23 Luglio 2018
Ricordo bene la prima volta che ho ascoltato 7, il nuovo disco dei Beach House.
Come è ovvio, loro mi piacciono da matti, li ho visti live e, anche se il disco di b-side non mi è piaciuto per niente, ho amato anche i due album del 2015. Della loro musica mi piace tutto, anche se apparentemente non sembrano eccellere in niente. Il fascino non sta di certo nella loro abilità strumentale, o nella voce della loro cantante, o nelle performance live scoppiettanti. Anzi. Live sono praticamente statici, ma comunque incredibilmente magnetici. E se è vero che i loro dischi non sono mai movimentati, è altrettanto vero che non sono mai noiosi.
Quindi è naturale che all’avvicinarsi del giorno x, dell’uscita del disco nuovo, ho cominciato a ripassare, ho ascoltato i dischi che mi piacevano di più, pronto sia alla buona notizia di un altro grande album sia a quella brutta di un altro colpo a salve come B-Sides and Rarities. E al primo ascolto sono rimasto spiazzato.
Abbiamo tutti ben presente il suono dei Beach House, è qualcosa che una volta assimilato non puoi non riconoscere, sia quando li passano in quel locale dove sai che hanno birre buone e ottime playlist, sia quando li campiona Kendrick Lamar. È chiaramente dream pop, da manuale, ma non ha quel legame a doppio filo con lo shoegaze dei grandi nomi di fine anni ’80 inizio ’90. O meglio, ce l’ha – non scherziamo – ma le influenze principali sono spesso da ricercare più nell’indie rock degli anni in cui hanno iniziato che, ad esempio, nei My Bloody Valentine. Ed è qui che 7 ti sorprende. Come dicevo in apertura, il primo ascolto me lo ricordo molto bene. Perché mi lasciò molto spiazzato. Quand’è che i Beach House sono diventati dark? Certo, la malinconia è sempre stato un elemento importantissimo della loro musica, ci mancherebbe, ma l’oscurità no. Questo è stato il primo pensiero durante Dark Spring, che non solo ha “dark” nel titolo, ma parla anche di stelle morenti, una roba che più obscvra di così si muore. Poi arriva Pay No Mind e bam, eccoci in Souvlaki. Tutto ricorda gli Slowdive, in primis la chitarra in primo piano con quei suoni lì. Poi arriva Lemon Glow che, se non fosse per le linee vocali, sembrerebbe una normalissima canzone del gruppo di Baltimora. Invece il canto di Victoria oscilla, ci porta velocemente in alto e poi in picchiata, rendendo tutto quanto incerto, quasi esitante, ma senza mai esserlo per davvero. Perché se uno è bravo, si capisce quando sta cercando di trasmetterti una sensazione ben precisa e quando te la dà involontariamente. E loro, che sono dei fuoriclasse, lo stanno facendo apposta e tu lo senti subito, dal primo hook all’ultima nota. De L’Inconnue potrei anche dire di quanto ricordi ancora gli Slowdive ma stavolta di Just for a Day, ma poi arriva la Victoria Legrand a cantare in francese e non si può fare altro che stare lì imbambolato a chiedersi che cosa abbiamo fatto di così bello per meritarci tanta bellezza. Di sicuro la doppietta L’Inconnue-Drunk in LA è la migliore del disco. La seconda infatti è per me la canzone migliore di tutto 7, una canzone semplicemente splendida, con quella tastiera che, quasi come se fosse un drone, ammanta tutto di inquietudine. Dive conferma come i due siano masters of their own craft, e per dimostrarcelo scrivono una canzone che, se messa in qualsiasi altro loro disco, avrebbe un po’ stonato, mentre in questo ci sta come il basilico sulla pastasciutta: se la prima metà è così dreamy da sfiorare l’ambient, a circa metà decolla e, complice il basso con quel suono lì, diventa quasi una traccia post punk. La successiva Black Car è quasi un momento di stacco – quasi. Come intermezzo funzionerebbe benissimo, con una tastiera statica e con l’altra che suona sempre la stessa breve melodia. Invece si allunga, la melodia è così breve che la ripetizione la rende quasi ossessiva, e poi arriva Victoria che si sdoppia, si triplica, si quadruplica, rendendo quello che sembrava un lungo intermezzo una bellissimo trip. Sognante, chiaro, ma sognante quasi da incubo. Lose Your Smile è un’altra canzone degli Slowdive, e in più ha anche un titolo senza mezzi termini perfetto. Finalmente con le ultime tre si ritorna in acque territoriali, senza grossi elementi di rottura dalla “formula” Beach House (che formula non è, come abbiamo visto).
Col passare degli ascolti la sensazione di novità ovviamente diminuisce, è fisiologico, mentre ad aumentare è il senso di familiarità: nonostante tutte queste differenze con i dischi precedenti, che non spariscono di certo, ad affermarsi è il fatto che stiamo ascoltando un disco 100% Beach House. E chiunque abbia un filo d’esperienza sa quanto sia difficile trovare una band capace di sperimentare pur rimanendo riconoscibile.
Una volta, un mio amico a cui feci ascoltare i Beach House mentre cucinavo disse “sì, ma questi non puoi ascoltarli senza aver assunto sostanze.” Ora, per quanto io sia un fan sfegatato della massima “take drugs to make music to take drugs to“, sono anche uno strenuo oppositore del fatto che la musica, per essere apprezzata, la si debba ascoltare sotto l’effetto di questo o di quello. E per i Beach House non c’è necessità di fumare niente di strano, basta lasciarsi andare.