Slowdive – Slowdive

Slowdive – Slowdive

Siamo in ascolto dell’omonimo nuovo disco degli Slowdive, il frutto di una reunion con cui la band di Reading rischia di raccogliere maggiori consensi di quanti ne ha ricevuti all’epoca, e quindi di accogliere nuove schiere di ascoltatori che ai loro tre magnifici album degli anni Novanta non sono ancora arrivati. Nel momento in cui scriviamo, gli Slowdive hanno solo 172 mila “mi piace” sulla loro pagina Facebook, cifra irrisoria se confrontata a quella di altri artisti altrettanto o meno importanti di quel periodo. 

Slowdive dura 46 minuti e più che della destrutturazione di Pygmalion – che nel 1995 nessuno sapeva ancora etichettare come post rock – riparte dal concetto di suono e strutture di Souvlaki, magari più convenzionale, eppure più identificativo del marchio Slowdive nel tempo, anche grazie a quei due-tre pezzi più facili da memorizzare che negli anni si sono auto-indicizzati come i classici della band su YouTube, Spotify e nella mente di chi li ha conosciuti e portati da esempio. Ripartire dal cantare canzoni, riuscendo a rendere ancora più ampio e disteso il suono (prendendo “Everyone Knows” e “No Longer Making Time”, penserete che un tempo sarebbero risultate molto più compresse), è stata quindi l’idea condivisa da cui è nato questo disco che sembra sia nostalgico che moderno, perché di fatto non c’è roba seria di questo stampo in giro, e la sensazione è simile a quella provata all’uscita di M B V dei My Bloody Valentine: in tanti dicevano di fare shoegaze, fino a quando non sono tornati loro a dire cosa è shoegaze e cosa non lo è. Gli Slowdive ne offrono una variante intrisa di dream pop di scuola Cocteau Twins e psichedelia che in pochi hanno osato replicare, e se non spariscono di nuovo come hanno fatto Shields e soci, potrebbero rilanciare da qui il loro percorso.

Confessiamo di aver temuto un’ennesima inutile reunion quando abbiamo saputo che i ragazzi stavano registrando nuova musica. D’altronde i progetti portati avanti da Neil e Rachel nel corso degli ultimi vent’anni, Mojave 3 inclusi, non sono mai sembrati del tutto riusciti. Forse perché il contributo degli altri membri del gruppo al sound e alla riuscita generale del progetto Slowdive era e rimane ben più rilevante di quanto monografie e retrospettive su di loro hanno indicato negli anni, e quindi perché senza di loro, la magia non accade. In particolare, il basso di Nick Chaplin pare ancora riferimento e perno sonoro a cui si avvolge tutto il resto della performance musicale. E in tutto questo, oggi la Goswell sembra meno protagonista che in passato.
Peccato non ci sia molto di Pygmalion in questi nuovi brani, ma d’altronde per tornare al loro formato canzone non avevano bisogno di avventurarsi in arrangiamenti ambient e post, perché il suono già ce lo avevano pronto ed evidentemente se lo ricordavano bene.  

Nella loro discografia, questo disco omonimo si incastra benissimo: anche se non potrà mai avere lo stesso peso storico, è perfettamente al livello degli altri tre capolavori in termini di songwriting. Speriamo che giustizia sia fatta, e che stavolta raccolgano gli applausi che ingiustamente non ottennero nel primo lustro dei Novanta. 
Come è bello quando una band che hai sempre amato e riverito, e che hai cercato di trasmettere a più persone possibile, torna dopo tanti anni e non solo non tradisce, ma anzi stupisce anche te che non credevi verosimile riprovare le stesse emozioni. C’è reunion e reunion: quella degli Slowdive è semplicemente una delle più riuscite di sempre.