Wilco – Cruel Country

Wilco – Cruel Country

Possiamo girare la frittata come vi pare, ma Cruel Country è il solito ed ennesimo disco dei Wilco alla Wilco. Più o meno ispirato, con alcune canzoni da raccogliere anche separatamente per un ipotetico best of, e a cui si tornerà in proporzione sempre minore rispetto ai classici della band di Chicago, perché tanto è chiaro, e non da oggi, che Tweedy abbia già vissuto la sua finest hour a cavallo tra i Novanta e i primi Zero.

Poi si può parlare di reminiscenze del periodo Uncle Tupelo e quindi di ritorno alle radici del loro sound, lasciandovi intromettere Nels Cline senza che questi faccia il fenomeno ad ogni costo come spesso è accaduto da quando è entrato nel gruppo, portandolo al dad rock più puro dopo gli anni in cui si era ben mosso attraverso i meandri dell’alternative.

Non si spostano fuori dall’angolo di una bisettrice che conoscono fin troppo bene, e il grado di attenzione per un doppio album come Cruel Country regge fin quando il songwriting e quindi le melodie non vi sembreranno già sentite e quindi troppo facili da memorizzare. Sono buone in questo senso le basi fornite dalle tastiere di Mikael Jorgensen, che presenziano e fanno da soffice tappeto in tutta la parte centrale dell’albo, in particolare fino a quella Many Worlds che è un po’ la traccia più progressiva e Seventies da molti anni a questa parte (almeno dai tempi di Art of Almost, da The Whole Love), mentre restano più indigeste le solite canzonette mid-tempo elettroacustiche che non aggiungono davvero nulla, anzi forse tolgono qualcosa alla poetica della band, che finisce per scadere nel mestiere, e risultano perfino difficili da distinguere.

Ci sono anzi vari momenti che faranno contenti i vostri nonni appassionati di Grateful Dead e Creedence (Falling Apart per esempio), da ascoltare in pantofole e con la tisana della sera ben calda sul tavolino del living. E c’è il dubbio che Glenn Kotche non sia più nei Wilco in realtà, o che lo facciano suonare bendato, ma che non ce l’abbiano detto, visto che la batteria si limita a fare da un innocuo accompagnamento.

Resta curioso che dischi come questi che in teoria dovrebbero rappresentare una certa America bianca progressista e anti-repubblicana, che crede nei valori di giustizia sociale, integrazione, del lavoro sicuro per tutti, della lotta all’inquinamento e di lotta agli stereotipi peggiori che noi europei affibbiamo all’americano medio, siano invece album di musica rock che più conservatrice non si può. Canzoni che suonano nostalgiche di un periodo in cui l’America ha plagiato il resto del mondo con i suoi brand e concetti capitalistici. D’altronde se ci trovi i Creedence e non i Pink Floyd, qualche dubbio ti poteva venire da subito. E il timore è che questa sia la possibile fine di molte formazioni di rock alternative con ancora un contratto discografico acceso (Pearl Jam anyone?).
Cruel Country può pure avere dei contenuti proletari figli della lezione del mitico Woody Guthrie e di Bob Dylan, ma alla fine dei conti suona proprio come un album in cui il significante è rivolto a una classe (più che a una generazione) che questo mondo ce l’ha lasciato così com’è, dopo aver solo abbozzato una protesta.