A Perfect Circle – Eat the Elephant

A Perfect Circle – Eat the Elephant

Tutto sta nel decidere se si è cresciuti e se si accetta la direzione musicale che hanno preso. O se di certa roba uno non sa cosa farsene nel 2018, dopo che nel tempo è andato in direzioni opposte, certamente più indie e alternative. Questa è la conclusione a cui siamo giunti ascoltando Eat the Elephant, il quarto full lenght degli A Perfect Circle, di fatto il terzo di inediti, il primo da Thirteenth Step (2003) quindi. 

Abbiamo tuttavia voluto raccogliere tante considerazioni, da appassionati dei personaggi in questione quali siamo. Nella prima parte della recensione trovate pareri che non tradiscono disaffezione, ma certo molta delusione. Nella seconda parte, una lettura non convenzionale e più poetica della vicenda, nell’attesa per quella che invece deve essere la prossima Grande Opera. 

Eat the Elephant. Si tratta di un album di quasi soli lenti o mid-tempo. Decisamente differente dai primi due che, onestamente, capisci subito resteranno su un altro livello. A tratti più che dignitoso, in altri davvero inconcludente, resta sicuramente la cosa più mainstream che Maynard James Keenan abbia mai pubblicato. È fin troppo radiofonica questa collezione di brani, e alle orecchie di come noi è cresciuto anche con la sua musica, ciò non passa inosservato. Abbiamo troppi modelli e strumenti per capire cosa è serio e cosa è biecamente commerciale. Ciò che forse farà più male ai fan è che si tratta del primo albo di inediti scritti da Maynard – escluso Puscifer che non è mai stato un progetto serio – a non poter essere considerato un discone. Bastano i primi 30 secondi di “Judith” a spazzare via tutto Eat the Elephant. E se non vuoi paragonarlo a un pezzo duro, allora prendi “Blue”, una traccia decisamente morbida del loro repertorio: col cacchio che c’è una “Blue” in questo nuovo. E per chi ricorda Ashes Divide, il progetto parallelo in cui Billy Howerdel ha provato a cantarsela e suonarsela da solo, la sensazione è quella che perfino quel capitolo fosse più ruvido di Eat the Elephant.

Il risultato finale è infatti frustrante. Non ci sono grandi canzoni, solo un gran lavoro di Billy Howerdel di confezionamento. Frustrante perché con molta semplicità avrebbero potuto fare di molto meglio. Non c’era bisogno di arrangiamenti, filtri, maschere, trucchi così pesanti. È vero che MJK non sente più sua la parte di quello che era. E questo spaventa un po’ anche in ottica Tool. Gli APC del nuovo album sono un’altra band – completamente – rispetto ai primi due (straordinari, per quanto ci riguarda) dischi.

Howerdel fa un lavoro da multistrumentista e arrangiatore incredibile, e in generale tutto è molto più complesso rispetto al passato. Solo che non sono più loro. Non è più la band di “Magdalena”, “The Package”, “The Outsider”. Quindi, soprattutto ai fan più metallari dei Tool, questo disco non piacerà. Al contempo potrebbe esserci il rischio, per molti di noi che nel frattempo abbiamo fatto un percorso in direzioni molto diverse (electronica, indie, folk, post metal…), e che pure non abbiamo mai rinnegato certe band anni 80-90-00 con cui ci siamo fatti le ossa, che questi nuovi APC (e prossimi Tool) non ci parlino, che non siano più per noi. 

“By and Down the River” e “Feathers” stanno lì a dimostrare che anche volendo gli A Perfect Circle dei primi due album non possono essere più attuali, o che comunque non sono in grado di tornare a quei livelli. Nel senso che “ecco, se proprio volete torniamo a Mer de Noms e Thirteenth Step, ma questo è il risultato”. Sono due pezzi che denotano vecchiaia, identità sbiadita, poetica stantia. Sono cose già dette meglio in precedenza, con una formula simile. E non è questione di assenza di Josh Freese: qui la volontà è chiaramente quella di suonare in questo modo.

Si discuterà molto del singolo “So Long, And Thanks For All The Fish”, che in realtà per noi è una buona canzone pop rock. Certo, non la vuoi da Maynard una roba del genere, ma presa per quella che è, non è così disgustosa come qualcuno sostiene. Sono più gravi altre canzoni presenti nel disco, come appunto l’ultima, “Get the Lead Out”, che denota cattivo gusto, incapacità di evoluzione, mancanza di aggiornamento. 

Il resto lo fa l’artwork, che ti fa passare la voglia di tornarci. Ma forse, nonostante la delusione iniziale, è il caso di farlo lo stesso, perché a parte la tracklist che non metterà mai d’accordo tutti, in realtà è un album meno scandaloso di quello che sembra a primi ascolti.


So glad to see you well. Overcome and completely silent now. 

Queste le parole coagulate nella pinta che ho tra le mani mentre la aspetto nell’angolo più buio del locale. Quattordici anni che non la vedo e quando ci siamo lasciati ho avuto la certezza che non l’avrei più rivista. Segretamente spero non mi riservi il suo sguardo severo per averla allontanata e dimenticata, ma forse sono più preoccupato che lei noti rughe che prima non c’erano. Anche perché non potrei mai dimenticarla sebbene l’abbia allontanata per nostalgia. Chissà se lei ha mai pensato a me.

Just take the step…

Così. Come se la linea del tempo avesse gonfiato una gobba collegando due momenti distanti, apparve. Elegante. Diversa da come la ricordavo: un volto e uno sguardo più dolci, ma della fiera bellezza quasi virginea non v’era più traccia. Mi squadrò ruotando la testa da un lato per poi aprirsi in un sorriso famigliare. Nessuna traccia di risentimento. Poi parlò: non ricordo già più di cosa, solo il timbro della sua voce…

Unique voice among the many in this choir. Tuning into each other, lift all higher.

Risentirla è un vortice d’euforia sillabato come ai tempi della Risacca: EU-PHO-RI-A. Come quei deja-vu sui sentieri di montagna, quando la cadenza del respiro prende il ritmo di tutto quanto ti circonda e tu non sei più tu ma l’immerso-per-sempre nei verdi, nei grigi, nei blu. Accordarsi. Anche dopo anni di non detti e differenti esperienze. Possibile solo per chi è stato amante.

Hello he lied. Beware, belie his smile

E non capisco se è gelosia o che’ quando sento fervore nella sua voce parlando di una storia recente tribolata. L’ego non mi permette ancora di immaginare che le altre persone possano andare avanti senza di me; il mio orgoglio mi impedisce di accettare di essere stato scartato dall’essenzialità della vita di un amore, seppur sepolto. Più probabilmente sono imbarazzato dalle risonanze tra la fine della nostra storia e la loro.

Fuck the doomed! You’re on your own/Try to walk your talk or get the fuck out of the way.

Ora capisco che mi ha invitato per parlare del suo uomo. E non solo perché questo nuovo amore le ricorda il nostro, ma perché ora lei ha il necessario distacco: è lei a non provare più nulla per me.
E’ forse questo ciò che è stato rapito dal suo sguardo. Non c’è più quella scintilla folle del volersi ad ogni costo, del litigare e fare l’amore fino a sfiancarsi, del dover tirar fuori tutto quello che si ha dentro prima dell’alba. Ora c’è una disillusa presenza a se stessi, marchiata dallo spettro della solitudine e del fallimento. Un filo rosso che quasi mi commuove.

What a glorious display. Melt our joyous heart away. Under a mushroom cloud confetti.

C’è un’altra venatura che mi era sfuggita, travolto come sono tra ricordi e impressioni. Non è più una ragazzina. E’ diventata una donna e anche di successo. C’è decisamente più malizia nel suo modo di fare, meno aperta ingenuità e impeto passionale. Forse ora è una persona che sa divertirsi di più ma decisamente più controllata…

Moving in and out of the shadows. It’s no easier mission holding onto how i picture you

…anche se è difficile “vederti” in questa luce. E sembrerò arrogante nel cercare di giudicarti dopo tutto questo tempo anche se è l’unico modo per me di fare ammenda per averti persa: illudermi che non fossi tutto questo granché.

So delicious for the rest of us to witness your dread poetic justice consummate.

E invece la tua compagnia è ancora deliziosa, la tua risata cristallina, il tuo broncio eccitante e teatrale e le tue parole, sebbene più civettuole, risuonano così intime.

The countdown carry on: five, four, three, two…

Cosa ne sarebbe stato di noi se non ci fossimo lasciati? Magari saremmo a questo stesso tavolo, annoiati e distanti, con il volto irradiato dai rispettivi telefoni in cerca di qualche tinder notturno. Oppure sarebbe una di quelle serate in cui senza alcun motivo apparente ci si scopre ancora innamorati l’uno dell’altra e si fantastica e si progetta e si sente il profumo di primavera. E se ci fosse spazio per un nuovo “noi”?

Damages define our border, all that matter forged in flame

Sono queste le parole con cui spegni ogni mia illusione. La sofferenza della separazione ci ha portati a elaborare il lutto nel liquido del tempo. Il dolore lascia spazio alla rabbia, la rabbia alla nostalgia, la nostalgia all’indifferenza. È più un ciclo di sopravvivenza che una vera cattiveria, ma è davvero doloroso accettarlo. Siamo animali fatti per amare. Siamo animali fatti per dimenticare.

Chit-Chat, Chit-Chat ain’t got no time for that

Le squilla il telefono. Risponde. È lui, l’altro. Le pupille le si dilatano mentre il tono della voce cala. Pochi istanti dopo è pronta a salutarmi con un bacio fugace, quasi raggiante: nessun rimpianto, nessun risentimento. È andata avanti. La saluto con la mano mentre lei già non può vedermi. Abbasso lo sguardo sulla schiuma rafferma ai bordi del bicchiere. Mi alzo, vado a pagare per scoprire che lo ha già fatto lei. Il cameriere mi chiede se è tutto ok. No, non è tutto ok. Sono stato tirato fuori dal mio cerchio perfetto e non so bene come rientrarci.

Mentre esco dalla luce fioca del locale per imboccare l’oscurità fuori, una voce dall’altro lato del chissà dove mi fa sussultare: – Be Patient…-.