazione di un secondo chitarrista in grado di ricamare intorno alle sferragliate di Turner (Mike Gallagher), e di un polistrumentista devoto all’ambient come Cliff Meyer, la macchina ISIS prende la sua forma definitiva e brilla di luce propria, emanando riflessi tanto forti che risulteranno i più influenti fra le giovani band del post-metal. Oceanic è un’opera enorme, una belva in assalto frontale che scivola nonostante i grandi artigli lungo il vetro dei sentimenti. Già, i sentimenti, il metal ambientale degli ISIS ne è carico e ne evoca altri ancora all’ascoltatore che non necessariamente deve seguire il corso degli eventi del concept dietro all’opera. È questa la forza degli ISIS per gli ascoltatori provenienti dal rock che notano la differenza fra questa band e quelle più volgarmente e brutalmente metal: c’è un taglio consapevolmente intellettuale in tutto ciò che producono Turner e compagni. Panopticon, disco incentrato sui ragionamenti del sociologo Michel Foucault, intorno al modello di prigione ideato da Bentham e sulla base delle premonizioni di Orwell, è un lavoro che inizialmente sembra essersi spinto anche fin troppo oltre, quantomeno per i fan della prima ora, più cari alla radice hardcore del gruppo. È in realtà la fotografia ad oggi definitiva del genere tutto, uno scatto grandangolare che invece di immortalare rende aria, trasforma in spirito il concetto di “postmoderno”. È uno degli album più importanti del suo decennio, e se ne accorgono prima in pochissimi (quelli che li seguivano dagli esordi o da Oceanic), poi in pochi (i fan dei Tool più attenti, visto che Justin Chancellor partecipa ad uno dei sette brani di Panopticon e gli ISIS vanno in tour con la band di Los Angeles), poi progressivamente sempre più ascoltatori ormai resisi conto dell’esistenza di una vera e propria scena. Panopticon risulta – con Oceanic – un classico ibidem indie, metal e ambient: impossibile chiedere di più nel 2004. Il successivo In the Absence of Truth cambia le carte in tavola, realizzando il rischio di replicare un’opera come la precedente; saggiamente – per quanto alcuni non ne comprendano le chiare motivazioni né in modo quasi bambinesco ne accettino l’estetica – Aaron Turner muove la sua creatura verso qualcosa di diverso: gli ISIS, senza rinunciare alle esperienze fin qui accumulate, ora vogliono fare canzoni, riuscire nell’impresa di scindersi dalla concettualità ad ogni costo, come insegnano i loro padrini Tool. Pur mancando della rilevanza storica dei due dischi precedenti, In the Absence of Truth rappresenta ciò che molte band ormai affacciatesi sulla scena non raggiungeranno mai, tanto che brani come “Not in Rivers but in Drops”, “Holy Tears” e “Dulcinea” sono da includere assolutamente tra le migliori composizioni degli ISIS, che si sciolgono col successivo Wavering Radiant (2009), appena in tempo per non varcare il nuovo decennio. Un album in linea col loro stile, nettamente superiore rispetto a quanto accade nel frattempo nella scena – ormai strapiena di cloni – ma che forse non riesce a rilanciare a sufficienza il percorso della band.
L’astuzia più grande degli svedesi Cult of Luna è l’aver sempre intuito in fretta dove si stava andando a parare, aggiornando di volta in volta il loro suono con le intuizioni dei maggiori attori, senza aggiungere molto di proprio, ma allo stesso tempo senza poter essere accusati di arrivare in colpevole ritardo. Partiti come formazione sludge senza particolari segni di riconoscimento, i Cult of Luna cambiano pelle e formazione a cavallo fra il secondo e il terzo album, in cui vi è una forte scissione con i vecchi stilemi che avevano portato a The Beyond, disco magari anacronistico ma certo lodevole in quanto pensato da giovanissimi musicisti come loro. Salvation (2004) è la raccolta di brani con cui decidono di buttarsi definitivamente nella mischia del post metal, rincorrendo gli ideali delle band di maggiore riferimento con il loro schema, fatto di continue e prevedibili alternanze fra pieni e vuoti, fra momenti di crisi e calma atmosferica, in un gioco di ambienti in cui la potentissima voce di Klas Rydberg lascia il campo ai fraseggi post rock delle chitarre. Salvation sembra una rilettura svedese di Oceanic (2002), a cui si aggiungono echi di Mogwai e l’apocalisse dei Godspeed You Black Emperor! in un ibrido davvero interessante. Il successivo Somewhere Along the Highway (2006) rilancia con decisione dalle soluzioni di Salvation, rendendo quelli di The Beyond un gruppo lontano, quasi rinnegato. Il discorso si fa più introspettivo, la tavolozza si arricchisce di alcuni colori/umori finalmente personali e il tutto viene condito entro una cornice che definire espressionista non è errato: dal punto di vista meramente artistico, Somewhere Along the Highway è l’album meno scontato dei Cult of Luna. Per quanto presenti un primo lato di altissimo spessore in cui spicca l’epica “Ghost Trail”, Eternal Kingdom (2008), arrivato puntualmente nel 2008, fallisce alla lunga distanza nel raccontare qualcosa di veramente nuovo ad un genere che i Cult of Luna non hanno fondamentalmente aiutato a progredire, limitandosi semmai a cercare di canonizzarlo. L’impianto vocale risulta ormai testardamente ancorato ad interpretazioni violente ad ogni costo che giunti a questo punto paiono se non poco credibili, quantomeno già sentite. È un lavoro rispettabile, come rispettabile è la discografia dei Cult of Luna, tuttavia sembra già soffrire della crisi generale del post metal. Va un po’ meglio nel periodo Vertikal (2012-13), anche se è tardi e non se li fila più nessuno. Trascurabile Mariner (2016), in collaborazione con Julie Christmas.
Alla testa di una serie di formazioni strumentali più o meno interessanti (fra cui ci sentiamo di citare in particolare i Red Sparowes del primo album), ecco sopraggiungere i Pelican da Evanston, Illinois, distribuiti anche loro dalla Hydra Head. La giovanissima formazione che vede i fratelli Herweg alla sezione ritmica, con le due chitarre di Laurent Lebec e Trevor De Brauw a incrociare le trame, partendo da un telaio marcatamente influenzato dallo stoner e dallo sludge (anche loro…), arrivano col secondo album The Fire in Our Throats Will Beckon the Thaw (2005) a formalizzare una nuova estetica di post rock, rendendo vecchio il suono dei capostipiti del genere ancora in circolazione, e soprattutto la miriade di band all’epoca attive in quel contesto. Se Australasia (2003) peccava di sfumature risultando solo un discreto esordio, il secondo episodio della saga – a cui va aggiunto l’EP March into the Sea – seleziona le chiavi giuste per convincere chi crede che ormai non ci sia più nulla da dire nella scena, con particolare riferimento alla scelta voluta di tenere gli spigoli, la sporcizia nei cambi di accordi e nei passaggi da una corda e l’altra della chitarra acustica. Proprio le chitarre acustiche, anche a dodici corde, si segnalano come mossa particolarmente azzeccata, alternando le progressioni tipicamente post rock a momenti di calma surreale che non stonano affatto col vortice sonico inscenato poco prima. È un disco formidabile, allo stesso tempo post metal e post rock. Lo stesso non si può dire di City of Echoes, lavoro modesto e privo di idee, partorito in fretta e furia da una band che sembra costipata, innaturalmente costretta entro uno stilema ormai consolidato e prevedibilissimo, anche a fronte di una ripetitività di cui è ormai vittima tutto il genere. City of Echoes non solo non aggiunge assolutamente nulla, ma anzi toglie freschezza e spontaneità: un fiasco autentico, così come quanto arrivato dopo. Il resto della discografia sembra più intenta a canonizzare lo stile che a portare avanti il discorso.
Il plotone degli inseguitori è folto e agguerrito, deciso a guadagnarsi il proprio spazio con i medesimi artifici degli attori protagonisti e infilando qua e là anche alcuni episodi interessanti. I due album dei Rosetta da Philadelphia si segnalano non solo per i loro concetti di fondo, ma anche e soprattutto per la potenza veicolata dalle loro interpretazioni, a tratti dei veri assalti sonori che improvvisamente colpiscono il fruitore non appena questi si assopisce allo stantio giro di cliché dello stile, immancabile anche nella loro produzione. I Rosetta tuttavia hanno la sola colpa di essere arrivati tardi – il primo album, The Galilean Satellites, è uscito sul finire del 2005 – perché i loro lavori risultano ben più ispirati e pregni di urgenza espressiva di quelli di altri illustri o emergenti nomi. Positivo non può non essere anche il commento alla discografia dei Minsk (un’altra band proveniente dall’Illinois), formazione di stampo prettamente sludge e doom metal, in grado di contribuire alla scena con due buoni tomi, in particolare il secondo LP The Ritual Fires of Abandonment. Se sapranno ampliare i loro orizzonti e variare maggiormente all’interno delle composizioni, il loro percorso artistico potrebbe rivelare ancora qualche sorpresa. Il combo dei Baroness, autori di una serie di pubblicazioni intitolati con fantasia con i nomi dei colori (il primo è il Red Album), è forse la variante dei Mastodon più accreditata in circolazione, sebbene i fattori in gioco siano altri, e i valori… pure. Si tratta ad ogni modo di musica che apporta qualche elemento di novità, grazie alle reminiscenze Seventies e a un approccio vagamente psichedelico. Punto di svolta nella loro storia è l’incidente stradale occorso a Bath, vicino Londra, quando il tourbus cade in un viadotto ferendo gravemente tre quarti della band. In quell’episodio, fondamentalmente, sono morti e risorti in nuova forma i Baroness. Il loro disco più personale e semmai quello che non dovrebbe mancare nella collezione di un appassionato della specie, è probabilmente Yellow and Green (2012).
Poi ci sono gli inglesi Shels, abili nel fondere e confondere lo sludge al post rock nel loro Sea of the Dying Dhow, opera prima ed al momento unica, che offre alcuni segnali di una potenziale personalità magari in grado di esplodere in forma più concreta in futuro. Ancora dediti allo sludge, ma con l’ambizione (o pretenziosità) di pensare in grande, ecco The Ocean da Berlino, che dal 2004 circolano negli ambienti post metal producendo album sovraccarichi di trovate, a volte ben amalgamate, a volte meno. Si possono tuttavia premiare per la voglia di tentare l’intentato, come in Precambrian, uno dei rarissimi album doppi del post metal (un altro è The Galilean Satellites dei Rosetta), tuttavia le uscite successive li hanno visti in chiaro crollo artistico. Si aggiungono alla lista anche alcuni fuori tempo massimo editi da casa Neurot come gli A Storm of Light di Josh Graham, collaboratore dei Neurosis e dei Red Sparowes (side project maggiormente dedicato al post rock che coinvolge anche membri degli ISIS), e i Battle of Mice, ancora Josh Graham, ma in compagnia di Julie Christmas dei Made Out of Babies. Infine, gli Spylacopa, progetto che vede coinvolti membri di ISIS, Dillinger Escape Plan, Candiria e proprio Julie Christmas.
In tutto questo l’Italia non è stata a guardare, ma ha cercato – com’è solita fare – di seguire la scìa dei principali fenomeni: d’altronde, se lo fanno i Cult of Luna e The Ocean in Europa, perché non possiamo anche noi? E allora ecco gli Ornaments da Modena, prima formazione post core italiana in senso stretto, o giù di lì. Il loro EP omonimo del 2003 prometteva buoni possibili sviluppi, ma essendo di fatto un side project dei più noti The Death of Anna Karina, evidentemente non sono più riusciti ritagliarsi uno spazio sufficiente per sopravvivere. Sempre da Modena si segnalano gli At the Soundawn, che prendono il nome dal primo album dei Red Sparowes e che incidono un album la cui cover cita il suprematista russo Malevic: possono avere qualche chance di crescita se oseranno qualcosa in più, e se avranno fortuna, perché il ritardo (l’esordio è datato 2007) è francamente grave. La scena italiana propone buone realtà intorno all’hardcore/screamo (come da tradizione), e se nei primi Duemila si sono alternati i vari Laghetto, La Quiete, Inferno e appunto The Death of Anna Karina, oggi di formazioni che fanno musica su queste coordinate se ne contano a decine. Sarebbe bene ricordare i With Love, una delle migliori proposte italiane degli ultimi anni, traditi dall’insuccesso e dalla confusione dell’etichetta gestita da Omar dei Mars Volta, e il post rock degli A Fog in the Shell, autori di un discreto esordio titolato A Secret North nell’ormai lontano 2004. Ciò che resta e desta ancora attenzione è il lavoro della Supernatural Cat, un’etichetta capace di raccogliere una manciata di interessanti realtà in grado di non far fare all’Italia la perenne figura di quelli che arrivano dopo i fuochi d’artificio. Ecco allora gli Ufomammut da Tortona, punta di diamante della casa (anche se poi passeranno alla Neurot), che incidono secondo una formula ormai collaudata insita di stoner, psichedelia e sludge metal. Ci sono poi i Morkobot, autori di uno strano ma originale miscuglio di suoni in cui si ritrovano King Crimson, Melvins, i viaggi dei 35007, il doom degli Electric Wizard, le stranezze dei Fantômas di Delìrium Còrdia, l’ambientazione dei Tarantula Hawk e chissà cos’altro. A chiudere, i romani Lento, più fedeli alle sonorità post core prevalentemente trattate in questo articolo.
Post metal e dintorni: una lista di album per sapere cos’è, in ordine alfabetico
01. Botch – American Nervoso
02. Botch – We Are the Romans
03. Breach – Kollapse
04. Converge – Jane Doe
05. Converge – You Fail Me
06. Cult of Luna – Salvation
07. Cult of Luna – Somewhere Along the Highway
08. Dillinger Escape Plan – Calculating Infinity
09. Jesu – S/T
10. Jesu – Conqueror
11. Knut – Terraformer
12. ISIS – Oceanic
13. ISIS – Panopticon
14. ISIS – In the Absence of Truth
15. Mastodon – Remission
16. Mastodon – Leviathan
17. Mastodon – Blood Mountain
18. Minsk – The Ritual Fires of Abandonment
19. Neurosis – Souls at Zero
20. Neurosis – Through Silver in Blood
21. Neurosis – A Sun That Never Sets
22. Neurosis – The Eye of Every Storm
23. Old Man Gloom – Christmas
24. Pelican – The Fire in Our Throats Will Beckon the Thaw
25. Rosetta – The Galilean Satellites
26. Rosetta – Wake/Lift
27. Today Is the Day – Temple of the Morning Star
28. Today Is the Day – In the Eyes of God
29. Today Is the Day – Sadness Will Prevail
30. Zeni Geva – 10,000 Light Years