25 Agosto 2017
Arrivando dopo l’istantaneo capolavoro Shields, Painted Ruins dei Grizzly Bear è il classico album su cui critica e pubblico indie puntano un motivato all in, salvo poi dileguarsi dalla responsabilità del giudizio se i primi ascolti non rispecchiano esattamente le aspettative.
Strumentisti eccezionali, a livello di Wilco e pochi altri nel circuito alternativo americano generale, i Grizzly Bear producono un suono rock stratificato tendente al progressivo che supera abbondantemente, in termini di complessità e come vedremo anche di intensità, il folk che è andato per la maggiore negli ultimi dieci-quindici anni. Restano anche uno dei pochi nomi senza predominanti elementi di elettronica presenti nel catalogo Warp, assieme al povero Gravenhurst, che di fatto era altrettanto introspettivo e doloroso. Sarebbe interessante chiedere ai portfolio manager dell’etichetta inglese a riguardo.
Di sicuro meriterebbero almeno il successo di Fleet Foxes nei cartelloni dei festival, e arrivati a questo punto del percorso, senza aver mai toppato un disco, ma anzi, avendone messi al mondo almeno 5 di ottima fattura – di cui un probabile masterpiece del rock a stelle e strisce del decennio in corso – dovrebbero aver raggiunto il livello di popolarità di band ben più note anche in Europa, come The National e Interpol. C’è anche chi di album ne ha fondamentalmente azzeccato uno solo, e ancora oggi è più popolare.
C’è poi ancora da annotare la proiezione Shields – OK Computer, ovvero la sensazione un po’ vaga ma ricorrente che ci sia qualcosa in comune tra i due, che lascia pensare che i Grizzly Bear siano degli incompresi Radiohead americani di questi anni.
“Two Weeks”, da quel Veckatimest che nel 2009 li ha fatti realmente notare per la prima volta anche nel vecchio continente, è il luccicante specchietto per le allodole che si sono avvicinate ai Grizzly Bear pensando di trovare spensieratezza pop estiva e invece hanno trovato una malinconia strutturata e profonda, quasi patologica. Una sensibilità oscura che appunto ricorda, nella poetica e nell’immagine, proprio il lavoro di Thom Yorke e soci.
Il nuovo disco è complicato, per niente facile da decifrare. Come sempre suonato magistralmente, sembra avere un magnetismo inverso, che respinge chi vi si accosta ma non è totalmente disposto a comprenderlo. È come se i Grizzly Bear stessero suonando in un salone a cui possono avere accesso solo coloro che sono disposti a investire energie intellettuali per comprendere la loro musica e soprattutto i loro testi – fondamentali nella proposta – così tetri ed ermetici.
Se si ascolta musica per intrattenimento, per evadere dalla routine e per mero sottofondo mentre si pulisce la casa o si prepara la cena, non sono i Grizzly Bear il gruppo per voi. Vale lo stesso per i Radiohead non credete? Se si compra un disco dei GB, si sa che non si ascolterà qualcosa di rilassante o solo divertente. Occorrerà uno sforzo intellettuale, che poi magari porta anche a un divertimento diverso, difficile da definire, ma corrispondente all’umore dell’autore.
In Painted Ruins mancano i singoli piacioni. Forse non trovando alternative o vie di fuga a Shields, risultato di un percorso lungo dieci anni, i GB si sono rinchiusi su se stessi per produrre un album sofisticato, in cui c’è ulteriore progresso tecnico a livello strumentale e ulteriore lirismo nero, ma che di fatto scende di almeno due passi dai picchi di intensità di Shields. Probabilmente voluto, il nuovo è un albo in cui Droste e compagni si scrollano di dosso qualche responsabilità ingombrante e decidono di non rispondere alle aspettative, ma di proseguire su una traversa della piazza a cui erano arrivati. Non un vicolo, ma comunque una strada secondaria che risulta meno illuminata e in cui non è previsto il passaggio della processione o di alcun corteo festoso. Abbassano la testa e attraversano la via, a prescindere. E ascoltandole, ti rendi conto che se non arrivi subito a dominare le nuove canzoni è perché dettagli sonori e intrighi stilistici sono disseminati in modo da non rendere Painted Ruins un’operetta da una botta e via. Nessuno ne verrà a capo con pochi ascolti distratti: la stratificazione e l’articolazione degli arrangiamenti non lo permettono, ma questo album è un classico grower.
Ci piacciono particolarmente “Losing All Sense” e “Systole”, forse i due brani più nuovi del lotto. Molto bene in questo senso anche i due che hanno anticipato l’uscita, ovvero “Three Rings” e “Four Cypresses”, mentre forse potevano risparmiarsi il singolo con video “Morning Sound”, invero la traccia più demagogicamente rock, quella che potevano lasciare ai National o addirittura agli Interpol. Difficile d’altronde che funzionerà bene come “Two Weeks” ai tempi. Quasi crimsoniana “Acquarian”, e sembra uscita dal repertorio di Robert Wyatt “Glass Hillside”, a riprova del vibe progressivo nella loro offerta.
Se al primo giro completo abbiamo annotato un 74/100, andando avanti con gli ascolti siamo saliti all’81 che trovate in calce. Non si sale oltre perché manca qualcosa, non facile da definire se non con la sensazione di assenza di compassione – ma non si dica freddezza! – eppure non ci stupiremmo troppo se Painted Ruins nel lungo termine divenisse per qualcuno il preferito dei Grizzly Bear.