25 Agosto 2016
Guardare al nome Crystal Castles e processare l’idea che Alice Glass non ne faccia più parte risulta poco digeribile, del resto già suona strano che in un duo venga meno un componente, figurarsi se l’artista in questione aveva legato così indissolubilmente la propria figura al brand. Perché lasciando un attimo da parte la musica, il nome della formazione ha senza dubbio impresso nella collettività, un immaginario preciso, grazie anche allo shock value delle copertine e dei video, graphic content per veicolare messaggi anche delicati, sempre in bilico tra sacro, profano, dolcezza e distruttività, che la donna dallo sguardo svagato ed il trucco cybergoth ben esprimeva. I fan più preparati certo già sapevano che il grosso della produzione fosse merito del solo Ethan Kath, ed in questo senso la notizia che il producer avrebbe proseguito anche da solo non giungeva come novità. Morto un Papa se ne fa un altro, e a distanza di circa due anni dall’annuncio della dipartita, Edith Frances viene introdotta al pubblico. Alto tradimento? Per qualcuno forse, ma la verità è che al pubblico meno appassionato, il cambiamento di voce potrebbe anche essere passato inosservato, merito indubbiamente delle distorsioni vocali ma anche di un generale senso di déjà vu già riscontrabile nei primi singoli.
[Tweet “Amnesty (I), così Ethan Kath intitola il timido reboot dei Crystal Castles post Alice Glass”]
Il nome scelto per questa piccola operazione di damnatio memoriae è Amnesty (I), il cui titolo e la numerazione non possono che suggerire una certa voglia di reboot, eppure in fin dei conti molto diverso dal passato il risultato non è, ma andiano con ordine. Ascoltando il nuovo disco e ragionando sui credits dei brani, si evince chiaramente una cosa: Non esisterebbero i Crystal Castles senza Ethan Kath, ma il tutto non funzionerebbe altrettanto bene senza un contraltare all’altezza. Più nel dettaglio leggere quali brani portino la firma del solo Kath e quali quelli scritti in collaborazione con la Frances, mostra come sia necessario per l’italo canadese l’incontro (o lo scontro) con un’altra voce, e come questa nuova già sia riuscita nel donare un qualcosa in più ad alcuni dei brani più freschi del disco.
Primo fra i tre pezzi scritti in collaborazione, “Fleece” suona immediatamente familiare, vocalmente molto evocativo dei vecchi lavori ma dai ritmi meno vicini a quelli synthpop che caratterizzavano II e III, in favore di un mood più cattivo offerto dal motivo ultra-distorto del sintetizzatore, che si fa sentire subito prepotentemente.
Parte in quarta “Enth”, uno dei più più pregiati di Amnesty, un brano dall’energia molto forte, il cui progressivo build-up viene pavimentato dal martellante beat e dai suoni techno/industrial che insieme alle grida tese della cantante vi faranno venire voglia di alzare i volumi sopra i livelli consigliati. Peccato per il finale non all’altezza.
Nonostante la struttura molto lineare, “Concrete” funziona bene, prendendo il classico suono da videogame anni ottanta (che poi era già molto presente nell’originale I ), e spogliandolo dell’innocenza intrinseca che da sempre porta alla mente, grazie al cozzare delle lancinanti urla e dei suoni soffocanti e rarefatti del ritornello.
Per quanto l’introduzione di ritmiche techno e di qualche spunto melodico differente siano una piccola ma gradita variazione sul tema, viene a galla manifestamente come il disco non suoni poi diverso dal resto della produzione passata, e soprattutto come il cambio di formazione abbia inciso solo in piccola parte sulla direzione del progetto. La nuova arrivata non è neanche così criticabile, oltre ai già citati elementi che potremmo ipotizzare provenire proprio dalle sue mani, andrebbe anche segnalata la buona esecuzione in “Char”, il cui fragile cantato ben cattura quella malinconia di cui scrivevamo sopra, certo però la strada per fare breccia e far dimenticare la vecchia cantante (per lo meno a livello di immagine) è ancora lunga, e ad ora le somiglianze sono ancora troppe. Questo quarto disco dei Crystal Castles mette dunque in luce i limiti di Ethan Kath, che ostinato continua a ripetersi in loop, così come continuano a reiterarsi molti espedienti dei brani presenti e passati. L’eccessiva somiglianza tra “Sadist” e “Chlorofom”, il già sentito di “Frail” che se ci avessero detto provenire da II con la Glass non avremmo avuto niente da obiettare, o ancora “Ornament” che insegue un’idea di canzone riproposta troppe volte nella discografia e che pare fare pochi passi in avanti rispetto alla classica Untrust Us degli esordi (con le solite due linee di lyrics campionate e frammentate per tutta la durata del brano), sono cose che abbassano inesorabilmente il giudizio finale.
Chiude “Their Kindness Is Charade”, già pubblicato come Deicide, e che ritorna in una veste rinnovata grazie al bass drop alterato, meno da dancefloor e dal sound quasi solenne, con tanto di simil organo da chiesa in sottofondo (anche qui non può che venire in mente la chiusura del precedente III, anche solo come idea). Promosso senza infamia e senza lode, Amnesty (I) con le sue vicissitudini biografiche poteva rappresentare l’occasione per una netta rivalutazione o rivisitazione, ma si risolve in una cauta riesecuzione, anche troppo, di espressioni musicali già esplorate, qualitativamente vicino al terzo lp, ma nettamente meno valido del secondo, che era meritevole invece per originalità e coesione; l’eventuale quinto (o secondo se preferite) dovrà trovare una nuova via per poter stuzzicare la nostra curiosità (ma anche per i fan, se ancora ne avranno voglia), un buon inizio sarebbe lasciare più spazi creativi alla collega; per ora lasciamo passare, del resto quei tre o quattro pezzi che grosso modo salvano la baracca continuano ad essere una buona scelta per accompagnare i vostri atti di cyberterrorismo e le vostre serate a base di sostanze intossicanti.