15 Settembre 2017
Arrivati al quarto disco in studio, è ormai impossibile smontare il fenomeno The War on Drugs e far finta che non sia mai stato un caso discografico degno delle attenzioni che continua a ricevere. Volenti o nolenti, i ragazzi di Philadelphia ce l’hanno fatta. Anche alla faccia a nostra.
E alla faccia di Mark Kozelek che li aveva cojonati con due canzoni-parodia nello stile dei recenti Sun Kil Moon, la band continua a riscuotere ampi consensi presso una nuova categoria di pubblico, ovvero quella indie-generalista che si è creata con la caduta degli idoli mainstream rock di un tempo e che ha di fatto sostituito ciò che in passato, in Italia in particolar modo, si presumeva fosse alternativo. È curioso tuttavia che ciò che oggi sembra addirittura raffinato oltre che sincero ed emotivo, ancora negli anni Novanta fosse rifuggito come la peste. Già perché se avevi sposato la rivoluzione capitanata da Cobain o se eri andato ancora più a fondo e dato confidenza al rumore di ciò che poi è diventato post rock e hardcore, sicuramente roba come quella a cui si ispirano spudoratamente – andrebbe sottolineato e scritto maiuscolo – i War on Drugs non la volevi dentro casa.
Mettiamola più cristallina. È vero che stanno tentando un’impresa difficile, quella di riesumare e rendere figo un genere che quasi per postulato per tutti gli anni ’90 e ’00 ha significato jella e grattate alle parti basse, ma per lunghi tratti i War on Drugs riescono a creare una piacevole versione sonica – quanto possibile – di quelle emozioni candite già offerte ai tempi dall’heartland rock di Red Rider, Dire Straits, Tom Petty, o certamente Bruce Springsteen. Ribadiamolo: i War on Drugs sono obiettivamente bravi – soprattutto in Lost in the Dream – ad aggiornare quel discorso e a spacciarlo oggi per qualcosa di alternativo, quando invece per suo background non lo sarebbe. O d’accordo, la storia si è rivoltata, e se non la conosci, può darsi che roba che forza su simili coordinate e viene incontro alle capacità mentali del pure aggiornato ascoltatore rock generalista ti sembri il massimo. È indubbio in ogni caso che una loro canzone ti allunga la vita, perché se decidi di punirti oltre i primi tre-quattro minuti, finisci in quella zona dello spartito dove di solito trovi scritto “ad libitum”, e continui a viaggiare col pilota automatico fin quando un agente esterno imprevisto non ti desta dallo stato di ipnosi in cui sei caduto. Insomma sicuri che vanno ascoltate tutte per intero?
Riprendendo le parole di Paolo Busetto in redazione: “Li seguo e apprezzo dall’esordio, hanno quel tipo di sound su cui ciclicamente torno volentieri. Tuttavia, qualche giorno fa in macchina ho rimesso Lost in the Dream e dopo 20 minuti ho dovuto cambiare perché stavo letteralmente per addormentarmi al volante. Ottima musica da viaggio… per chi sta sul sedile passeggeri”.
Le nuove canzoni sono tutte molto piatte, e quando il gioco si presenta divertente come in “Holding On” o “Nothing to Find”, la sensazione di dejà-vù che ti assale riesce a smontare presto l’entusiasmo. Le parti migliori sono quelle dove Adam smette di cantare e lascia andare la chitarra, provando a metterla in caciara – si fa per dire – con una distorsione di chitarra che però non fa certo paura. Nel 1991 i Mercury Rev, nello sfondo progressive del loro primo sound, pubblicavano quella litania stralunata di “Chasing a Bee“, che maturava intorno ai tre minuti in un mostruoso assolo di chitarra lasciata stridere liberamente, a culmine di una tensione nervosa che di certo non trovi nel rockettino da camera (no Kozelek, non è beer commercial rock il loro) dei War on Drugs. Chiara la differenza??
Per carità, può essere anche confortevole il 4/4 già sentito mille altre volte. “Pain” è un singolo che rimanda a chissà quante altre vite vissute in precedenza e che non può non farti compagnia in certe notti in cui macchina calda, dove ti porta lo decide Granduciel. Ma quanto vai veramente più lontano, nel tuo percorso di ascoltatore, con i War on Drugs?
Curiosità. Magari sarebbero rimasti comunque più frivoli, ma prima di Reflektor e della conferenza di presentazione di Tidal, questo è esattamente come potevi immaginare e temere che sarebbero diventati gli Arcade Fire.
Va però detto che questa è anche voglia di altri anni Ottanta, ovvero di indugiare in quegli stessi ricordi ormai vaghi che cercano di riesumare alcune serie tv americane ambientate in quel decennio che sono andate per la maggiore in questi ultimi tempi. Ed è volontà di rendere legittimo l’omaggio – finché non sfocia nella parodia – di quei sentimenti che pure big come Neil Young, U2 e Bob Dylan hanno provato a cantare più e meno con onestà artistica. Come c’è stato chi ha ripreso con successo la lezione dei Cure, dei Joy Division, o dei Talking Heads, adesso c’è chi ripesca quella delle band e degli artisti che hanno qualcosa in comune con il cosiddetto heartland rock. E occhio che qualche sintetizzatore alla Stranger Things comincia a far capolino anche nel suono di A Deeper Understanding…
Quello dei War on Drugs è un aggiornamento davvero ben fatto di certa musica di cui probabilmente il Boss è l’esponente migliore, e tra cui non conviene mettersi a smucinare troppo, poiché potrebbe venir fuori un odore non proprio piacevole. Se non siete per forza di cose alla ricerca di uno stile unico e inimitabile e se vi accontentate di buone melodie sopra a strutture piatte ma molto solide, nonché confortevolmente già sentite, A Deeper Understanding fa al caso vostro.
Sembra che abbiamo parlato di merdavera per tutta questa recensione, e invece questa è una band seria e meritevole di molte attenzioni, nonché fonte di così tanti spunti di riflessione come vedete. Tutto è legittimo, anche che vi piacciano enormemente The War on Drugs. Ma non chiamatelo rock alternativo, please.