9 Giugno 2018
Esattamente un anno fa, giorno più giorno meno, ero a Firenze a vedere i Radiohead con amici e amici di amici. Uno di questi, la mattina del concerto, si era presentato indossando la t-shirt di The Man-Machine: avrei mai potuto evitare di parlarne ed esprimere la mia adorazione per i Kraftwerk, uno dei gruppi più importanti in assoluto per il mio percorso musicale? I tedeschi avrebbero suonato al Club to Club pochi mesi dopo e il tizio mi aveva suggerito di andarci dicendomi che ne sarebbe valsa la pena. L’idea mi solleticava e mi sentivo un po’ in colpa nel rinunciarci, ma in effetti non era il momento buono, tant’è che avevo tentato di compensare meditando – e basta – l’acquisto del box set 3-D The Catalogue. Nel caso degli stessi Radiohead (con James Blake) avevo sentito di doverci essere, dopo aver già rinunciato a loro diverse volte, come se si fosse trattato di una cosa importante al di là del concerto in sé. Già. E quando ho letto che i Kraftwerk avrebbero portato il loro show 3D a due ore da casa, a Taranto, ho visto gli astri allinearsi e ho sentito quella famosa necessità di esserci. The time was right. Sono una persona estremamente razionale, a man-machine, pseudo human being, ma persino io finisco per seguire l’istinto, ogni tanto, e sapevo che sarebbe stato importante esserci anche questa volta, ad ogni costo, anche da solo, cosa che di solito non faccio. Già, parte seconda.
Quando avverto questo tipo di impulso, le località specifiche giocano un ruolo fondamentale. Per i Radiohead sarebbe stato molto più comodo raggiungere Milano, ma io avevo bisogno di essere a Firenze. E Taranto, invece? Magari la gente la associa subito alle vicende dell’Ilva, io invece al mio aver imparato a nuotare quando ero ragazzino. Non è avvenuto lì, ma la sua geografia ha giocato un ruolo chiave, risolutivo, nella success story privata in cui ho sconfitto quel piccolo trauma infantile che mi bloccava dal lasciarmi andare in acqua. Tralascio dettagli troppo personali ma il succo è che quella città, nel profondo, per me significa una sola cosa: learn to swim. Ringraziate che non vi tiri fuori il discorso “This is water” di David Foster Wallace.
E dunque show 3D dei Kraftwerk organizzato nel contesto del Medimex 2018, festival che ha animato Taranto per qualche giorno tra concerti, incontri, proiezioni e mercatini. In attesa del live non ho potuto fare a meno di andare a farmi spennare a qualche banchetto di venditori di vinili, intrattenendomi anche a parlare di sintesi analogica e FM con chi esponeva sintetizzatori ed effettistica. Realizzando che avrei finito per spendere una barca di soldi, ho tagliato la corda al secondo vinile messo in busta, soffrendo tantissimo per aver dovuto mollare lì una costosa copia di The Ape of Naples. Un paio d’ore dopo, occhialini 3D in mano, ero sotto al palco che occupava una parte della rotonda del lungomare, in seconda fila, dal “lato di Ralf”, e non capirò mai perché la gente si fosse ammassata subito dalla parte opposta rispetto all’unico superstite della formazione originale.
Due righe sul pre-Kraftwerk: tra le incursioni dei tipi di Lercio sul palco, dj set drum’n’bass di Roni Size con Dynamite MC e breve concerto samba-jazz-punk dei brasiliani Metá Metá. Il fatto di essermi divertito di più durante il set di Roni Size che con i tecnicismi raffinati dei brasiliani mi ha solo dato conferma di essere fondamentalmente un tamarro a cui piace il bass quando droppa. Un unico appunto per Dynamite MC, che poverino cercava un po’ inutilmente di scaldare un pubblico che si estendeva su tre generazioni e faticava a seguirlo: non si trattava per nulla di “music from the future” come continuavi a ripetere, ma te la perdono perché sotto le casse dell’innovatività dei generi musicali non te ne può fregar di meno, quando funzionano.
E poi ecco le famose quattro postazioni illuminarsi e muoversi in avanti, con la folla che finalmente manifestava entusiasmo vero. Ecco partire il ritmo di “Numbers”, e quattro uomini in tute munite di circuiti fluorescenti prendere posizione. Ecco sequenze di numeri comparire sullo schermo per poi abbandonarlo lanciandosi letteralmente addosso a noi, ricomparire, ondeggiare, confondersi, trasformarsi nella parola COMPUTERWORLD. Ho passato tutto il tempo a muovermi mantenendo un sorriso ebete, pensando a quanto fossi felice di essere lì, godendomi appieno la potenza sonora dei ritmi in uscita dalle casse, scansando l’antenna dello Spacelab, cercando di toccare l’astronave che ci ha sorvolato prima di atterrare in uno dei luoghi simbolo della città. Ruffianissimi loro nel decidere di fare questi montaggi, sì, ma i crucchi hanno ottenuto ciò che volevano: gli applausi e l’adorazione di una marea di gente divertita, che riconosceva e cantava le loro melodie, che ha giocato con loro dal primo all’ultimo minuto.
Parlandone il giorno dopo con gente a caso, ho scoperto che da lontano in realtà il volume non era abbastanza forte, però devo dire che dalle prime file è stata un’esperienza fantastica: le onde sonore di “The Man-Machine” me le ero sentite sia sopra che sotto la pelle, a scuotermi di dosso l’umidità del mare, e quando le vibrazioni erano meno intense allora la fresca brezza marina trovava spazio sufficiente per inserirsi e dare sollievo. E loro hanno suonato praticamente tutto ciò che avremmo potuto desiderare, da “The Model” a “Radioactivity”, viaggiando con loro nello spazio, in autostrada, sulle rotaie e su e giù per i monti in bici, e componendo canzoni con i numeri. Encore comprendente l’immancabile “The Robots”, che ha scatenato il delirio, e infine il conclusivo medley tra “Boing Boom Tschak”, “Techno Pop” e “Music Non Stop”. E mentre tutto il pentagramma bucava lo schermo e i nostri occhialetti, i quattro robot hanno lasciato il palco uno per volta, a distanza di paio di minuti l’uno dall’altro: la postazione abbandonata terminava di produrre suoni, inchino del proprio operatore e via. Solo Ralf si è trattenuto di più per darci la buonanotte e raccogliere tutto l’amore che il pubblico aveva da manifestare per la sua creatura. Doppio inchino prima di sparire nell’ombra. Sullo schermo erano ancora proiettati due occhi penetranti mentre la voce ripeteva “Music. Non stop. Music. Non stop.” iniziava ad affievolirsi insieme ad essi, a musica ormai ferma. Meraviglioso. Tutto assolutamente meraviglioso, coinvolgente, vicino. L’unico problema è che ora sarà difficile riascoltare i dischi dei Kraftwerk nella dimensione domestica, ci ho provato e the pelle d’oca is real, ma manca il coinvolgimento di un live che è stato profondamente fisico, nonostante loro quattro siano rimasti fermi dietro le loro postazioni per tutto il tempo. Ma in fondo che importa, la musica elettronica mica è fatta per smuovere sentimenti, no?
Al riaccendersi delle luci avevo in mente una sola parola, “wow”, e l’esaltazione che sentivo in quel momento continua a seguirmi anche mentre mi ingegno nel tentativo di fissare quelle sensazioni in parole e paragrafi. Circa dieci secondi dopo essermi allontanato dalla transenna mi sono fermato e ho letteralmente abbracciato il momento, fortissimo. E il momento ha risposto cercando di trattenermi lì con tutte le sue forze. Un cosa spontanea, intensa, pacifica e liberatoria, e non ho neanche dovuto chiudere gli occhi. A chiudersi, piuttosto, è stato un cerchio. Se ne sentiva il bisogno. So lucky.