9 Marzo 2017
Ho da sempre un grande problema con i cantautori, che siano italiani o anglofoni poco importa. Possiamo suddividere questo grande problema in due tendenze:
- Spesso e volentieri danno troppa importanza ai loro testi. Io se voglio ascoltare musica, tendenzialmente mi avvicino ad un artista per la musica; anche coi rapper, se le basi non mi piacciono è davvero difficile che diventi un fan del nero di turno. La tendenza prevalente, ai miei occhi, è invece quella di fare musica accettabile quanto basta a non respingere il pubblico ma che serva solo a mettere sul piedistallo le parole del predicatore di turno. Per non parlare dell’orticaria che fa venire la deriva testi politici/sociali dozzinali + chitarra acustica
- Vogliono sbandierare la loro sensibilità e il loro sentimentalismo in maniera eccessiva. Va bene la tristezza, che è un sentimento nobile e poetico e ci sta, ma est modus in rebus. Perfino gli Antony and the Johnsons al quinto album cominciano a risultare un po’ stanchi, nonostante abbiano scritto almeno un capolavoro. Un rimedio sarebbe quello di scrivere testi tanto personali da risultare criptici, ma spesso anche questi sono sovraccaricati di pathos e risultano melensi e noiosi.
I migliori del campo riescono a non cadere in queste due trappole o, in alternativa, riescono ad essere interessante nonostante tutto. Però, come ci ricorda la sempre utilissima legge di Sturgeon, questi casi di eccellenza sono davvero pochissimi.
[Tweet “Sampha riesce a fare un disco bello anche secondo le rigide regole della legge di Sturgeon.”]
Ma veniamo a noi: Sampha Sisay è riuscito a fare un disco che riesce benissimo a stare in quel 10%. I testi, infatti, sono appunto estremamente personali, criptici e poco chiari, per così dire, tanto da potersi adattare a qualsiasi paturnia il malinconico ascoltatore stia passando (certo, il discorso va un po’ a donnine su “Like the Piano”, ma su, ci siamo capiti). È chiaro, invece, che sul disco ha lavorato tanto, sia per la composizione perfetta della tracklist che per il lavoro di scalpello & cesello sulle tracce. D’altra parte, non ci sarebbe da stupirsi se durante l’ascolto dovesse venirvi in mente James Blake. Anche lui ha fatto il botto con LP elettronici ma intimisti quanto basta a inserirli nel filone “cantautorale” di cui dicevo prima. Anche il curriculum è simile: se Blake è sempre stato un enfant prodige della post-dubstep, Sampha era finora conosciuto principalmente per le collaborazioni (che, almeno a livello di name-dropping, sono stellari: quanti hanno lavorato con Solange, SBTRKT, Drake e Kanye senza aver mai fatto uscire praticamente nulla?). Ma Blake non è arrivato alla quadratura del cerchio subito, ha dovuto sparare il colpo a salve (l’omonimo del 2011) prima di poter tirare fuori Overgrown; Sampha invece è riuscito subito a coniugare la sua anima elettronica con la malinconia dei pezzi voce + piano. Buona la prima.
Nella mia timeline di Twitter lui è venuto fuori con l’uscita di “(No One Knows Me) Like the Piano”, che è chiaramente il brano più facile da leggere a chi non mastica troppo drum machine, campioni e synth. Il pezzo è scarno tanto da essere quasi ridotto all’osso: la drum machine e i droni sono tanto eterei da essere meri elementi di sfondo al piano struggente che accompagna la voce malinconica del nostro, che qui ricorda quasi il già citato Antony Hegarty del secondo disco. Stesso discorso si potrebbe fare per “Take Me Inside” e per “What Shouldn’t I Be?” (perfetta traccia di chiusura), che però barattano il piano con un’elettronica un po’ più in primo piano. I momenti più brillanti del disco, però, sono da cercare nelle altre tracce. Prendete come esempio “Reverse Faults”: viene proprio dopo due dei pezzi più intimisti e spogli del disco, e sulle prima sembra essere simile come tonalità, ma ecco subito arrivare dei synth che sembrano quasi ricordare l’ultimo EP di Senni, costruiscono, costruiscono, e rilasciano la tensione con una splendida apertura decisamente più danzereccia delle tracce precedenti. Oppure “Timmy’s Prayer” – in cui pare abbia partecipato anche Kanye –: la linea di basso sembra uscita direttamente da un gran pezzo dubstep made in South London circa 2008, una traccia di Kode9 o D1 o di qualche altro nome preso dalla compilation dei 5 anni dell’Hyperdub, che va sempre evolvendosi nonostante la voce malinconica a cui ormai vogliamo bene. La capacità di Sampha è però quella di andare a riempire quasi tutte le tonalità della tavolozza, ed è il caso di quelli che per me sono i pezzi migliori del disco. Under è un incredibile pezzo trap, di quelli che danno nei club in cui sai che i dj la sanno lunga. “Blood on Me” è semplicemente perfetta, teatrale, elettronica, danzereccia, con un ritornello da standing ovation.
Ora l’ultima curiosità, l’ultima casella da barrare, è quella del live: stiamo comunque parlando di un disco ascrivibile al 100% nel non-genere del neo soul. Considerato che il suo gemello diverso James Blake dal vivo riesce a ridurre al minimo indispensabile i momenti spogli, dandogli per altro ancor più intensità, e trasforma tutto in un’orgia sudata di bassi profondissimi e ritmi quasi berlinesi, a questo punto siamo tutti curiosi di capire se farà lo stesso o se giocherà la carta del soulman nero, se ci vorrà far piangere o ci vorrà far ballare. Per fortuna non bisogna aspettare molto, visto che suona a Milano a fine mese.