Tim Hecker – Konoyo

Tim Hecker – Konoyo

Ad ogni nuovo album di Tim Hecker, il commento più comune che leggo in Rete è: “how the FUCK does he do it”. E anche nel recente Konoyo, lo sa solo lui come riesce a fare quel che fa. Ora perdonate la digressione saccente, ma io con Tim ci cresco dal 2009, quando scopro An Imaginary Country, che mi limito a considerare come un simpatico sottofondo. Due anni dopo però mi immergo nel suo oceano di synth densi e ariosi, e conosco Harmony in Ultraviolet, ancora oggi mio fedele compagno di vita. “Incurably Optimistic!” mi ha confortato nei momenti più tristi della mia vita. “Hello Detroit” ha funto da parafulmine alle mie scariche di rabbia. “7000 Miles” mi ha accompagnato mano nella mano mentre m’innamoravo della città subacquea di Rapture. “Sea of Pulses” mi ha aiutato a dire arrivederci alla mia adorata Sardegna. Insomma, conosco il ragazzo. Ma non così bene, per cui non ho segreti da svelare.

A dire la verità non ho nemmeno idea di dove voglia andare a parare da quando ha abbandonato (parola grossa ma ci siamo capiti) il suo inconfondibile sound per ovvie ragioni di ciclicità cosmica. Con Ravedeath, 1972 si era fissato con la “spazzatura digitale” e l’organo, con Virgins è stata la volta del pianoforte e del caos sonoro, poi sono arrivate le note sintetiche e le voci di Love Streams e si pensava si fosse finalmente stabilizzato. Macché. Neppure un vocalizzo in Konoyo. Di cosa parla? …sul serio? Ma l’avete vista la copertina? Traduzione visiva di “the fuck if I know”? …tocca di nuovo a Google. Dai, non devi neanche alzarti dalla sedia o aprire una nuova scheda è già troppo per il tuo cervello annebbiato? …ok, gira e rigira tutte le strade portano al gagaku, una forma di musica classica suonata in Giappone da quasi 1500 anni. Quella roba con flauti, note allungate allo stremo e quei colpi di tamburo come se ci facesse rimbalzare qualcosa sopra (tipo quelli alla fine di “Disposition” dei Tool, bravo). Ecco, c’è pure il video dell’Unesco che ti offre un ascolto. Volete un paragone contemporaneo? Musique concrète, drone e molta, molta pazienza. O relax, a seconda dello stato emotivo. A dimostrazione del fatto che c’è e ci sarà sempre qualcuno che ci è arrivato prima di te.

C’è sempre stato qualcosa di organico nell’arte di Tim Hecker, qualcosa di inclassificabile a livello razionale: nelle prime opere era la componente glitch, con schegge solide di synth, anche microscopiche, disposte in file infinite una dopo l’altra (provare il primo album a proposito o l’EP “My Love Is Rotten to the Core”). Nel corso del tempo poi queste correnti audio si sono fatte più nebulose ma comunque compatte come degli strati gassosi e nacque così l’Hecker che conosciamo, con gli album già citati all’inizio della recensione. Infine questi elementi hanno cominciato ad agire per conto proprio, tentando di formare in maniera più o meno conscia delle strutture o architetture volumetriche: ascoltando Virgins e Love Streams si ha la sensazione di percepire un linguaggio nuovo. Cosa voglia comunicare è un mistero totale (almeno per me), ma il fascino che esercita su di noi è il motivo della nostra passione per la sperimentazione elettronica: è il lavoro ma anche la ragione di vita artistica di Tim. Un’esplorazione che l’ha portato dopo quasi vent’anni a specchiarsi nella sua controparte storica, un genere vecchio di secoli e ramo di una cultura ancora così aliena a noi ma al tempo stesso ancora così attraente e stimolante.

Konoyo è la lenta ma ipnotica fusione di due stelle di neutroni, man mano sempre più vicine nella loro vertiginosa spirale gravitazionale ed è interessante osservare come il musicista di Vancouver risponde alle mosse dei suonatori giapponesi. In effetti è davvero strano sentirlo quasi silenzioso nei primi minuti di “Keyed Out” o nella waiting room di “Is a Rose Petal”. Ma basta acclimatarsi all’ambiente ed ecco che avvertiamo i suoi rassicuranti marchi di fabbrica: il caos e le distorsioni in “This Life”, i bassi pulsanti in “In Death Valley”, perfino il ritorno delle sequenze glitch in “In Mother Earth Phase”, alla fine della quale però spunta fuori un nuovo protagonista, il violoncello, che dal nulla dipinge un tramonto struggente fra i migliori di Tim. O le note acute dei synth che cadono come gocce d’acqua nel meraviglioso giardino nipponico di “A Sodium Codec Haze”. Un’oasi estatica per la meditazione e la pace spirituale.

Harmony in Ultraviolet è ancora oggi un punto fermo, un pilastro della musica elettronica del nuovo secolo, per ragioni sonore ma anche filosofiche. Harmony in Ultraviolet è il sogno in cui muori, ti libri in volo fra le nuvole, riconsideri la tua vita terrena da un punto di vista siderale e ti dissolvi nel tragico finale di “Whitecaps of White Noise II”, per poi essere seppellito accanto alla persona che hai amato di più. Konoyo non è così. Konoyo è il cielo che ammiri dal posto del passeggero quando da celeste si tramuta in oro, smeraldo, rosa e rosso fuoco. Non c’è pathos o tristezza. È Tim che dice: “hey bro, relax, take a chill pill”.