100. Zimpel/Ziołek – Zimpel/Ziołek (2017). Nella vita di tutti i giorni, Kuba Ziołek e Wacław Zimpel suonano musica sperimentale dalle radici folk (Ziołek) e jazz (Zimpel). Dal loro incontro a Cracovia nasce questo LP di quattro tracce, per quaranta minuti di musica che trascendono i generi da cui i due protagonisti provengono, per avviarsi su lidi che viene difficile inquadrare con una sola parola. Ci sono elementi etnici, ambient, new age e un generale vibe progressive che rimanda a dischi ormai lontanissimi nel tempo, ma che se siamo qui a leggere, tutti abbiamo ascoltato.
99. These New Puritans – Hidden (2010). Ci sarebbe da discuterne sin dal titolo e dalla copertina, perché al secondo tentativo i fratelli Barnett piazzano un colpo tanto affascinante quanto tutto da decifrare. Co-prodotto dall’ex Bark Psychosis Graham Sutton, propone musica dove funambolismo è la parola d’ordine, in un cerimoniale orfico dove non c’è un espediente tecnico veramente protagonista: battiti digitali e primitivismo squadrato, rumori disordinati, sciabolate al buio che tagliano l’aria, cori gregoriani, paganesimo spinto, fiati e archi a ricamare prima in sottofondo poi in prima linea… tutto converge a pari merito entro una visione che recupera il concetto di sperimentazionismo nel rock.
98. Jamie xx – In Colour (2015). Jamie si propone come un artista con idee fresche e personali, totalmente padrone dei propri mezzi e forte di un utilizzo veramente espressivo dei campionamenti e dei software con cui ha scelto di produrre la sua musica. Il motore degli xx è bello e lucente, e nel decennio successivo al clamoroso esordio omonimo del trio del quartiere londinese di Wandsworth, questa raccolta in In Colour è la migliore musica prodotta con la stessa matrice.
97. Nick Cave and the Bad Seeds – Skeleton Tree (2016). L’atmosfera generale di Skeleton Tree non si avvicina a niente di precedente nella discografia di Cave. Certo nessuno dei suoi lavori tetri e posseduti, ma neanche album più introspettivi come The Boatman’s Call (1997) o No More Shall We Part (2001) – senza andare troppo indietro nel tempo – possiedono la drammaticità di quest’ultimo capitolo, che pure altrimenti, studiando i testi attentamente e quindi andando oltre la tragedia che l’ha preceduto, non sarebbe neanche un albo dark. Mancherà il peso specifico dei tempi d’oro, e soprattutto la voglia di fare arte coi Bad Seeds dei primi anni Novanta, ma in termini di qualità delle composizioni Skeleton Tree è quantomeno il migliore dal 2003 ad oggi, Grinderman inclusi. Forse non è più impossibile fare dischi di grande intensità in vecchiaia.
96. Pantha Du Prince – Black Noise (2010). Fin dalle primissime note di “Lay In A Shimmer” il marchio sonoro di Pantha Du Prince risalta evidente entro il panorama elettronico odierno, per leggerezza, inventiva e originalità. Dopo il cambio d’etichetta, il nuovo lavoro del produttore tedesco si allarga a collaborazioni anche prestigiose, come ad esempio nella bellissima “Stick To My Side”, dove Noah Lennox, alias Panda Bear presta se stesso per una delle tracce migliori dell’album. Come nel precedente This Bliss, l’aria che si respira è quella di una musica che sconfina oltre il suono canonico per frastagliarsi in una molteplicità di soluzioni, dove alla ben definita base ritmica risponde una variegata e intrecciata serie di loop ed echi, così da creare un sentimento di pienezza sonora che si istituirà come costante lungo tutta la durata del lavoro.
95. Childish Gambino – Awaken, My Love (2016). Il 2016 è stato l’anno d’oro di Donald Glover: Atlanta si è rivelato uno degli show più interessanti di quella stagione televisiva, e sul piano musicale il ritorno del suo alias Childish Gambino è riuscito a far ricredere chi aveva storto il naso con i suoi precedenti album. Siamo davanti a un nuovo inizio che azzera tutto e decide di tornare alle radici del funk e del soul, qui omaggiati con dei piccoli classici istantanei, senza disegnare uno sguardo anche al recente RnB con melodie semplici ed accattivanti.
94. The Men – New Moon (2013). Registrato in presa diretta e in un ambiente talmente buio che a malapena riuscivano a vedersi tra loro mentre suonavano, il nuovo dei Men ha un suono imperfetto e apparentemente caotico, in cui lo spirito folk si fonde con il noise di scuola Dinosaur Jr., per un risultato ammirevole da qualsiasi punto di vista lo si voglia osservare. Non se ne trovano molti di dischi di questo tipo in circolazione ormai. Anche per questo motivo, il Neil Young di Rust Never Sleeps approva questa scelta.
93. Goat – World Music (2012). Il loro rock, intriso di primitivismi psych e hard rock rudimentale, è ancora oggi un caso discografico di difficile comprensione. Vuole la leggenda che gli abitanti dello sperduto villaggio di Korpolombolo compissero ancestrali riti voodoo. Non si conoscono molti dettagli di questa storia ambientata nel lontano Nord della Svezia, da qualche parte nella Terra Cava, ma sicuramente lo sciamano che ha introdotto questi riti nel villaggio ritrova vita nuova in World Music.
92. Machinedrum – Room(s) (2011). Il suono iperattivo di Chicago e Detroit è il collante per tutte le diversità di cui Machinedrum è il riassunto, dando quella stessa sensazione di compattezza, di impossibilità di fuga che contribuisce ad aumentare il senso di tragicità di cui è cosparso l’album. All’ascolto, non è raro ritrovarsi in quegli stati mentali meditativi, urbani e malinconici resi cari da Burial come dagli stessi Sepalcure, fatti di suoni impercettibili, sintetizzatori pensosi e bordate che risvegliano l’anima. Al passo coi tempi, già senza tempo.
91. Mark Kozelek & Desertshore – S/T (2013). Depressivo, ma anche accogliente e familiare come solo un cuore generoso sa essere, Mark non ha il timore del fallimento che oramai troppi artisti si portano dietro come un ingombrante vincolo per la sopravvivenza. La forza dell’album coi Desertshore risiede nella capacità di concedere spazio di riflessione alle piccole cose, ai ritratti, alla desolata normalità dei sentimenti, mutevoli come il tempo. Si chiamano suggestioni, esattamente come quelle letterarie e cinematografiche, nelle quali la maturata amarezza slowcore di Kozelek si mischia alla lirica.
90. Grimes – Visions (2012). Esotica, enigmatica, sfuggente e anche un po’ fulminata, si muove attraverso un rincorrersi di loop a cavallo tra sogno inquietante e musica che esce da casse subacquee. Per tutti è Claire Boucher, la one-woman-band in piena che produce ritmi traballanti. Un talento obliquo e molto cristallino, che prima di far parlare di sé per la sua storia con Elon Musk e per dei video di accompagnamento un tantino esagerati, aveva prodotto questo disco di moderno synth pop che ci aveva pienamente convinti.
89. Car Seat Headrest – Teens of Denial (2016). I suoni squadrati, le melodie, lo scazzo, le facilonerie, le articolazioni chirarristiche, le parole mangiate, qualche urlo al punto giusto. Così Will Toledo si è preso la scena con questo Teens of Denials che segue la raccolta del presunto “meglio” dell’elefantiaca produzione pre studio di registrazione. Ora che ha deciso di avvalersi di una band a tutto tondo, la Matador, anche verificato il grande seguito sul Web, lo ha convinto a misurarsi con il proprio talento. Ne è uscito fuori uno dei dischi rock più rilevanti del suo periodo.
88. The War on Drugs – Lost in the Dream (2014). È piaciuto molto questo LP di puro heartland rock di metà anni Ottanta, ben arrangiato e quindi ben mixato, in cui ogni pezzo sembra in procinto di essere allungato all’infinito quando arriva la chiusura, la mossa dettata dall’intelligenza di chi sa mettersi dalla parte dell’ascoltatore. Un ascolto facile da seguire come un rettilineo senza possibili strade secondarie. Succede poco nel mezzo, non ci si perde, ma si è comunque altrove.
87. The World Is a Beautiful Place and I Am No Longer Afraid to Die – Harmlessness (2015). Uniscono folk e power pop senza abbandonare il primordiale scheletro emo in un long playing che trapassa come una dolce e sottile lama lezioni di rock mid-tempo. Dentro Harmlessness risiedono i Trail of Dead meno tronfi – quelli di Worlds Apart in particolare – e addirittura i Pumpkins più avventurieri, senza rinnegare l’ammirazione per i Modest Mouse dei vecchi tempi. Non molla un centimetro per tutti e tredici i brani.
86. The Good The Bad and the Queen – Merrie Land (2018). Nella sua mancanza di hit, ci comincia a piacere molto lo stile del combo The Good, The Bad & The Queen. Sembra una di quelle che band troppo mature per farti l’albo che ti cambia la vita, ma che può farne uno come Merrie Land in grado di accompagnarti per una sua stagione, a cui tornerai di tanto in tanto, ricordandone i temi – i nuvoloni che si accumulano sopra il Regno Unito dopo l’uscita dalla Comunità Europea – e le sensazioni vissute. Mala tempora currunt, e Damon Albarn ne è pienamente consapevole.
85. Fuck Buttons – Slow Focus (2013). I Tangerine Dream saranno orgogliosi di questo disco di pura magnificenza cosmica, che riesce ad andare ben oltre la terrestre psichedelia o la sbornia e la volgarità di certa trance elettronica. I signori Hung e Power intraprendono un viaggio ai limiti della fisica, nel tentativo di scoprire la ragione teleologica, e dunque uno spirituale sopraelevato rispetto ai tribalismi degli esordi.
84. Midlake – Antiphon (2013). Un album che se non fosse per la qualità della registrazione potrebbe essere uscito nel 1971. Si tratta del quarto lavoro dei texani Midlake, il primo senza l’ex cantante Tim Smith, e propone un folk sinfonico e progressivo in grado di ipnotizzare con una poetica che rimanda a quegli anni, senza mai temporeggiare o mettere l’accento sulla banalità di cose già dette e stravissute. Comus, Van Morrison e King Crimson fra i punti di riferimento.
83. My Bloody Valentine – MBV (2013). Cercavamo la bellezza nella dissonanza… noi ce lo siamo proprio meritato questo disco. Chiaramente Shields non ha impiegato 22 anni per scrivere queste canzoni, sebbene siano state un work in progress sin dalla seconda metà degli anni Novanta. MBV ribadisce anche che Loveless è stato un punto d’arrivo così avanti rispetto all’epoca che ancora oggi non si riesce a superare o integrare: è un’opera che è andata anche oltre il suo autore e che ormai si può dire abbia un’anima a sé stante. Il cento centesimi per eccellenza. Detto questo, sarebbe da sciocchi non godersi questi nuovi trequarti d’ora di musica che risultano comunque pazzeschi, clamorosi, potentissimi. Tra tutta la roba shoegaze/dream, proprio non si trova un album davvero simile a questo, che forse più che un capolavoro è la conferma che loro non si possono proprio imitare.
82. Earl Sweartshirt – Some Rap Songs (2018). Se c’era qualcuno che poteva contendere a Kendrick Lamar il trono di rapper del decennio, quello è Earl Sweatshirt. Affiliato in origine alla Odd Future di Tyler, The Creator, Earl esordiva appena sedicenne con il mixtape “Earl”, e scatena subito l’attenzione del pubblico. Opera dopo opera, dopo lunghi iati compositivi, è diventato sempre più cupo, fino a giungere nel 2018 (in piena epoca trap) a queste “canzoni rap” astratte, brevi, con beat sperimentali che ricordano J Dilla o il Madlib di “Maidvillany”. Un flusso di coscienza vero e proprio, con Earl in continua lotta con i suoi demoni e con i vari campioni soul che appaiono in maniera illogica nelle tracce. Nelle poche barre a sua disposizione, il giovane rapper riesce ad affrontare tematiche delicate come il rapporto col padre (morto di recente), la depressione, i disagi della fama inaspettata, la tossicodipendenza. E tutto ciò esibendo, senza sforzo alcuno, una tecnica ed un flow incredibili. Il senso di verità di quello che racconta appare in maniera evidente, senza bisogno di alcun artificio, di pari passo con il rifiuto di qualsiasi trend commerciale.
81. Esben and the Witch – Violet Cries (2011). Gli Esben traggono ispirazione da uno strato-base di inquietudini romantic-gothic e simbolismi che è collettivo e quindi universale, capace di trasmettere qualcosa a tutti. Non ci si aspetti certe sensazioni solo dai vecchi maestri del genere, perché qui ne abbiamo già dei nuovi e sono quelli del nostro tempo. Chiedere di più a musica con queste caratteristiche sembra quasi impossibile.
80. Nicolas Jaar – Space Is Only Noise (2011). Prova intensa, complessa, ambiziosa quanto appagante nei suoi saliscendi d’umore ed atmosferici. Un quadro straordinariamente diversificato, in cui Jaar ha sorprendentemente saputo conservare l’eleganza impeccabile, la compostezza stupefacente di chi nasce con il dono del gusto, apertamente visibile tra le strutture marcatamente dimesse del suo modo intelligente di concepire la microhouse. Negli anni si è rivelato più rilevante e consequenziale di quanto era sembrato all’epoca.
79. Wild Nothing – Nocturne (2012). Un gioco di melodie wave che affascinano quanto e più del previsto: echi di Slowdive, Cure non sputtanati e del dream pop più nobile contemporaneo – leggi Beach House – fanno il resto, in un album in cui non c’è solo l’atmosfera o il riferimento a qualcosa di già noto a farti drizzare le antenne, ma anche e finalmente delle composizioni arrangiate con grande maestria. Jack Tatum sa confezionare splendide canzoni pop rock. È mezzanotte, e tutto va bene…
78. Josh T Pearson – Last of the Country Gentlemen (2011). Ecco il risultato delle numerose esibizioni al West Country Girl, la crêperie dalle parti di Rue Saint-Maur dove fino al giugno 2010 il buon Josh è stato ospite fisso. Un albo tutto voce e chitarra, con qualche inserimento di archi qua e là e poco, forse niente altro. Una noia mortale per qualcuno, una confessione profondissima per qualcun altro, con una sola certezza: la sincerità delle interpretazioni che pare davvero inequivocabile.
77. Low – Double Negative (2018). Quel che è certo è che è cambiato l’approccio. E se dietro ci sono le tecniche di registrazione, davanti c’è un intero album di concetto, che non è necessariamente un concept. Nel Sottosopra del doppio negativo fa freddo, molto freddo. Il concetto è quindi congelare, per generare crepe e in qualche modo creare un disturbo in chi ascolta. Un disco stupendo perché fatto a pezzi e rimontato su una pellicola cinematografica per la quale Netflix farebbe follie. Un cubismo analitico dello slow core da cui provengono e di cui sono i padroni indiscussi.
76. Japandroids – Celebration Rock (2012). Celebration Rock riaccende l’hi-fi durante e dopo la sbornia da iPod e da piattaforma streaming, risveglia lo spirito di chi da tempo aspettava qualcosa di simile per ricominciare a scuotersi sparando musica ad alto volume dal proprio impianto stereo, magari al ritmo di refrain innodici come quelli di queste canzoni del duo canadese. Roba sana, organica, sostanziosa, come il rock deve essere, a prescindere dalle mille sfaccettature che ha mostrato nei decenni.
75. Visible Cloaks – Reassemblage (2017). Reassemblage ha la capacità di evocare immagini così vivide da sembrare reali, trasportando l’ascoltatore in un viaggio attraverso le meraviglie del Sol Levante. È uno dei dischi ambient più particolari ed interessanti degli ultimi anni, perché la fascinazione per la new age nipponica non si traduce in una musica fastidiosamente stereotipata, rappresentando invece una delle tante fonti sonore dalle quali attinge questo progetto. I Visible Cloaks hanno la capacità di avvicinare due diversi modi di intendere la musica d’ambiente, quello orientale e quello occidentale, e le varie occasioni che li hanno visti negli anni collaborare con artisti chiave del panorama giapponese dimostrano la serietà delle loro intenzioni. I viaggi sensoriali di Reassemblage sono lì a dimostrarci, una volta di più, che nella musica le differenze culturali e la distanza sono estremamente facili da superare.
74. Daughters – You Won’t Get What You Want (2018). La morale è che ci vuole sempre una buona dose di coraggio per fare dischi così. E se i fan pian piano si attorcigliano di nuovo intorno ai Daughters non è per nostalgia. Oggi anche il pubblico del rock di settore è esigente. Se fai bene, te lo riconoscono. Se hai imparato la lezione, ti ripescano. E taluni di loro sostengono senza misure: disco heavy rock dell’anno 2018.
73. Chelsea Wolfe – Pain Is Beauty (2013). Ancora una volta la natura è forte protagonista delle canzoni della musicista californiana, splendore ma anche terrore e devastazione nelle sue espressioni di forza incontrollabili; natura della quale fa parte anche l’animale essere umano con le sue pulsioni regolate da logiche talvolta inaccessibili. Molto prolifica nel decennio di cui trattiamo in questa chart, Chelsea ha ormai una discografia che può tramutarsi in un dark cult per molti che la scopriranno negli anni a venire.
72. Kali Malone – The Sacrificial Code (2019). Ripetitivo, incomprensibilmente statico, monotono. Una palla colossale, apparentemente. Ci sono voluti venti giorni di break e la prova di ascolto in guida notturna per cadere ipnotizzati dai micromovimenti della Malone sulle tastiere e i pedali del pipe organ. Arrivando al suo minimo comune denominatore, Kali produce un drone solo apparentemente privo di colori e sfumature, che si risolve invece in un’esperienza auditiva che ti porta a riflettere nel profondo, laddove non riesci più ad arrivare facilmente, pure con la musica elettronica o post-qualche cosa. Ascoltare per intero almeno uno dei tre CD trasforma l’azione in una terapia cui ti sottometti volontariamente, come quando accendi un inalatore termale deputato a liberarti le vie respiratorie, e ti stacchi in qualche modo dalla realtà circostante. Un codice sacrificale, per l’appunto, che devi eventualmente compiere in solitudine, andando oltre i ricordi della chiesa parrocchiale dove magari era il sacrestano a suonare l’organo, per ricavarne nuovo benessere.
71. Tyler, The Creator – Flower Boy (2017). Che Tyler, the Creator avesse talento da vendere era cosa ben nota fin dagli esordi, con il grezzo ed intossicante Goblin. Abbandonata quella vena un po’ edgy dei primi lavori, ma senza perdere quella verve ironica che lo contraddistingue da sempre, Flower Boy può essere considerato il disco della maturazione e della consacrazione di un talento a 360 gradi. Completamente autoprodotto, guest star importanti, una ritrovata vena intimistica e qualche banger sempre gradita. Insomma, finalmente un disco di classe ed inequivocabilmente bello.
70. The Horrors – Skying (2011). Faris Badwan ha vinto. Skying è l’album di un uomo vittorioso che pure non dimentica cosa ha passato, e che quindi non delude chi è rimasto indietro e deve ancora saltare l’ostacolo. Anzi, lo stimola a guardare oltre, verso le infinite possibilità che la vita può ancora offrire. L’umore sofferto, scontroso e distorto di Primary Colours si è trasformato in calibrato, status-consapevole, etereo: gli Horrors hanno fatto l’unico disco convincente possibile, se ci si pensa e se si è ormai coinvolti nella storia.
69. The Roots – How I Got Over (2010). Il pericolo è dietro l’angolo: quante volte abbiamo ascoltato concept album tediosi e forzati, soprattutto in ambito progressive rock, artefatti barocchi costretti su di una linea narrativa autoimposta? Fortunatamente, qui tutto ciò non avviene. Qui ci sono delle Canzoni incredibili, assolutamente spontanee e appassionate, tra le più belle uscite nel 2010. “Radio Daze” è un gioiello che va a ripescare certo hip hop degli anni ’90 a cui piaceva molto il jazz, “Walk Alone” è perfettamente bilanciata tra l’asciuttezza dei testi e delle musiche, in “Right On” si fanno addirittura aiutare dalla musa Joanna Newsom e il ritornello è esattamente il capolavoro che si potrebbe ipotizzare dall’incontro tra l’ormai consolidata stella del folk americano e la più importante, geniale e colta band, in ambito black music.
68. George Fitzgerald – Fading Love (2015). Fitz costruisce brani corti dal nucleo melodico molto forte, spesso con un arricchimento vocale determinante nella creazione di una musica ormai ben lontana dai primi esperimenti dubstep. “Call It Love”, con il suo giro di basso riuscitissimo (10/10) e il circolare “And if you want to call it love, you can call it love – and if you say it’s not enough, then it’s not enough”, è il perfetto esempio di come un brano DEVE suonare oggi, così intriso di richiami ad una musica elettronica allo stesso tempo berlinese e londinese da riuscire a esprimere una sorta di sfumatura rock non tanto nella struttura quanto nello spirito.
67. Black Midi – Schlagenheim (2019). Partiture isteriche eseguite con classe, una voce tarantolata e in generale un gran gusto (anche nella copertina, pare il parto di una rete neurale addestrata sui quadri di Bosch mischiati alle pellicole di Tsukamoto) sono gli ingredienti di questa già matura prima produzione che mette in chiaro subito come i Black Midi abbiano già capito chi sono e cosa vogliono fare. Il loro aspetto un po’ 80s e un po’ nerd, oltre a una musica che va a pescare tra no wave, math rock, space funk, gli Slint e il post punk, evoca un’idea di splendido pasticcio atemporale. Il fermento generatosi intorno al loro nome, l’hype nei circuiti indie, le prime recensioni avevano ragione: i BM sono veramente fighi.
66. Panda Bear – Meets the Grim Reaper (2015). Quando si innalza la sua voce da profeta new normal, cominci a riconoscere te stesso. Magari non ti sconvolge come in Person Pitch, non ci vai in fissa come quando interviene negli Animal Collective, e ti indispettisce per qualche suono troppo metallico – giusto interrompere da qui la collaborazione con Sonic Boom – ma alla fine ammetti che anche stavolta ti calza addosso perfettamente. Non ci sono gli Animal Collective nei migliori del decennio, ci resta invece Noah Lennox.
65. True Widow – As High as the Highest Heavens and From the Center to the Circumference of the Earth (2011). Un trio da non perdere per gli appassionati (ma non solo) di un modo di fare rock che da molto tempo a questa parte non era stato in grado di proporre novità interessanti. Immaginatevi le melodie più lente e delicate dei Low che si fondono con Codeine e Galaxie 500. Appesantite il tutto con chitarroni distorti che potrebbero richiamare alla vostra mente atmosfere ed echi sludge e il gioco è fatto. Altra chicca da non lasciarsi sfuggire.
64. OM – Advaitic Songs (2012). Se prima era solo un miraggio, ora si concretizza un affascinante crossover fra il doom delle origini e il sapore arabeggiante di composizioni in cui i chitarroni stoner si battezzano sulle rive del Giordano. Scorrendo questa chart ormai notato che non ci sono molti dischi heavy rock tra i cento selezionati. Ebbene, questo LP degli OM di Al Cisneros e Emil Amos è uno dei pochi imprescindibili del decennio per chi non è mai sazio di questa roba.
63. Fleet Foxes – Crack-Up (2018). Rinunciando al filtro seppia-vintage che ha aggiunto contrasto agli arrangiamenti degli esordi, Crack-Up rilancia i ragazzi di Seattle quali grandi performer di canzoni folk dal sapore avventuroso e poetico, se non addirittura progressivo per alcuni dei suoi tratti. Più che della maturità o della ricerca intorno al tema, questo sembra solo il miglior disco che potranno mai fare i Fleet Foxes.
62. King Krule – The Ooz (2017). Continua a raccogliere consensi il talento di Archy Marshall, ormai arrivato al terzo album, il secondo a nome d’arte King Krule. Il folk che era diventato post punk rallentato, è divenuto un atipico trip hop in cui analogico e digitale accompagnano la poetica metropolitana e post club dell’artista londinese. Non è un ascolto facile, ma certo stimolante quello di The Ooz.
61. Yves Tumor – Safe in the Hands of Love (2018). Ballate electro-pop, scheletri R&B, declamazioni noise: il nuovo disco di Yves Tumor, tanto alieno quanto umano, è un turbinio di influenze e direzioni così caotico da far risultare difficile tracciarne un quadro generale. Incostante, sporco, a tratti naïf eppure ipnotizzante; questo è il classico long playing che risponde alla definizione di diamante grezzo. Se ne è parlato poco, ma alla fine non ce ne siamo dimenticati.
60. St. Vincent – Strange Mercy (2011). Bella e stramba Annie Clark, così tremendamente originale nel proporsi ogni volta con nuove idee musicali e curiosi setting per i suoi personaggi così bowieani e cinematografici. Oltre alla bontà delle basi di partenza, e a una perizia tecnica nel maneggiare lo strumento chitarra, stavolta ci sono anche le canzoni, alcune tra le migliori che il rock – non solo al femminile – ha conosciuto in questo nuovo millennio.
59. Joanna Newsom – Divers (2015). Altre undici canzoni ben radicate nella realtà contemporanea (e a ricordarcelo ci pensano i tanti riferimenti storici e letterari presenti nei testi) e al contempo completamente fuori dal tempo e trascendentali, sia nelle intenzioni che nell’esecuzione. Formalmente, l’album della maturità per l’arpista di Nevada City, dopo la sbornia del triplo mastodonte Have One on Me. Ovunque vagherai, portaci con te Joanna.
58. Radiohead – A Moon Shaped Pool (2016). Se c’è una cosa per la quale dobbiamo ringraziare i Radiohead è l’averci restituito nei giorni dell’uscita di A Moon Shaped Pool la voglia di vivere la pubblicazione di un disco come si faceva una volta, fino a 10 anni prima. Questo è un album che appare troppo seduto, e a cui mancano spigoli elettronici, un po’ di ruvidità chitarristica e qualche momento uptempo in più. Rimane tuttavia bellissimo, pur non mostrando tutto lo spettro sonoro che puoi volere dai Radiohead. Nonostante questo, la classe è talmente tanta che non puoi non inserirli in classifica. E a conti fatti, continua a girare bene anche dopo alcuni anni dalla sua uscita.
57. Sons of Kemet – Your Queen Is a Reptile (2018). Nove donne, nove regine della cultura afroamericana, nove icone sottovalutate dalla storia. A queste figure i Sons of Kemet, guidati dall’irriducibile Shabaka Hutchings, dedicano altrettanti pezzi dove il jazz non è altro che un punto di partenza verso una musica senza confini. In queste tracce compaiono ritmi dub, afrobeat, addirittura reggae, che regalano di volta in volta una fotografia diversa del sound incendiario di una band che sembra capace di padroneggiare qualsiasi linguaggio. Hutchings, con questo ed altri progetti (vedi The Comet Is Coming, che trovate più avanti in classifica) sta dimostrando che il jazz ha ancora una grandissima capacità di mescolarsi a qualsiasi cosa.
56. Amnesia Scanner – Another Life (2018). Gli Amnesia Scanner sono quanto di meglio possa offrire la club music in questi anni. Destrutturati per definizione eppure ballabilissimi, rituali e misteriosi ma perversamente orecchiabili. Siamo troppo fan delle proposte della PAN? Forse sì, ma ascoltando musica elettronica in maniera cosciente, da un paio di anni a questa parte, è praticamente impossibile non esserlo. Vedremo se alla fine del 2019 la musica sarà cambiata.
55. Deftones – Koi no Yokan (2012). Una dedica appassionata a tutti coloro che hanno continuato a dare credito alla band quando questa sembrava ormai destinata al fragoroso declino. Ogni parola di Chino, tornato a livelli d’ispirazione massimali, esprime pathos commovente che non può non rimandare ai tragici trascorsi della band di Sacramento. In realtà, almeno in termini di songwriting, forse è questo il loro capolavoro, non più White Pony.
54. Anna Calvi – Anna Calvi (2011). L’esordio omonimo della Calvi evoca fumosi locali semibui, di quelli tra realtà e cinematografo, nella più classica delle atmosfere noir, sorretta da una produzione live e da una formazione essenziale di tre elementi, con la voce e l’abilità alla chitarra della bella Anna ad aggredirti e a sedurti. Un po’ Jeff Buckley, un po’ Nick Cave, la Calvi è la più viscerale delle nuove paladine del rock al femminile.
53. Run The Jewels – Run The Jewels 2 (2014). Nel 2013 esce il primo LP firmato Run The Jewels: una bomba, e questo secondo capitolo non è semplicemente il proseguimento di quel percorso, la sua evoluzione. La coppia si è fatta ancora più affiatata, i cambi al microfono si susseguono con una fluidità senza precedenti, l’uno getta benzina sul fuoco dell’altro, con la struttura convenzionale della canzone che ne esce frantumata. I ritornelli, sempre più azzeccati e taglienti, fanno a spallate ed escono dalla trama con prepotenza, senza compromettere la naturale evoluzione dei pezzi. Il tutto suona molto più organico anche sullo sfondo, e ciò è incredibile vista la natura delle basi: faticoso trovare un singolo elemento che non sia distorto o storpiato all’esasperazione. Ogni possibile forzatura intravista nel primo capitolo qui è limata o addirittura trasformata in punto di forza, in uno stupendo sodalizio di dissonanze.
52. Mount Eerie – A Crow Looked at Me (2017). Quando perdi qualcuno vicino a te, non è detto che tu voglia elaborare il dolore e condividerlo con il resto del mondo, ma se ti capita di essere un poeta o un musicista, può diventare inevitabile farlo, anche se non vuoi cantare un elogio funebre o farne arte a tutti i costi. Diventa un bisogno essenziale, uno sfogo che una chitarra classica può ascoltare e accompagnare. Questo è il disco di Elverum. Potrà stancare, perché è musica che per quanto ti può inizialmente ispirare compassione e far riflettere profondamente, potresti non voler più ascoltare. Sai cosa c’è dentro, ed è la morte vera, quindi è legittimo che tu la voglia scansare di torno. Ma questo è sembrato da subito un capolavoro istantaneo.
51. The National – High Violet (2010). L’album della consolidata maturità di una delle maggiori realtà rock a cavallo tra i primi due decenni del nuovo millennio. Sembrano tutti (troppo) simili fra loro i dischi dei National fino a questo punto, eppure solo andando a fondo ci si rende conto di come ogni opera guadagni corpo grazie al chirurgico lavoro sugli arrangiamento, in questo di archi, fiati, e cori, impeccabili nell’enfatizzare i momenti di maggior pathos. In caso di best of, allegate direttamente questa tracklist al resto della selezione.
50. Huerco S. – For Those of You Who Have Never (And Also Those Who Have) (2016). Da notare come due delle pubblicazioni ambient più interessanti dell’anno (questa e Animal Disk di Jorge Velez) siano nate in seno alla scena house/techno contemporanea (L.I.E.S. e Proibito). A livello compositivo For Those of You… ricorda i loop ritmati di Lorenzo Senni; i suoni invece sono totalmente estranei alle atmosfere ipernitide della pointillistic trance. Strettamente correlato alle tematiche bucoliche del disco di Velez, si differenzia per i suoni organici e per le ipnotiche melodie rituali. Nel 2016, col predominio dell’estetica HD, è una scelta stilistica coraggiosa.
49. Algiers – The Underside of Power (2017). I suoni del combo di Atlanta sono davvero ben calibrati per un originalissimo ibrido industrial soul – o electro blues se preferite – in cui la voce motown classic di Franklin James Fisher e i sintetizzatori un po’ Depeche Mode anni Ottanta, un po’ Tv on the Radio (per capirci, ma parliamo di tutt’altra roba) fanno la parte dei protagonisti con una carica punk straripante. E quando c’è anche la chitarra a dire la sua, come in “Animals”, tornano alla mente le selvagge serate rock infrasettimanali nei club dei centri storici universitari altrimenti dedicati alla house e alla dance commerciale. Un disco questo degli Algiers che meriterebbe un approfondimento anche dal punto di vista delle liriche e del messaggio generale, visto che l’ampissimo spettro socio-musicale che sembra abbracciare il quartetto pare proprio un esperanto in grado di portarti da una parte all’altra della storia della musica rock. C’è il gusto della black music con i suoni e i rumori dei bianchi, e viceversa.
48. Eli Keszler – Stadium (2018). Le dodici tracce di Stadium nascono da percussioni acustiche che non sembrano registrate in uno studio professionale, bensì in uno spazio aperto, durante una performance live, seduto davanti al drumkit. E infatti a primo ascolto pare impossibile che Keszler stia effettivamente suonando dal vivo. Abbiamo invece creduto di trovarci ad ascoltare musica elettronica che incrociasse jungle e jazz in uno strano ibrido puntinista dal sound grezzo e naturale. Si tratta di un grande disco perché riesce ad essere musica dai toni sia caldi che freddi, sia fusion jazz mattutina che ambient noise notturna. Il tutto con un ingegno e una perizia tecnica che non pesano mai sulla piacevolezza d’ascolto.
47. Deafheaven – Sunbather (2013). Ovvero il metallo sensibile. Dopo un esordio sopra le righe, i californiani Deafheaven si confermano con un lavoro pienamente convincente, ponendosi ai vertici della scena post black americana (esiste?). Sunbather è uno spiraglio di sole in un cielo nuvoloso e carico di pioggia, e rappresenta la disperazione luminosa riflessa dalla gioia di chi ci circonda. Un disco eclettico e sognante, con momenti black più atmosferici che shoegaze. Non è stato il decennio del metal, ad ogni modo.
46. Vampire Weekend – Modern Vampires of the City (2013). Arrivati alla prova del fatidico terzo album, Ezra & co. si confermano punto di riferimento trasversale per il mainstream pop da classifica e quello indie-frivolo che solo chi è sempre attento alle novità riesce a domare. È passato qualche anno dall’esordio, eppure ancora non si è trovato di meglio su queste coordinate. E la trovata della vecchia Saab 900 che brucia sullo sfondo del ponte di Brooklyn dove la mettiamo?
45. FKA Twigs – Magdalene (2019). In Magdalene FKA Twigs non solo riesce a superare le aspettative, ma continua anche a elevarsi al di sopra delle sue influenze per promuovere il suo suono unico, grazie a una manciata di nuove canzoni semplicemente stupende. In qualche modo, Tahliah Barnett è riuscita a spingersi sempre più in una lega tutta sua, andando a creare un tag di genere valido solo per se stessa: non c’è nessuno nell’industria musicale che suoni anche solo vagamente come lei, e dubitiamo che chiunque presto lo farà.
44. The Caretaker – An Empty Bliss Beyond This World (2011). Provando a seguire i ricordi di una persona malata di alzheimer, e campionando i suoni spezzati di un vecchio vinile di ballroom jazz anni Trenta acquistato a un mercatino di Brooklyn, Leyland Kirby crea un album destinato a rivelarsi fondamentale per le sorti della moderna ambient music, e rilancia il progetto The Caretaker come uno dei più interessanti per gli appassionati del genere, in particolare anche per la serie Everywhere at the End of Time. In questo disco sembra di essere dentro un libro di Scott Fitzgerald.
43. James Blake – The Colour in Anything (2016). In controtendenza rispetto a un mondo che ha sempre più fretta e fame di musica usa e getta, James Blake se ne frega e continua a parlare finché ha ancora qualcosa da dire, confermando allo stesso tempo di essere uno dei migliori artisti del nostro tempo. Nella sua musica non c’è nulla che sappia di vecchio e il suo senso melodico gli permette di tirar fuori classici istantanei che superano già in partenza la prova del tempo.
42. Floating Points – Crush (2019). Il punto di partenza del nuovo LP è la scena UK Bass da cui Sam Shepherd è emerso ormai circa un decennio fa. Traccia dopo traccia Crush consolida i molti lati e la sensibilità dell’artista, organizzando lo sviluppo del suo marchio, ad oggi riconosciuto come DJ club, compositore, proprietario di etichetta e produttore. Sono dodici pezzi di complessa elettronica che coinvolge esempi perfetti di melodie di synth modulari. Un piacere da ascoltare con il giusto impianto audio.
41. D’Angelo and the Vanguard – Black Messiah (2014). Ci sono dei momenti nella storia di una scena musicale in cui qualcuno arriva (o torna) per rimettere in regola i conti, sistemare le carte e ridare un’identità smarrita. Dopo più di un decennio ecco D’Angelo a rispiegarci la black music, e il titolo di questo suo nuovo lavoro assieme a The Vanguard calza a pennello. Anzi, è profetico. Un cosmo di influenze traccia il cammino di questo LP trascinandosi dietro un’intera comunità, dando vita ad un mondo talmente vasto che risulta difficile da inquadrare nonostante la sua natura apertamente schierata. Il sex symbol di Voodoo si nasconde dietro ad un coro di voci uniche composto da esperienze e richiami; qualsiasi cosa gli sia successa in tutti questi anni siamo sicuri che gli abbia fatto bene, l’attesa è stata ampliamente ripagata. Difficile anche solo nominare una traccia a dispetto di un’altra come magari era possibile nella sua passata discografia, a questo giro ha forgiato per noi un mattone della soliditá del diamante, fondendo insieme passato e futuro.
40. Jon Hopkins – Immunity (2013). Milkshake techno pop con carota rock oriented. Che poi è come dire che Hopkins è riuscito a portare dentro i confini di un ascolto assolutamente rock le strutture e le forme ritmiche tipiche di una larga parte dell’elettronica leggermente oltre la barriera della sfera indie (anche se oggi, certi confini sono quantomeno incerti…), con il surplus di un mood di synth davvero pop, ed ecco la carota, ad attirare anche quella parte più ancorata a melodie maggiormente digeribili, commestibili.
39. Sumac – What One Becomes (2016). Chi ormai per qualsiasi motivo è disinteressato e non se la sente di tornare indietro agli anni in cui scopriva questa musica, potrà fare spallucce e tenere chiusa la parentesi metal nella sua vita. Ma la verità è che chiunque abbia ancora ricordi vivi di quegli anni in cui era intellettuale ascoltare la musica post metal giusta, non può davvero permettersi di far finta che questo album non sia uscito: What One Becomes deve assolutamente affiancare gli altri classici della specie nella vostra discoteca, perché è la cosa più bella capitata all’intero filone negli ultimi dieci anni.
38. Mitski – Be the Cowboy (2018). Con alle spalle il già intrigante Puberty 2 e con un seguito di affezionati che include anche giornalisti della critica che conta, la cantautrice statunitense – ma di origini giapponesi – Mitski Miyawaki torna con undici miniature di art pop magistrale, dove canta di profonda solitudine, d’amore e di tutto quello che c’è in mezzo. Poco spazio per indugi ed accessori, le melodie di Be The Cowboy sono schegge dalla trionfale malinconia che mirano dritte al cuore. Il pop d’autore di fine anni Dieci passa da qui.
37. PJ Harvey – Let England Shake (2011). Un disco socio-politico, isterico e forse anche un po’ pretenzioso nell’intento lirico, che da lei ti potevi aspettare, ma che di fatto non era ancora arrivato: questa è la prima volta che Polly presta la voce a tematiche sociali. Le nuove canzoni sono state scritte e soprattutto arrangiate in modo che spingano l’ascoltatore a cantarle, a unirsi al coro, come fossero degli inni popolari. Col senno di poi, si tratta di un pugno di canzoni che ha anticipato alcune delle motivazioni della Brexit.
36. Swans – The Seer (2012). La reunion degli Swans assume il senso di riassunto esaustivo di quello che ha sempre rappresentato la creatura poliforme di Michael Gira. Attraverso bellezza, estasi e atmosfere surreali, il picco massimo si raggiunge negli inverosimili 32 minuti della titletrack, vero pamphlet del caos e della sperimentazione. La classe non è acqua, ma apocalisse.
35. Anderson .Paak – Malibu (2016). Malibu è figlio di Marvin Gaye, degli A Tribe Called Quest, di D’Angelo. Ed è la capacità che Anderson ha di far tesoro dei propri ascolti e di dosare il proprio immenso talento, senza mai risultare banale, la chiave di questo LP. I passaggi dal rapping ipnotico (flow originalissimo) al cantato dolce e graffiante rappresentano la sintesi ideale dei due album nominati all’inizio di questa recensione. Produttori e featuring sono tutti di massimo rispetto (da 9th Wonder a Talib Kweli), testimoni del traguardo raggiunto da un uomo che fino a qualche anno fa “bout the year Drizzy and Cole dropped / before K.Dot had it locked / I was sleeping on the floor, newborn baby boy / Tryna get my money pot so wifey wouldn’t get deported.” È di una di quelle opere talmente ricche di sincerità e autobiografismo da non richiedere l’ausilio di Wikipedia, perché parla da sé: siate ascoltatori attenti e vi dirà tutto ciò che vorrete sapere.
34. Oneohtrix Point Never – R Plus Seven (2013). Il disco in cui diviene conclamato che Daniel Lopatin altri non è che l’Aphex Twin dei nostri anni, quello in cui esibisce il suo immenso patrimonio immaginifico, il genio visionario supportato da una varietà sterminata di suoni di qualità sconcertante, che spaziano dalle voci liriche a vibrazioni provenienti da altri pianeti fino all’impiego di pianoforte e sassofono. Non si può più parlare di musica elettronica senza conoscere questo artista.
33. Andy Stott – Luxury Problems (2012). La nuova operazione di Stott consiste in gran parte nella rielaborazione dei propri tratti stilistici usuali e ciò che sorprende maggiormente è la varietà di generi presenti in Luxury Problems, un disco difficilmente etichettabile, che non dà altro punto di riferimento se non quello di avere un sound estremamente personale, capace di fagocitare avidamente i generi in vista di un nuovo disegno sonoro stilisticamente inedito. Stott gioca con le compressioni e scava dei solchi profondissimi, pezzo per pezzo ricrea la sua ambientazione ideale e col passare dei minuti i brani si stratificano diventando sempre più ipnotici, oscuri.
32. Boards of Canada – Tomorrow’s Harvest (2013). Eternamente enigmatici e assolutamente non curanti di quello che regge le sorti della musica odierna, i Boards of Canada rimangono tra le poche realtà artistiche che ci tengono ancorati a quella sensazione romantica, e spesso dimenticata, di dover cercare risposte nella musica semplicemente ascoltandola ancora, e ancora. Il loro ritorno sulle scene è un piccolo evento per chi segue la musica elettronica, e rimane negli anni come uno dei lavori più coesi di IDM e ambient techno di questi anni.
31. Joanna Newsom – Have One on Me (2010). Che donna Joanna. Ti piazza un triplo folk che neanche uno studioso di QBLH è ancora riuscito a decifrare, a venirne a capo, a capire come sia possibile aver maturato tali visioni così astruse e poetiche, e in musica renderle una fiaba senza tempo. Roba che al confronto un testo dei Mastodon è una barzelletta. Rispetto assoluto per una dea che non dobbiamo temere di paragonare alle grandi artiste del passato: può darsi anche che a conti fatti Joanna sia anche superiore…
30. Arca – (S/T) (2017). Alla tesi, il ripiegamento in sé di Xen, l’antitesi, la reazione necessaria al mondo esterno, ossia Mutant, segue quindi la sintesi e la rinascita: l’omonimo è un’opera il cui unico chiaro intento è espellere con quanta più potenza e sincerità ogni genere di tormento, speranza e disillusione. Alejandra Ghersi, questo il suo nome, è uno dei personaggi più obliqui e di difficile inquadratura con cui un appassionato di musica pop ed electro può avere a che fare.
29. FKA Twigs – LP1 (2014). L’esordio su lunga durata di una promessa della musica inglese finalmente sbocciata con 10 canzoni R&B di una efficacia che va oltre i confini di genere. Nata in Inghilterra da padre giamaicano e madre per metà spagnola, che la cantante sia stravagante si nota subito ma non siamo davanti ad un’artista che si limita ad essere originale. Fka Twigs riesce ad esternare se stessa senza snaturare la propria natura atipica pur utilizzando i mezzi del pop più puro, in pochi ci riescono garantendo un risultato così ben riuscito. Nonostante la totale disinvoltura nel mettersi a nudo fin dalla copertina Tahliah Debrett Barnett riesce a mostrarsi solo per quello che vuole rivelare rimanendo oggetto misterioso alle orecchie dell’ascoltatore sempre più ipnotizzato dal sensuale canto di sirena, ma potete stare tranquilli, schiacciare play non vi metterà in pericolo, anzi, ascolto passionale ma estremamente catartico. Non evitate le avances: Fka Twigs è l’amante dei vostri sogni.
28. Fever Ray – Plunge (2017). Assistita nel suo studio di Stoccolma da un team tutto svedese, Karin crea uno dei migliori esempi di synth-guided pop moderno. Nonostante manchi di refrain canticchiabili a primo ascolto, Plunge riesce a essere subdolamente intrigante e ad eccellere a prescindere dalle qualità vocali di una fuoriclasse ormai seconda a nessuno nel suo campo. Si fatica, anzi, a trovare qualcuno che possa competere. OK, a parte The Knife…
27. Kanye West – My Beautiful Dark Twisted Fantasy (2010). Come per un re, i colori dell’oro e della porpora, gli stemmi alati, i gigantismi e quelle storie mitiche (un po’ melense e mal recitate, a dire il vero) fanno parte di un’iconografia splendente ma anche tragica. La baldoria e la gozzoviglia di un XXI century schizoid aristocrat sono la realtà in cui Kanye vive. In questo senso, l’album è ancora più personale e vero (quasi impossibile calarsi nei suoi panni) ma la realtà è trasformata dal prisma del suo ego, il cui dominio si estende fin dove i nostri poveri occhi possono vedere; oltre questi confini sunt leones. Mamase mamasa makussa, canta mentre il Paese va in pezzi e prende i fili dell’Africa e del re caduto Michael Jackson, che rimane una misura per tutto l’album, e li intreccia per ricavarne un tessuto musicale di cultura pop universale, afroamericana, hip hop ed elettronica. Kanye West si dimostra un artista vero, che non ha paura di deludere chi lo aveva seguito dopo la svolta di 808s & Heartbreak, gettandosi in un massimalismo hip hop veramente memorabile.
26. Sun Kil Moon – Benji (2014). La carriera di Mark Kozelek all’uscita di Benji incute rispetto e devozione ossessiva, soprattutto per quanto pubblicato negli anni Novanta coi suoi Red House Painters. Proseguendo sulla stessa scia, erano andati benino anche i primi Sun Kil Moon, ma solo con questo lavoro di folk rock funebre e poetico si è ravvivato il culto per un artista di caratura realmente superiore alla media di questi anni.
25. Kendrick Lamar – good Kid, m.A.A.d City (2012). Un autentico capolavoro rap: le produzioni elettroniche di gusto recente si sposano con il modo antico di fare hip hop, Lamar è un rapper eccezionale, qualsiasi personaggio stia recitando, e il senso dell’album, una volta ascoltato nella sua interezza, emerge potente. La coppia di tracce che dà il nome al disco, poi, è perfetta: la autocommiserazione dell’abitante di un’urbanità degradata diventa una grande suite progressive toccante e accattivante. Questo album racconta una storia, e la racconta in maniera allo stesso tempo fresca e classica. Un classico istantaneo dei nostri anni.
24. Grizzly Bear – Shields (2012). I suoni impeccabili e più ruvidi di una produzione magistrale permettono ancora una volta alla band di Brooklyn di sviluppare percorsi che hanno dell’incantevole, impreziositi da un’indole romantica d’altri tempi. I Grizzly Bear riescono a mantenere una qualità sorprendente e ai più inarrivabile. Al cospetto di album come Shields non si può che gioire e passare parola. Se può risultare azzardata la definizione di OK Computer del folk rock americano, è perlomeno ragionevole ammettere che in questo decennio il genere non ha prodotto di meglio.
23. Tim Hecker – Ravedeath 1912 (2011). Mentre ci lasciamo portare via dalla suite in tre parti “In the Fog”, in un inesorabile scorrere di nebbia, grigiore e paesaggi desolanti, diviene chiaro l’umore dell’album: siamo entrati in un mondo plumbeo, tetro, con note sfumate di pianoforte in lontananza, echi d’organo e strati melodici che compongono crescendo rumorosi. Come ogni altro lavoro ambient, è visionario e lascia molto spazio all’immaginazione. L’atmosfera creata da Hecker lo rende pesante e molto esigente in termini di attenzione, forse un po’ troppo per chi magari non ha intenzione di lasciarsi catturare da momenti di profonda riflessione. Meglio, almeno rimaniamo in pochi ad ascoltarlo…
22. Frank Ocean – Blonde (2016). Blonde non è Channel Orange. E viene spontaneo pensare che se Ocean avesse voluto avrebbe potuto tirare fuori dal cilindro una parte seconda in ben poco tempo. Ma quattro anni sono tanti, o comunque abbastanza da poter trasformare un ragazzo in un uomo. Comunque Dio solo sa quanto questo LP ci ha fatto star male ai primi ascolti: dopo averlo rimesso da capo per tre volte ci siamo presi una pausa di ventiquattro ore perché l’umore non reggeva. Mancano quasi completamente le percussioni, così come i beats e i giri di basso tipici dell’R&B; ciò che abbonda e che colpisce da subito è invece l’uso delle chitarre: prendete per esempio “Ivy”, che è solo voce e sei corde, e ditemi se un pezzo simile non vi ha sorpreso, messo lì, quasi in apertura, come a dirci di abbandonare subito tutte le fantasie che ci eravamo fatti su questo ritorno. I synth di “Nights” (che pezzo!) che avvolgono il falsetto magico di Christopher, l’organo di “Solo” e “Godspeed” che accompagnano una voce che già sapevamo essere bellissima, ma che non pensavamo potesse raggiungere questi livelli di espressività. Se poi siete sopravvissuti alla parte finale del disco con ”White Ferrari” e la già citate “Godspeed” e “Seigfried” messe in sequenza, fateci sapere, perché noi ancora non ci siamo ripresi.
21. Girls – Father, Son, Holy Ghost (2011). La sorprendente versatilità e padronanza del mezzo dell’accoppiata Owens-White dà vita a un lavoro camaleontico, clamoroso e commovente, in cui aggiungono alla tavolozza toni e soluzioni inedite tali da fare di questo Record 3 una piccola enciclopedia di rock contemporaneo. Piano piano sottovoce, molto forte e pure un po’ ridicolo, madonna che disco questo dei Girls.
20. Beach House – Teen Dream (2010). Viene fuori dalla ruota di Baltimora, in Maryland, la città di The Wire e degli Animal Collective, quello che in termini assoluti è il miglior disco dream pop dell’ultimo lustro, e forse anche di quello che lo precede. Solo Nocturne di Wild Nothing tiene botta, ma lo spirito minimal indie, così spoglio delle trame dark e gaze oggi spesso un po’ ridondanti nel genere, lo fa preferire a tutta una serie di sognatori fra cui indichiamo anche M83 e A Sunny Day in Glasgow. A giustificare una posizione così alta per un disco che non offre chissà quali novità, anche il resto della produzione del duo nel resto del decennio, tutta su livelli di assoluta eccellenza.
19. Ben Frost – Aurora (2014). Il concetto delle macchine intelligenti è stato ormai ampiamente digerito da decenni di musica elettronica, la prospettiva concreta della creazione della vita artificiale è invece ben più attuale, nonché apertamente più inquietante: ecco, Ben Frost ha generato una creatura sintetica vivente, e questo LP codifica il suo stile, già presentato molto bene in By the Throat e integrato col successivo The Centre Cannot Hold.
18. Vampire Weekend – Contra (2010). Uscito ad inizio gennaio del 2010, Contra è probabilmente destinato ad essere il primo disco in ordine cronologico a finire nella TOP 100 del decennio. Brani come “Holiday”, “Cousins” e “Horchata” sono quanto di meglio ti possa capitare di ascoltare in radio, nelle pubblicità e nei videogiochi, alla faccia di Coldplay e Back Street Chili Peppers. Integra la formula dell’esordio omonimo e di fatto lascia al successivo Modern Vampires solo il compito di canonizzarla.
17. Death Grips – The Money Store (2012). In Money Store i Death Grips sviluppano le intuizioni dei precedenti EP e mixtape, continuando quel discorso estremizzandone alcuni aspetti e arrotondandone altri; si fa più comprensibile il rappato di MC Ride – seppure sempre sopra le righe, ora belva, ora sacerdote, ora mc della classicità hip hop – mentre l’escursione noise è più interessante che mai e rende ancora più evidente l’influenza dell’elettronica (accurata e colta) tramite campioni tipici della musica da club, riferimenti a pop culture e vita urbana disintegrati, beat al rumor bianco. Tale degradazione del suono riesce comunque – ed è uno dei tratti principali del genio del duo di producer Zach Hill e Flatlander – ad essere magnetico, a imprimersi nell’ascoltatore, a farlo muovere. Money Store è già un classico.
16. St. Vincent – St. Vincent (2014). Annie smette di essere una semplice realtà di talento, seppur celebrato nei circuiti alternativi, e dimostra di aver raggiunto l’equilibrio di tutti gli elementi della sua proposta pubblicando il più classico degli album della maturità, quello formidabile che spalanca le porte delle serie maggiori e la porta sul trono di nuova diva indie: una condizione da mantenere, un regno appena nato da consolidare. La Clark è una delle regine del rock alternativo di tutto il decennio, questa è la sentenza.
15. The Comet Is Coming – Trust in the Lifeforce of the Deep Mystery (2019). Quella di Shabaka Hutchings e compagni è musica realmente totale, che va oltre la base jazz, inserendo nel calderone afro-beat, electro funk, psichedelia coloratissima, blues rock progressivo e addirittura qualche scoria di hip hop sperimentale. Ce n’è davvero per tutti i gusti, e pure con tutta questa scorpacciata di elementi ed espedienti tecnici, si prospetta ancora possibile un’ulteriore evoluzione della specie.
14. Destroyer – Kaputt (2011). È un’eleganza da club, con il sax spesso tra i protagonisti, quella che impregna Kaputt, un lavoro che si mantiene abilmente in equilibrio tra accessibilità e raffinatezza, appagante per l’orecchio (non solo per l’inimitabile cantato di Bejar) e delicato nell’avvolgere la mente. I curiosi video che accompagnano i pezzi portanti fanno il resto. Ascoltare adult pop non è reato, purché non ci si dimentichi da dove si proviene.
13. James Blake – Overgrown (2013). Se agli esordi lasciava, in molti, la sensazione che fosse tutto un po’ troppo confezionato, creato ad arte per raccogliere applausi facili anche dal mondo indie, stavolta James convince appieno anche chi era in cerca di qualcosa di melodicamente più sostanzioso. Meno fumo, più arrosto. Anche cotto e speziato come si deve, per altro.
12. Bon Iver – 22, A Million (2016). La ricerca di sé è una costante del progetto principale di Justin Vernon, ed è forse il nesso principale tra 22, A MILLION e i suoi lavori precedenti. Basti pensare alla genesi di quest’ultimo capitolo: dopo l’enorme successo, come spesso capita, arrivano la depressione, le ansie, gli attacchi di panico, il senso di impotenza di fronte alle aspettative. Justin Vernon ne parla apertamente, senza vittimismo o segni di autocommiserazione, si è preso il suo tempo e dopo cinque anni ci ha consegnato un LP che è sia il racconto di quei momenti che il risultato del loro superamento, perché dal punto di vista compositivo e meramente tecnico, è questo il capolavoro di/dei Bon Iver.
11. David Bowie – Blackstar (2016). The Next Day era stato un ritorno inaspettato e in grande stile nel pop, ma sappiamo tutti che David Bowie non è mai stato solo questo. Ha sempre avuto una grande passione per ciò che è artistico e criptico, e Blackstar è la naturale conseguenza della sua rinnovata urgenza espressiva. Più ricercato e meno fruibile, con quel sax che torna ad assumere colori più simili a quelli di Low, che codificavano uno stato d’animo allo stesso tempo intimo e universale, che a quelli di Young Americans, ingenui e devoti alle opere altrui. Più Outside e meno Let’s Dance e con tutti i rischi del caso, anche se nel momento in cui dai alle radio una cosa come “Sue (Or in a Season of Crime)” significa che davvero puoi fare quello che ti pare. Nel 2016 non può certo sfiorarlo la preoccupazione di non essere all’altezza di se stesso, perché è già accaduto più e più volte, ed è sempre stato in grado di reinventarsi. David non è l’umano che nei ‘70 si spacciava per un alieno, David è l’alieno se ha realizzato questo disco impossibile a 70 anni.
10. Swans – To Be Kind (2014). Se The Seer è stato il traguardo di un percorso iniziato nei profondi anni ’80, qui siamo al di là della linea di arrivo. To Be Kind è ciò che c’è dopo il compimento dell’Opera, quando l’obiettivo è stato raggiunto e si resta senza coordinate, con una bussola che non indica più alcuna direzione. I brani si estendono ulteriormente, e un po’ come accade ai concerti, si crea una sorta di effetto Ummagumma 2.0, ovvero una psichedelia fuori dagli schemi della canzone, lenta nell’avanzare verso una qualsiasi soluzione, comunque già oltre il culmine della poetica di Michael Gira.
9. Oneohtrix Point Never – Replica (2011). Con il suo massiccio e quasi totale utilizzo di attrezzature vintage, passando dai vecchi sintetizzatori Akai e Roland alle leggendarie drum machine Korg, tra melodie reminiscenti dei Boards of Canada più introspettivi o i texture cari a istituzioni come Cluster e Brian Eno, Replica è realmente in grado di portarti in un altro pianeta, magari più vicino alla Terra rispetto alle escursioni di Betrayed in the Octagon o di Returnal, ma pur sempre alieno. È un disco fondamentale perché da questo momento in poi, Daniel Lopatin diviene l’asse a cui si appoggiano le sorti della musica elettronica contemporanea.
8. The Knife – Shaking the Habitual (2013). Un album musicale quanto Twin Peaks è una serie TV, ovvero un cortocircuito tra forme, filosofie (quella luddista in particolare) e linguaggi che abbaglia e affascina, genera amore e nausea, ma non può lasciare indifferenti. Anche solo a ripensarci, fa davvero paura quel che hanno combinato con questo doppio LP. Com’è stato concepito un simile incubo? Rispetto massimo per questo mastodonte di color fucsia, e per la clamorosa evoluzione di questi amabili fratellini svedesi.
7. Frank Ocean – Channel Orange (2012). La musica cambia. Si ingentilisce, quasi affrancato dal mondo indie-pendente, si lascia andare completamente alle pulsioni della sua anima nera, del soul e alle sue circonvoluzioni classiche, i suoi nodi jazz, i momenti pop che hanno fatto grande Michael Jackson. Certo, una “Thinking ‘Bout You” o una “Pyramids” sono totalmente contemporanee, e “Crack Rock” è un nu soul da manuale. Rimane tuttavia il senso di una artista capace, finalmente riappropriatosi della musica che ama, colta nella sua intertestualità e diretta a se stessa più che alla classifica. Pur con le sue evidenti modernità, Channel Orange è un disco compiutamente soul, bello come pochi.
6. Sufjan Stevens – Carrie & Lowell (2015). Lo spartito autobiografico trascina inevitabilmente con sé una serie di tematiche con le quali anche l’ascoltatore può e deve fare i conti. Ed è qui che Sufjan sa di vincere la partita: la voce e insieme la metrica mettono insieme luoghi e vicende di una forza espressiva che non ha eguali nella storia più recente del cantautorato americano. Sarà arduo anche per Sufjan raggiungere nuovamente simili vertici di espressività, soprattutto senza doversi ripetere.
5. Tame Impala – Currents (2015). D’accordo nel ritrovare nella sua musica la psichedelia giocosa dei Flaming Lips, il sapore vintage del Sgt. Pepper o il flusso arcade del filone glo-fi, ma stavolta Kevin Parker l’ha fatta davvero grossa, mescolando il tutto con la disco di fine anni Settanta, in un’ibridazione pop che porta a un risultato mai ascoltato prima. Da progetto al massimo intrigante per via delle giuste referenze, quello dei Tame Impala diventa punto di riferimento certo del suo decennio, e per quanto non classicheggiante, forse è Currents il miglior album rock degli anni Dieci.
4. Kendrick Lamar – To Pimp a Butterfly (2015). Lamar si fa singolo e collettività simultaneamente con disinvoltura e coraggio, riuscendo in un’impresa di critica senza precedenti nel genere. Il tutto rende impossibile analizzare la grande matassa di temi ed influenze singolarmente (è necessario mettersi a parlare del geniale dialogo finale con 2pac?). To Pimp a Butterfly delinea un minuzioso ritratto di Kendrick attingendo ai diversi periodi della sua crescita emotiva, mettendo in mostra un protagonista incredibilmente avvincente per la sua mancanza di stereotipi. Una perla dopo l’altra, combinate ad arte. Non state a cercare le solite hit: qua dentro non ci sono. In compenso troverete un percorso tortuoso fatto mano nella mano con un amico strano ma incredibilmente interessante, passando attraverso jazz, funk, soul e chi più ne ha più ne metta.
3. Andy Stott – Faith in Strangers (2014). Per quel suo essere così difficile da afferrare, e chiaro, grazie all’esot(er)ismo generale che aleggia sull’opera sin dalla copertina, il fascino misterioso che emana Faith in Strangers lascia la sensazione di un disco epocale per il dub metropolitano, per chi ricerca sfumature emozionali tra le diverse tonalità dei bassi, e in sostanza il possibile successore di Untrue di Burial. Un altro capolavoro dopo il già splendido Luxury Problems.
2. Bon Iver – Bon Iver, Bon Iver (2011). Un’opera camaleontica e invernale che tuttavia non comunica spaesamento quanto piuttosto la gioia di lasciarsi pervadere e trascinare dai più innumerevoli stimoli. Pezzi da donare ai posteri oltre che ai fan, musica ancora una volta sincera e, non temiate, in grado di insinuarsi nei recessi del vostro intimo. Un fenomeno di massa indie nato dal nulla. O meglio, da una chitarra arpeggiata sulla veranda di una casa di legno, e da un cuore spezzato. Con tre dischi eccezionali a nome Bon Iver, più il progetto Volcano Choir, Justin Vernon è senza dubbio alcuno l’artista pop rock più importante degli anni Dieci.
1. Flying Lotus – Cosmogramma (2010). Con Cosmogramma, Flying Lotus raggiunge il nirvana. L’empireo in movimenti digitali cui solo pochissimi hanno saputo avvicinarsi in tre decenni di musica elettronica. Steven Ellison, questo il suo nome di nascita, è personaggio capace di fondere, permeare, distruggere e ricostruire categorie e generi differenti, per ottenere qualcosa di soltanto sfiorato in passato. Un flusso sonoro che può fregiarsi del grande merito di aver fatto convivere – una volta e per sempre – la musica d’avanguardia e la normale elettronica d’ascolto. Sforzandoci di smorzare i toni entusiastici che inevitabilmente accompagnano uscite come questa, Cosmogramma è quanto ci si aspettava dopo il già clamoroso Los Angeles, e raggiunge a questo punto, i gradi più alti delle gerarchie di casa Warp. Lassù nell’olimpo, di fianco agli Autechre e ad Aphex Twin, FlyLo è l’espressione compiuta di una coscienza artistico/musicale definita e straordinaria. Spargete la voce, Cosmogramma è il nostro disco del decennio.
Hanno partecipato alla stesura e alla compilazione di questa classifica, in ordine casuale: Giuseppe Rotundo, Daniele Sassi, Luca Momblano, Giacomo Colombo, Denis Bosonetto, Paolo Busetto, Pierluigi Ruffolo, Ferdinando De Vita, Eugenio Giannetta.
In coda, alcuni degli artisti che ci hanno lasciato nel corso dello scorso decennio…