22 Maggio 2021
I Sons of Kemet sono un quartetto jazz capitanato da Shabaka Hutchings e tornano sulle scene dopo che tre anni fa avevano convinto un po’ tutti con Your Queen Is a Reptile, già candidato al Mercury Prize e osannato da gran parte della critica britannica, ma non solo. Black to the Future è un concept album sorto dalle ceneri delle proteste del movimento Black Lives Matter dello scorso anno. Per spiegarne il senso la cosa migliore è utilizzare le parole del brano di apertura del disco, Field Negus, una vera e propria dichiarazione di intenti, con il recitato del poeta Joshua Idehen:
“And I am a field negro now
I do not want your equality
It was never yours to give me
And even then it was too minor, too little, too late
[…]
We are rolling your monuments down the streets like tobacco
Tossing your effigies into the river, they weren’t even worth a pyre“
Riferimenti chiarissimi agli avvenimenti dell’estate passata e frasi che lasciano poco spazio all’immaginazione. Se pensate che le parole siano incendiarie, aspettate di aver ascoltato la musica. La strumentazione e, in parte, anche lo stile sono quelli che già avevamo imparato a conoscere e amare, con le solite percussioni impazzite, la tuba di Theon Cross, in taluni pezzi grande protagonista, mentre in altri spalla perfetta per il talento di Hutchings al sax e al clarinetto.
Si tratta di un gruppo di musicisti di assoluto livello che offrono una prova davvero magistrale, coadiuvati da una serie di ospiti importanti, soprattutto per quanto riguarda le parti vocali. Hutchings, in particolare, negli ultimi anni è stato il vero e proprio Re Mida e punto di riferimento della scena jazz alternative britannica, tra i Comet Is Coming, i Shabaka and the Ancestors, gli stessi Sons of Kemet, senza dimenticare le collaborazioni con artisti di grande fama come Melt Yourself Down, Kamasi Washington, Sun Ra’s Arkestra e altri ancora. Ormai definirlo un gigante dei nostri anni sembra davvero un atto dovuto.
La strumentazione dei Sons of Kemet, composta da soli ottoni e percussioni, e anche il fatto che pubblichino per Impulse! lasciano pensare che questo sia un disco jazz al 100%. In realtà, il loro sound affonda le sue radici nell’afrobeat, nel hip-hop e nel dub e ci sono pezzi che non sfigurerebbero nei migliori dance club londinesi, grazie a delle bassline veramente killer.
Questa è la vera forza di Hutchings, capace nelle composizioni di coniugare la tradizione jazz, con elementi innovativi, arrivando a forgiare un suono fresco e originale, che potrà piacere a tipologie di ascoltatori molto eterogenee. Esemplificativo in questo senso è Let the Circle Be Unbroken, uno dei pezzi più interessanti del disco, dove un crescendo quasi funk sfocia in uno sputacchiare di suoni di sax, oppure la successiva Envision Yourself Levitating, con l’incedere quasi marziale della tuba e delle percussioni e gli splendidi ghirigori di Hutchings a colorare il tutto.
Trattandosi di un concept album, la tracklist va anche letta come un percorso sequenziale, dalla cieca rabbia, alla reazione, passando per la consapevolezza, fino a giungere alla soluzione del problema e alla speranza: “Field Negus, Pick Up Your Burning Cross, Think of Home, Hustle, For the Culture, To Never Forget the Source, In Remembrance of Those Fallen, Let the Circle Be Unbroken, Envision Yourself Levitating, Throughout the Madness Stay Strong, Black”.
Un album che sia musicalmente che dal punto di vista lirico riflette sui concetti di discriminazione, identità, sul tema del black power, nel tentativo di capire il passato, contestualizzare il presente e di forgiare un futuro migliore.
Black to the Future segna l’affermazione dei Sons of Kemet come una delle band più rilevanti del jazz contemporaneo, ma non solo. Un disco con una fortissima connotazione politica, allo stesso tempo viscerale e studiato, popolare e intellettuale, dalle molteplici influenze e piani di lettura, come solo i migliori classici sanno essere.