Neil Young – Hitchhiker

Neil Young – Hitchhiker

Come si può scrivere di un album del Neil Young anni Settanta senza cadere nella più patetica retorica celebrativa? Non ci si riesce, semplice, perché per quanto si possa provare a separare i fatti dalle opinioni – andando contro il senso etimologico del concetto di recensione – di fronte a musica che poi è diventata storia e che ci troviamo di fronte per una strana casistica che l’ha preservata “semi-inedita” fino ad oggi, è inevitabile esprimersi con parole e toni già ampiamente utilizzati da altri in passato.

“Ready Briggs?”

Usiamo il presente storico. Sì, David Briggs è pronto alla consolle per registrare dieci performance in presa diretta di un Neil Young acustico che prova per la prima volta alcune delle canzoni destinate a diventare suoi classici, ma che negli uffici della Reprise sono valutate come demo-tape non pronti alla pubblicazione. E in parte hanno ragione.

Nel corso degli anni otto delle dieci tracce presenti in Hitchhiker sono state registrate nuovamente o editate per essere utilizzate in album successivi (la titletrack è venuta alla luce solo nel 2010 con il riverberatissimo Le Noise), mentre “Give Me Strength” e “Hawaii” sono rimaste inedite fino all’uscita di questa sessione avvenuta l’11 agosto 1976 all’Indigo Ranch di Malibu.

Zio Neil proviene dall’incredibile trilogia elettrica On the Beach – Tonight’s The Night – Zuma, che secondo più di una scuola di pensiero rappresenta il vero apice creativo dell’artista canadese, ma si trova a suonare con la sola chitarra acustica (eccezion fatta per la conclusiva “The Old Country Waltz”) come ai tempi in cui nascevano altri capolavori come After the Gold Rush e Harvest, di cui effettivamente, fosse stato pubblicato all’epoca, Hitchhiker sarebbe potuto essere l’atteso seguito ideale.

Le canzoni sono già tutte pronte per essere incise professionalmente, e Young – confesserà in seguito – le suona sotto la magica influenza di alcol ed erba. Anche per questo non si rende conto che quella registrazione è già di per sé un mezzo capolavoro (proprio i due brani rimasti nascosti risultano i meno interessanti della prestazione). D’altronde lo è quasi tutto ciò che tocca in quel periodo, ma nella sala prove di Malibu non c’è l’intenzione di incidere un disco vero e proprio, ma solo la voglia di provare le nuove “Pocahontas” e “Powderfinger”, e riascoltarle immediatamente su nastro. Eppure proprio per questo è incredibile, a rifletterci ora, che Young abbia sciorinato così, una dietro l’altra, una serie di gemme che solo in seguito sarebbero divenute famose, e che tuttavia ci appaiono oggi già pronte nella loro purissima forma essenziale. Quella in cui sono nate, al contempo così ruvida e intima, e così potente e sottile.

È la stessa forza che ti si abbatte addosso quando accendi lo stereo per suonare uno dei concerti degli storici archivi di quegli anni. Non ci siamo stancati di ripetere che i live al Massey Hall, al Cellar Door, alla Canterbury House sono alcuni dei migliori dischi dal vivo che si possa avere nella propria collezione. E di fatto, Hitchhiker si va ad aggiungere a questa lista, pur avendo avuto un solo spettatore, quel David Briggs che ne registra la performance.