30 Luglio 2016
Circa due anni fa ho deciso di prendere di petto la questione Brian Eno. Fino a quel momento Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno per me era stato una specie di animale mitologico, meglio conosciuto come “quello dei Roxy Music”, “quello che fa ambient”, “quello della trilogia berlinese e degli U2”. Nel 2008 era arrivata l’infamata definitiva: “quello dei Coldplay”. Nel 2010, “Brian Eno”, tra virgolette, diventava addirittura una canzoncina degli MGMT. Non potevo accettare l’idea che lo stesso uomo di Low (David Bowie, 1977) fosse in realtà un produttore di pop rock da stadio e, allo stesso tempo, un ironico pezzo indie. Bisognava prendere provvedimenti.
[Tweet “My Life in the Bush of Ghosts inganna il vostro udito per un bene superiore”]
La spinta definitiva me l’ha data My Life in the Bush of Ghosts (1981), frutto della collaborazione con quell’altro geniaccio di David Byrne, leader dei Talking Heads. Per troppo tempo quell’album era stato soltanto una copertina sulla pagina web di una rivista specializzata. E mica una copertina qualunque, ma proprio una di quelle che tiri fuori quando vuoi fare il figo che ascolta solo musica uscita dal ‘77 in poi (… ehm, coff coff). Eccovi una “Mea Culpa” strategica.
In principio è stato ascolto rivelatore a riaccendere il mio interesse, poi l’ho visto far capolino sugli scaffali di un negozio di dischi e da lì è cambiato tutto. L’edizione era quella uscita in occasione del venticinquesimo anniversario, con la copertina esterna a righe colorate, e la parte migliore era il corposo booklet, che svelava dettagli fondamentali per la comprensione dell’opera.
È curioso come i retroscena del processo produttivo di questo disco facciano sorgere spunti di riflessione interessanti più sulla musica del nostro tempo che su quella della sua epoca. Molte delle intuizioni sono perfettamente valide ancora oggi, Eno era proiettato nel futuro non soltanto a livello puramente sonoro.
Lo-fi & Mind Tricks
The fuzziness and ambiguity inherent in low-quality signals and reproductions might actually be a factor that gives the listener a way in. I know from writing lyrics that some details – names, places, locations – are desirable; they anchor the piece in the real world. But so are ambiguities. By letting the listener fill in the blanks, complete the piece of music, the work becomes personalized. They become more involved with the work, and an intimacy becomes possible that perfection my have kept at bat. Maybe lo-fi music crowd has a point? – David Byrne, How Music Works
L’esperimento condotto con My Life in the Bush of Ghosts consisteva proprio nel mettere insieme basi e linee vocali tra di loro estranee. Tramite un processo di trial and error, con nastri che giravano contemporaneamente, Eno e Byrne erano riusciti ad arrivare a un prodotto in cui le voci sembravano rispondere alle basi come se fossero state cantate su di esse, quando in realtà provenivano da tutt’altra parte.
Si può ingannare la vista sfruttando illusioni ottiche col cervello che cerca di completare figure geometriche di base soltanto accennate, e allo stesso modo si può ingannare l’udito. Di conseguenza, si possono manipolare anche le emozioni.
Mi è capitato di far partire per caso la predica di Father John Misty dell’XPN Festival mentre stavo ascoltando “E.V.P”. di Blood Orange. Ripensando a questa cosa, ho provato a ricreare l’evento e l’ho registrato. Divertitevi:
Esplorazione & Condivisione
Nel 1980 era uscito anche Fourth World Vol. 1: Possible Musics, frutto della collaborazione di Eno con il compositore Jon Hassell. Il titolo dell’opera è un inno alla fantasia compositiva sufficientemente autoesplicativo: se quelle civiltà esistessero, che musica produrrebbero?
Nella loro visione originale, Eno e Byrne avrebbero voluto far passare il disco come testimonianza di una cultura sconosciuta (in realtà immaginaria), secondo un approccio molto letterario. In questo modo avrebbero messo in evidenza il prodotto musicale piuttosto che loro stessi, che sarebbero rimasti sullo sfondo.
Una prima considerazione che viene di fare è questa: non abbiamo forse assistito, nel nostro tempo, al tramonto della classica figura della rockstar-divinità? Pur senza tirare in mezzo il caso limite rappresentato da Burial, le figure di culto sono diventate più silenziose, più di nicchia, più simili al loro stesso pubblico. Anche se poi Eno e Byrne hanno finito per usare direttamente i loro nomi, l’intuizione che avevano avuto era abbastanza significativa. Ricordiamoci che in quel momento il rock era rappresentato anche dal muro di Roger Waters, con l’artista che nell’isolarsi si sentiva irraggiungibile e finiva per darsi anche troppa importanza.
Tornando invece al concetto Fourth World, la necessità di cercare qualcosa di diverso è una di quelle cose che avverti quando capisci che non ti basta più ciò che già conosci. Con tutti gli ascolti che abbiamo alle spalle, è qualcosa che abbiamo provato tutti noi che ancora perseveriamo nell’ascoltare musica rock. Ci sono quei momenti in cui l’unica cosa che conta, per noi comuni mortali, sono i Godspeed You! Black Emperor e i Throbbing Gristle.
Per quelli come Brian la faccenda è diversa, possono mettersi a giochicchiare con le onde fantasticando su culture immaginarie, sui suoni dell’universo (no, non le famigerate demo dei Depeche Mode 2009) e quant’altro. Ma quelli come Brian, del resto, sono anche figli di altri tempi. Lui, Byrne e Hassell si chiudevano in un appartamento per scambiarsi vinili recuperati in giro per il mondo, pensando a come avrebbero potuto sfruttare quelle conoscenze tramite la loro arte. Questo noi non possiamo farlo secondo le stesse modalità, ma frequentare oscuri e temutissimi forum è proprio ciò che ci ha portati ad allargare i nostri orizzonti musicali e, oggi, a non vivere la nostra passione esclusivamente in funzione del ritorno del dinosauro rock di turno.
A proposito, spero abbiate ascoltato tutti The Ship. Potrà anche rientrare anagraficamente nella categoria dei dinosauri ma “we’re always one step behind him, he’s Brian Eno”.