31 Marzo 2021
Accade che alcune strade vadano ad intersecarsi in un sol punto. Il miglior punto possibile, direbbero alcuni. Gli Slowdive sono la scia luminosa, eterea e sfaccettata che ha origine in questa intersezione. Due ragazzini, amici dalla tenerissima età, vogliono fare musica insieme. Ciò che vogliono creare non è solo il risultato dei loro ascolti, né il prodotto del loro contesto. Vogliono di più. Amano i Cure e la musica classica, i Cocteau Twins e il punk londinese, ovviamente i Velvet Underground. Ma soprattutto, hanno le spalle poggiate ad un muro di suono appena costruito. Si tratta dello shoegaze – benedizione e malocchio della loro carriera – ben rappresentato in quegli anni da Isn’t Anything e The Comforts of Madness principalmente, ma anche dai primi vagiti dei Ride. Questi ultimi, assieme ai My Bloody Valentine, costituiranno una prima influenza nella produzione della band, principalmente per via del background culturale di due membri entrati nei primi anni di vita della formazione, il chitarrista Christian Savill, all’epoca redattore di una fanzine sulla band che avrebbe composto l’album più importante degli anni Novanta, e il batterista Simon Scott (a partire dal terzo EP, Holding Our Breath), proveniente da un gruppo spesso spalla dei Ride.
Il gruppo sarà destinato, con le sue intuizioni di rara e mai irruenta urgenza espressiva, a risultare prototipo per infiniti successori (e sostenitori). Un’epifania sognante e stralunata rintracciabile in particolar modo nei Sigur Rós (il legame tra Agætis Byrjun e Pygmalion è lampante), nonché in buona parte della scena gothic e post rock in generale. I primi EP sono un mezzo successo di critica, che vede nella band l’ideale contraltare all’aggressività rock. In pieno periodo post punk, il bisogno di sonorità meno spigolose aiuta gli Slowdive ad emergere e a firmare il primo contratto con la Creation Records, etichetta che accompagnerà tutt’altro che in sordina il percorso del gruppo, portandolo all’esasperazione e al definitivo scioglimento nel 1995. L’obiettivo principale dell’articolo non è però quello di raccontare minuziosamente il controverso rapporto con la label in questione, che pure verrà tirato più volte in ballo, ma disporre ordinatamente la straordinaria discografia della formazione di Reading, dagli albori alla recente reunion.
4. Slowdive (2017)
Confessiamo di aver temuto un’ennesima inutile reunion quando abbiamo saputo che i ragazzi stavano registrando nuova musica. D’altronde i progetti portati avanti da Neil e Rachel nel corso degli ultimi vent’anni, Mojave 3 inclusi, non sono mai sembrati del tutto riusciti. Qui la forma canzone, più che alla destrutturazione di Pygmalion, si avvicina al concetto sonoro proposto in Souvlaki, con risultati meno compressi. Fino all’uscita di M B V dei My Bloody Valentine in tanti dicevano di fare shoegaze, fino a quando non sono tornati loro a dire cosa è shoegaze e cosa non lo è. Gli Slowdive ne offrono una variante intrisa di dream pop di scuola Cocteau Twins e psichedelia che in pochi hanno osato replicare, e se non spariscono di nuovo come hanno fatto Shields e soci, potrebbero rilanciare da qui il loro percorso.
Key Tracks: Slomo, No Longer Making Time, Falling Ashes
3. Souvlaki (1993)
E allora diciamolo: no, Souvlaki non è il capolavoro degli Slowdive. Nonostante ciò, è comunque un capolavoro. Messi sotto pressione dalla Creation, i nostri provano ad ammorbidire il loro suono, cercando melodie più semplici rispetto a quelle impalpabili e quasi subliminali di Just For A Day. In parole povere, questo è il disco pop della band di Reading. Sarebbe ingiusto però parlare di banalizzazione del sound, perché le atmosfere sono sempre dilatate ed oniriche, e qui sono presenti alcune delle canzoni più amate del loro catalogo. Nella musica degli Slowdive è molto importante la componente ambientale, come dimostra anche la presenza del maestro Brian Eno, che qui suona le tastiere in due pezzi. La tracklist è coerente e lineare, ma presenta anche una notevole varietà, passando dal battito dub della (quasi) title track al folk di “Dagger”, che anticipa alcune soluzioni dei Mojave 3. L’album venne massacrato dalla critica, ancor più dell’esordio. A distanza di anni, possiamo dire con assoluta certezza che Souvlaki si è preso la sua rivincita.
Key Tracks: Alison, Here She Comes, Souvlaki Space Station
2. Pygmalion (1995)
Nel 1995 la Creation Records ha ormai rivisto notevolmente le sue priorità. Entrata a far parte dell’universo Sony, l’etichetta che aveva fatto la storia dell’indie inglese non sa più che farsene di una band come gli Slowdive. La nuova sensazione è il britpop, che sta per seppellire definitivamente gli ultimi rimasugli di shoegaze, e McGee dà al gruppo un ultimatum: un disco pop o la fine del rapporto. Ma Halstead e soci non hanno nessuna intenzione di rinunciare alla loro identità ed alle loro idee, e per tutta risposta danno alle stampe il loro album più astratto. Lo sguardo è rivolto all’elettronica (come dimostrano anche i pezzi ambient techno di 5 EP) ed al nascente post rock, non di certo alla ricerca della melodia ruffiana. Gli Slowdive, messi con le spalle al muro, alzano la posta e si tuffano nel vuoto, in uno spazio musicale indefinito. È un lavoro coraggioso, affascinante e, col senno di poi, un’opera capitale per tanta musica successiva.
Key Tracks: Rutti, Crazy For You, Blue Skied An’ Clear
1. Just For A Day (1991)
Ci troviamo di fronte ad uno di quei lavori che, pur non avendo mai raggiunto un pubblico vasto, definire seminale è davvero il minimo complimento che gli si possa attribuire. Soffice, misterioso, etereo grazie alla voce di Rachel Goswell, Just for A Day è formalmente l’autentico vertice di una stagione del rock e di una poetica tutta, l’opera in grado di presentarsi al nuovo decennio senza rinnegare l’esperienza di quello precedente. Come un gatto che si estranea per rifugiarsi a riposare nel suo cantuccio preferito, l’ideale ascolto di un disco simile richiede uno spazio in cui si è allo stesso tempo liberi e vulnerabili. Ad esempio stare da soli in una stanza, camminare e non pensare altro che a sé stessi. Poi di colpo qualcuno entra e ti fa cadere dalle nuvole, cogliendoti così indifeso a sognare chissà cosa, così ingenuo prima di tornare a razionalizzare, e prima di domandarti se sarai sempre così. Il finale culmina in una combinazione vocale alchemica, e lascia l’ascoltatore senza una soluzione ultima all’enigma di questa musica celestiale. L’unica certezza resta la possibilità di potervi ritornare e provarci di nuovo, per sempre.
Key Tracks: Spanish Air, Catch The Breeze, Brighter