Red Hot Chili Peppers – The Getaway

Red Hot Chili Peppers – The Getaway

Non scriviamo questo pezzo per coglionare per l’ennesima volta il fan italiano dei Back Street Chili Peppers. Non c’è più niente da ridere. D’altronde lo sciovinismo californicentrico ha pagato piuttosto bene, e ormai i RHCP sono vecchi e annoiati.

Se ai tempi della magnificazione del personaggio John Frusciante da parte di MTV, delle penose performance dal vivo della band, e soprattutto dei clamorosi tonfi discografici che hanno succeduto il successo mondiale e spropositato di Californication, ancora c’era gusto a prendersela con chi riempiva gli stadi dove si esibivano, oggi che è ormai pacifico che il loro status di band alternativa è definitivamente decaduto, e che Blood Sugar Sex Magik è rimasto un caso isolato all’interno di una discografia in cui gli apici sono in netta minoranza rispetto ai pedici, già il solo pensiero di doverne parlare si fa tedioso. Perfino Frusciante, che anche dopo essere riuscito dal gruppo qualche adulatore era riuscito a tenerselo, si è ormai reso conto di essere divenuto pleonastico e irrilevante, e ha abbandonato l’idea di diventare il Syd Barrett della sua generazione.

Ora che abbiamo The Getaway, l’undicesimo LP in studio, ci troviamo ad affrontarlo con un distacco emotivo e una disaffezione per i protagonisti che forse, per chi conosce e segue i RHCP da ben prima del rilancio commerciale dato dai video di Californication in rotazione pesante su MTV, è segnale ancor più grave di quanto sia scesa la stima nei loro confronti. Se quando uscivano croste autentiche come By the Way e Stadium Arcadium ce la prendevamo perché “hey, questi sono quelli di Blood Sugar e del discusso One Hot Minute, non possono uscirsene con queste robe”, oggi il cazzo che ce ne frega è grande come quello di Siffredi.

Sono tredici brani, in cui, oltre all’indiscutibile perizia dei tre musicisti, ciò che emerge di positivo è il cambio di produttore, e quindi di suono. Danger Mouse lo ha svecchiato notevolmente, rendendolo meno patinato e assai più moderno, con quella vena funk dei primi anni che torna a tratti a essere prominente. Flea, Chad Smith e Josh Klinghoffer non sembravano affatto affiatati nel precedente e orribile I’m With You (2011), adesso con il cambio in cabina di regia riescono ad incastrare meglio le loro parti. E, onestamente, a tratti riesci perfino a godere della loro tecnica.

Avessero mandato via Rubin ad inizio del nuovo millennio, forse un altro album decente lo avrebbero tirato fuori, ora sono davvero fuori tempo massimo. Da vecchietti (Kiedis e Flea sono dei classe 1962) potevano rimanere credibili solamente cercando di proporre una versione pacata ed orecchiabile di Freaky Styley, all’epoca prodotto dal gran cerimoniere del funk George Clinton… Se hanno puntato tutto sul punk-pop radiofonico rivolto agli adolescenti, molta colpa era proprio del produttore.

Il lato negativo? Tutto il resto, dall’assenza di melodie avvincenti, alle banalità a livello di songwriting, alla voce… insomma, tutto ciò che è imputabile a Kiedis. Tutte cose dette e ridette, ma veramente, mettete al suo posto un cantante più versatile, scegliete voi chi, e diverse canzoni, dalla titletrack alla conclusiva “Dreams of a Samurai”, sarebbero state pienamente convincenti, perché le tracce strumentali banali non sono. Siamo sempre stati per l’urgenza espressiva, ma in grave assenza di questa, l’unica dote che può provare a rendere figosa della musica rock è la scelta dei suoni e degli arrangiamenti, unita a una poetica profonda e coinvolgente. Certo, se poi mandi tutto a monte con un cantante così… allora diventa tutto inutile.

Se la prossima volta fanno un disco tutto strumentale, magari glielo compriamo pure. Per ora registriamo un affannato e ritardato tentativo di serio rilancio artistico.