21 Agosto 2017
“Jonny uno di noi!!!” urlava alticcio un tipo smilzo dalle parti del mixer, più o meno a metà concerto. Sul palco dello Sferisterio, felino come non mai per scattare più volte da una postazione all’altra durante ogni canzone, il Greenwood che ha ideato il concerto sembrava totalmente devoto alla causa. Quella della migliore riuscita delle performance, per la soddisfazione del popolo dei Radiohead che in quattro minuti aveva acquistato tutti i biglietti disponibili – alcuni dei quali a cifre da finale di Champions League – e del compagno associato Thom Yorke, incastrato in questo evento benefico e apparentemente preoccupato di non fornire una prestazione degna della sua fama. E forse, quella del voler davvero dare un tangibile segno di amicizia alla comunità marchigiana a cui evidentemente si sente legato, avendo vissuto in prima persona lo sciame di terremoti dell’autunno 2016 nella sua casa di Fermo.
Proprio questa umiltà ha reso il concerto anche migliore di quello che ci si aspettava. I piccoli errori, i richiami e i cenni di disappunto di Yorke, i progressi del suo Italiano, l’atmosfera di grande silenzio durante le esibizioni di pezzi che tutti conoscevamo a memoria – tranne forse che per la perennemente incompiuta “Follow Me Around” e per “Cymbal Rush” dal primo solista di Thom – ma che volevamo ascoltare in silenzio in quella nuova veste, hanno fatto sì che questo evento risultasse ancor più magico e irripetibile. Intendiamoci, c’erano già tutte le condizioni perché lo fosse, ma proprio l’elemento umano ha fatto la differenza, anche rispetto a tutte elucubrazioni e fantasticherie che avevamo avuto tempo di accumulare.
Con l’Orsa Maggiore ad illuminarli dall’alto, hanno proposto un repertorio riarrangiato per chitarra, piano, CR78, Ondes Martenot e poco altro oltre alla voce di un Thom Yorke in grandissima forma. Performance come quelle di “Nude” e “A Wolf at the Door” sono state perfino superiori a quelle con la band al completo e con altre cinquantamila persone a cantarle in arena. Non sarà un ritratto bellissimo, ma da qualche parte in soffitta Thom deve avere un quadro che lo ritrae invecchiato e sfinito, perché arrivare alla soglia dei cinquant’anni ed essere ancora artista così attivo e lucido è davvero una roba da patto col diavolo.
Dicevamo con altri membri della Redazione di DYR dell’unico possibile termine di paragone per un evento come questo di Macerata, ovvero il live No Quarter, di Jimmy Page e Robert Plant. Fu un disco affascinante, firmato da due miti dell’età d’oro del rock and roll, che tuttavia non aveva catturato la magia dei primi Led Zeppelin. Invece, a oltre vent’anni dalle prime uscite, i due Radiohead sono ancora carichi e pieni di voglia di sperimentare. Francamente, una cosa simile a quella accaduta allo Sferisterio, forse non era mai accaduta nella storia del rock, o quantomeno non a questi livelli. Se non vi sembra possibile pensateci, ma non troverete facilmente un altro termine di paragone competitivo. Thom+Jonny sono migliori di Jimmy+Robert, questo è cristallino.
Per noi che ascoltiamo musica rock dai primi anni Novanta, e che abbiamo investito le nostre persone, ovvero ben più dei soldi e delle avventure passeggere per essa, il concerto di Macerata resterà come uno dei massimi vertici e forse il compimento di un intero percorso di vita e di valori che vi abbiamo associato. Parole per descrivere fino in fondo quel che abbiamo provato non ne troviamo a sufficienza. È stato un misto di felicità bambina e nervosismo isterico per aver raggiunto la nostra personalissima Grande Opera – perdonate il riferimento esoterico e le maiuscole quindi – e di paura che oltre non ci sia niente. Nel paradiso, in caso, ci devono essere spesso dei concerti simili. Altrimenti non vale la pena andarci.