Ryūichi Sakamoto – Async

Ryūichi Sakamoto – Async

Da profano, non avevo catalogato l’uscita di un nuovo album di Ryūichi Sakamoto come un momento importante per la musica del 2017. Prima di Async ero abituato ad associare l’idea del giapponese, più che alla famosissima melodia di “Forbidden Colours”, al nome del fondatore dell’etichetta Raster-Noton, Alva Noto, assieme al quale aveva composto diversi dischi a metà tra glitch ambient e modern classical. Bellissimi Vrioon, Insen e Summvs, ma assumevo che, senza il supporto hi-tech del tedesco, il solo Sakamoto avrebbe avuto poco da dirmi. Mi sbagliavo, e anche di tantissimo.

Nell’annullare completamente il pregiudizio nei confronti del compositore ha giocato un ruolo fondamentale una personalissima ricerca di qualcosa che fosse allo stesso tempo alla mia portata ma non scontato nella forma e nei sentimenti, come quasi tutte le uscite in ambito rock e dintorni degli ultimi anni. Può sembrare un discorso snob? Lo è, eccome, ma l’ho accettato e non lo trovo affatto un problema. Durante il quarto ascolto in cuffia via streaming ho pensato che l’esperienza di Async fosse meritevole d’esser fatta dal vinile. Ordinato, arrivato e infine scartato, e il mio primo pensiero è stato subito “ne è valsa la pena”.

All’interno, una piccola lettera di Sakamoto spiega alcuni dei perché del disco, il suo primo vero e proprio album solista da otto anni a questa parte. Innanzitutto, precisa come abbia avuto l’impulso di non condividerlo con nessuno, e come sia stato attentissimo al momento in “mollare il pennello” su ogni traccia, per evitare che l’aura dell’opera venisse inquinata dalla presenza di strati non necessari. Poi, ecco le idee di base: Async sarebbe stato il tipo di musica che avrebbe voluto ascoltare, ovvero l’OST di un film di Andrei Tarkovsky immaginario; le melodie sarebbero state quelle che aveva in testa ogni mattina al risveglio, spesso dei corali di Bach “immersi nella nebbia”; i suoni, invece, quelli di “cose e persone” (field recordings), e i tempi possibilmente tutti diversi. Gli oggetti da ricreare sarebbero state le sculture sonore dei Baschet Brothers

Provo sempre una certa ammirazione per l’artista si prende il disturbo di scrivere qualcosa all’interno del packaging. È una delle piccole cose per cui possedere un oggetto contenente l’opera, sia esso un cd o un vinile, fa davvero la differenza rispetto al prodotto digitale puro; il coinvolgimento è diverso (passiamo da un approccio esclusivamente mentale a uno che è sia mentale che fisico) e si tratta, quindi, di due esperienze di ascolto completamente differenti ma ugualmente necessarie per chi si nutre di musica.

L’esistenza di album e canzoni “di consumo” da poter ascoltare in qualsiasi momento e con qualsiasi mezzo è ciò che rende speciale il momento in cui decidi di trascorrere del tempo di qualità insieme alla musica. La pelle d’oca che ti viene riconoscendo il vocione di Aaron Turner su “Vex” di Chelsea Wolfe ha un valore altissimo e ti fa venir voglia di condividere la sensazione con le persone a cui vuoi più bene, ma la differenza si nota tutta nel momento in cui una “Fullmoon” finisce e senti il click del braccio del giradischi che abbandona il piatto e ti invita ad alzarti per cambiare il disco, mentre stai ancora rimuginando sulle frasi di Paul Bowles che hai appena sentito, estratte da “The Sheltering Sky” / “Il tè nel deserto” di Bertolucci.

Death is always on the way, but the fact that you don’t know when it will arrive seems to take away from the finiteness of life. It’s that terrible precision that we hate so much. But because we don’t know, we get to think of life as an inexhaustible well. Yet everything happens a certain number of times, and a very small number, really. How many more times will you remember a certain afternoon of your childhood, some afternoon that’s so deeply a part of your being that you can’t even conceive of your life without it? Perhaps four or five times more. Perhaps not even. How many more times will you watch the full moon rise? Perhaps twenty. And yet it all seems limitless.

Async ha movenze leggere e sofisticate, è intensissimo e comunicativo. Qualche espertone di Sakamoto ha subito avuto da ridire sulle scelte stilistiche, infatti sul web si trovano commenti negativi il cui punto essenziale è “somiglia troppo a un disco di Alva Noto”, come se fosse un problema, per cui non vi fidate. Si coglie l’occasione per segnalare l’esistenza dei rework di varie tracce di Async firmati da lui, Arca e Oneohtrix Point Never. Il fatto che oggi si affidi a gente del genere, come una volta faceva con David Sylvian, David Byrne e Iggy Pop, fa capire come i collaboratori di Sakamoto siano sempre stati di un certo livello e che, dall’alto dei suoi 65 anni, il giapponese sia uno che vive nel presente più dei suoi stessi seguaci. Ai sintetizzatori si affianca strumentazione tradizionale spesso altamente effettata, e sono cose come queste (e artisti come Nils Frahm) che distruggono completamente il gap esistente tra la musica elettronica e quella classica.

Una delle ossessioni di noi di DYR è anche quella dei Coil. Abbiamo la tendenza ad avvistare gli spiriti di Jhonn Balance e Peter Christopherson un po’ ovunque, anche dove non ci sono, come se fosse un fenomeno di pareidolia sonora. Ecco, in alcuni punti di Async quella sensazione è più forte del solito; sarà che le composizioni più sperimentali, molto spesso, appaiono come esercizi artistici impenetrabili e anche un po’ freddi e fini a loro stessi, mentre la capacità di Sakamoto di comunicare sentimenti attraverso forme astratte ricorda davvero tanto quella che era propria dei Coil. Senza contare la presenza di spoken word, tra cui il solito Sylvian che recita “And This I Dreamt, And This I Dream”, di Arseny Tarkowsky (padre del regista). Qualunque estimatore della formazione post industrial, o di Tim Hecker, o di Oneohtrix Point Never, o di Ben Frost, dovrebbe trovare il tempo per immergersi in Async. Anzi, chiunque dovrebbe trovare il tempo per farlo.

Un pezzo d’arte.

And this I dreamt, and this I dream,
And some time this I will dream again,
And all will be repeated, all be re-embodied,
You will dream everything I have seen in dream.

To one side from ourselves, to one side from the world
Wave follows wave to break on the shore,
On each wave is a star, a person, a bird,
Dreams, reality, death – on wave after wave.

No need for a date: I was, I am, and I will be,
Life is a wonder of wonders, and to wonder
I dedicate myself, on my knees, like an orphan,
Alone – among mirrors – fenced in by reflections:
Cities and seas, iridescent, intensified.
A mother in tears takes a child on her lap.