Sufjan Stevens – The Ascension

Sufjan Stevens – The Ascension

Lo proviamo ad inquadrare in anteprima, partecipando all’inutile corsa a chi arriva prima a scriverne, consapevoli che stavolta il Nostro ha messo in circolo un disco, The Ascension, su cui non si può venire a capo con tre o quattro ascolti integrali. Si tratta invece di uno sforzo di circa 80 minuti di musica, di lettura molto più complessa rispetto al celebratissimo Carrie & Lowell (2015), e all’infinita coda di uscite che lo hanno seguito. Infatti tra remix, outtake, tracce per colonne sonore, progetti paralleli (Planetarium in particolare) e singoli fuori dal contesto album, l’onda lunga del precedente LP ha un po’ ingannato l’attesa per questo nuovo lavoro, su cui era legittimo avere alte aspettative. D’altronde, ormai dai tempi di Michigan (2003), Sufjan Stevens ha sempre pubblicato materiale di alto valore, arrivando al capolavoro con Illinois (2005) e con il già citato Carrie & Lowell, senza dimenticare i flippatissimi box natalizi, anch’essi fondamentali nel percorso dell’artista di Detroit. E di fatto proprio dal secondo dei due cofanetti di EP dedicati al significato del Natale, Silver & Gold (2012) e all’antecedente full lenght The Age of Adz (2010) riprendono stile ed espedienti tecnici le quindici canzoni di The Ascension.

Stanco di arpeggiare con la chitarra acustica, e con il banjo ormai da tempo in soffitta, Sufjan torna con un disco in cui di strumenti analogici – o reali se preferite – se ne incontrano pochissimi, tanto che quando sopraggiunge lo splendido assolo di chitarra di “Landslide”, già oltre la metà della corsa, non puoi non immaginare che vi sia stata un’intromissione esterna imprevista, come la performance di un guitar hero che interviene a pontificare sopra le basi synth pop. Perché di questo stiamo parlando: The Ascension è un (grande) albo puramente synth pop, anche più formalizzato di The Age of Adz, di cui è probabilmente superiore, in quanto più omogeneo nella qualità media delle composizioni e quindi nell’ispirazione generale.

Se è vero come è vero che come DYR consideriamo Stevens uno dei più grandi solisti americani di ogni tempo, avendone elogiato e discusso il talento più che diffusamente all’interno della nostra comunità nel corso degli anni, dobbiamo anche ammettere che dopo il raggiungimento della perfezione stripped to basics di Carrie & Lowell, ci aspettavamo o meglio avremmo preferito un ritorno agli arrangiamenti un po’ barocchi e un po’ progressive folk del periodo Illinois, ormai così lontani che forse potevano essere aggiornati con altro gusto e differente esperienza. Era chiaro da brani come “Tonya Harding” o “Mystery of Love” che Sufjan avrebbe potuto continuare ad libitum nella fortunata configurazione sottovoce-piano-chitarra arpeggiata. Per non ripetersi, ha scelto di provare a perfezionare il concetto musicale iniziato con The Age of Adz, e quindi gli arrangiamenti dominati dai sintetizzatori, piuttosto che ripartire da formule totalmente riuscite precedentemente.

A lasciare un po’ perplessi sono le durate di alcuni pezzi trascinati un po’ troppo per le lunghe, che invece forse potevano essere ugualmente efficaci se leggermente compressi, in modo da rendere più fluido l’ascolto. Con The Ascension Sufjan Stevens ci vende un prodotto sostanzioso, in cui non si risparmia, e per cui richiede tante attenzioni. Difficilmente nel tempo si dirà che è il suo LP meglio riuscito, ma fosse anche soltanto per la magnifica titletrack, se non per momenti di modern pop elegantissimo come “Tell Me You Love Me” o “Run Away with Me”, chiunque lo ha fin qui seguito con passione, non potrà esimersi dal far suo anche questo capitolo.