14 Luglio 2021
Lewis Roberts fu una bella scoperta. Lo notai su SoundCloud, quando ancora bazzicavo regolarmente su certe frequenze, in un mix che conteneva un suo brano, forse “4D”, forse “Lost In Tokyo”, non ricordo con certezza. Col primo EP sembrava destinato a seguire la scia dei Mount Kimbie (agli esordi saldamente radicati nella scena post dubstep), salvo poi lasciarsi quest’etichetta alle spalle per esplorare nuove forme di composizione, non limitandosi a manipolare quanto già parte della sua palette artistica.
‘Agor’ is the Welsh word for open and it’s an apt name for a recording which exists at sensory thresholds, straddling the various worlds of dance, ambient and contemporary classical while not sounding like an example of any of them.
Così viene presentato Agor, rilasciato per la Young (ex Young Turks, recentemente oggetto di rebranding) e giuntoci dopo cinque anni di nulla cosmico, dove del Nostro abbiamo avuto poche notizie, una su tutte rassicurante: l’aver lavorato alla realizzazione dell’altrettanto atteso Magdalene, manifesto del genio di FKA Twigs. Dietro una così lunga attesa risiede una buona dose di rischio, poiché nessun panorama quanto quello elettronico è soggetto ad istantaneo invecchiamento del sound, specchio dell’odierna realtà ipervelocizzata in cui siamo immersi. Il merito del producer è stato l’essere riuscito a mantenere vigile una fedele cerchia di appassionati, preparando pian piano il terreno per il debutto tramite pochi singoli ben dilazionati nel corso del decennio.
Pubblicata lo scorso ottobre, “Black Rainbow” interrompe il silenzio con un crescendo fantascientifico, prontamente seguito da “Primes”, il cui intento è quello di dilatare la melodia precedente, di modo che si spenga più lentamente – espediente inusuale che caratterizzerà anche le successive “White Picket Fence” e “Act(s)”. Koreless palesa una predisposizione per strutture sonore più complesse nel side B, che prendono una piega quasi schizofrenica – a volte strizzando l’occhio alle progressioni trance di Lorenzo Senni – come testimoniano “Frozen” o l’onirica “Strangers” in chiusura. “Joy Squad” invece, singolo di lancio, è la chiave di volta del disco, autentico spartiacque tra le passate produzioni del gallese e questo nuovo corso focalizzato sul saper plasmare più ambiti musicali a sua immagine.
Pienamente ripagata la fiducia ripostagli anche quando, ad esempio, lo si accusava di giocare oltremodo con le ritmiche sintetiche in Yugen. Ora, sperando di non dover attendere troppo per seguire le declinazioni del prodigio originario di Bangor, non resta che godere del presente.