Brian Eno – The Ship

Brian Eno – The Ship

Se devi raccontare il nuovo disco di un mostro sacro del rock, gli errori più comuni in cui puoi cadere sono due. In primo luogo, la troppa prostrazione, tipica del nostalgico rimasto incastrato nella fase “era meglio quando si stava peggio”, o del professionista che scrive i comunicati stampa per i siti che annunciano i concerti: troppe volte abbiamo sbadigliato all’ascolto dei “magnifici ritorni” di icone sbiadite che, a ben vedere, hanno solo avuto la fortuna di giungere al mondo prima di altri, perché uscissero oggi, avrebbero ben poco significato.

Il secondo abbaglio che si può prendere è quello molto comune negli ambienti indie-snob dei forum e delle comunità online, vale a dire l’avere la sentenza negativa già scritta, anche prima di averne ascoltato la prima nota. È quasi sempre iniquo il confronto col glorioso passato, ma a volte, come nel caso di The Ship di Brian Eno, la devozione o la presunzione di aver già ascoltato tutto quel che l’autore poteva dire vanno messe da parte, perché il nuovo parto del pioniere della musica ambient tutta offre contenuti e spunti di riflessione in abbondanza. Se la pubblicazione da parte della Warp del precedente Lux era apparsa come il compimento di un uroboro ideale del percorso della musica elettronica, The Ship rilancia la sfida in uno spazio sonoro che in primis somiglia a qualcosa di cinematografico e ampiamente conosciuto, poi si dissocia da tutto il resto del catalogo dell’artista, risultando la sua opera più intrigante da molti, molti anni a questa parte. Si partecipa a un minimalismo tridimensionale in cui le canzoni, se così si possono chiamare, non seguono le solite progressioni di accordi o le classiche basi della struttura ritmica, ma esistono nel loro spazio e nel loro tempo, come elementi reali di un orizzonte integratore ben più ampio, e appunto, spaziale: sembra di essere lassù, da qualche parte alla deriva in una navicella nello spazio, mentre reminiscenze o segnali dalla vita terrena sono ancora intercettati eppure subito tralasciati. Magari un po’ forzatamente testa d’uovo e un filo troppo kubrickiano, il disco si rivela meno prevedibile di quello che le prime note promettono, soprattutto una volta perso il controllo su di esso e quindi lasciato libero di scorrere. Non è la solita sbobba ambient sintetizzata. Anzi, quando pensi di aver capito dove Eno sta andando a parare, ecco una svolta rumorosa a spezzare l’ipnosi, ecco un risvolto analogico o orchestrale in mezzo a un mare digitale, ecco un refrain innodico che non avevi calcolato. Vieni poi a scoprire che le parole delle quattro tracce – la quinta è una cover “I’m Set Free” dei Velvet Underground, anche se suona come fosse un pezzo degli Slowdive era Souvlaki – sono state generate da un software che ha raccolto, scombinato e poi sputato fuori versi provenienti da canzoni di soldati della Prima Guerra Mondiale, report e istruzioni su macchinari, cyber-burocrazia, e vecchie canzoni dello stesso Eno. E se la faccenda non fosse già sufficientemente intellettuale, leggi che parallelamente all’uscita del disco, saranno portate in giro per il mondo una serie di installazioni di Eno in cui si potrà ascoltare una versione alternativa di queste canzoni in tre dimensioni.

Non sarà la novità più fresca del momento, né un album di pezzi che possono segnarti l’estate ormai alle porte, ma The Ship dimostra che Eno sarebbe stato un genio anche se fosse emerso oggi, quindi decontestualizzato dalla scena e dagli anni in cui ha pubblicato i suoi classici, sia come attore protagonista che come produttore. Ad avercene di vecchietti così, ad avercene di nuovi Brian Eno.