30 Novembre 2017
Ormai è pacifico che Björk la puoi paragonare solo a Björk, tuttavia Utopia, il suo nono album, non assomiglia a nulla del suo vecchio catalogo. Certo semmai che si tratta di un’altra opera che se ascolti non è per il gusto melodico di qualche traccia o perché segue un continuum sonoro ben lineare, del tipo che se ti piace un pezzo, ti piacerà anche quello successivo. E né perché crea chissà quale atmosfera o immaginario: se ti ci avvicini sperando di trovare scorci di Islanda e/o folklore scandinavo generico, resterai facilmente deluso. Semmai, nonostante la difficoltà d’ascolto, clicchi sul tasto play perché vuoi farti questo e perché sai che dentro c’è un messaggio che vale la pena indagare. D’altronde lei è una delle più grandi di sempre, e non si può fare a meno di ricordarlo ad ogni occasione, anche quando il punteggio, come in questo caso, non è di quelli con cui segnaliamo il capolavoro.
Ricercando le sensazioni di quando vivevamo l’uscita di un suo disco a cavallo tra i due secoli, tra Post e Medùlla, pare di ricordare che avevamo inserito il folletto islandese nel gruppo di ascolto che comprendeva anche Depeche Mode, Air, Radiohead, Massive Attack, Portishead, Laika. Ci piaceva lei, e ci piaceva certa roba. Oggi più che mai, invece, Björk fa genere a sé. E certo che la morte di Mark Bell, stretto collaboratore in studio sin dai tempi di Homogenic (nonché mente del progetto techno LFO), l’ha portata via via sempre più lontana da quella musica.
Se nel tempo ha sempre utilizzato basi elettroniche al passo, coadiuvata di volta in volta da musicisti e producer del momento, e orchestrazioni sinfoniche da camera che pure nella forma canzone non risultavano mai troppo compresse, Utopia si spinge in un’altra direzione, seppure sempre nel segno di un art-pop molto personale. Forse titolo più icastico non poteva scegliere, al di là di quelli che possono essere i contenuti lirici, che onestamente lasciamo a voi decifrare. Il protagonista è il flauto, ovvero lo strumento con cui si è avvicinata alla musica, qui suonato anche da altri 13 musicisti, inclusa Pamela De Sensi, flautista calabrese trasferitasi da anni nella terra del ghiaccio.
Björk è intoccabile, irraggiungibile e ostinata, ed è chiaro che prima di tutto fa musica per se stessa. L’ascolto dei suoi ultimi album, però, non è sempre così piacevole. Anzi, che abbia scelto il flauto come strumento principe del disco, è mossa sia originale che molto straniante. Insomma, anziché lavorare sugli archi e i bassi come per esempio i Radiohead, lei ha scelto il flauto. In effetti lo strumento a fiato, sinonimo di rischio sbrodolamento prog per eccellenza e suonato in varie tracce per accompagnare i gargarismi vocali, non è la cosa più semplice da digerire, soprattutto se distribuito in tali dosi. Allo stesso tempo, nelle canzoni c’è sempre tanta poesia, elevazione spirituale, visione illuminata. C’è il rispetto che le devi perché è Björk e sai che incide musica con una ragione profonda, sempre e comunque.
Il problema è che vicino ai capolavori del passato, che almeno in termini assoluti, sono i soli a cui puoi provare confrontarlo, Utopia paga molti dazi. Sarà diverso, sarà un altro pezzo d’arte, sarà una donna nuova oggi, però Björk l’abbiamo sentita più ispirata in passato. Adesso, oddio… da Medùlla incluso in poi, ha deciso di stupire sempre e comunque, e non ci pare che le riesca benone. Anche in passato voleva essere avanti, ma effettivamente lo era e con gusto melodico. Adesso pare forzare un po’ troppo le sue qualità uniche per un fine che non è sempre apprezzabile. Da Medùlla c’è un declino progressivo che Utopia riesce parzialmente a spezzare, eppure la nostra sembra tirarsela sempre di più. “Hyperballad”, “Unravel”, “Pagan Poetry”, “Hidden Place”…. Björk è capace di melodie simili, ricordiamocelo. Va bene tutta la sperimentazione di questo mondo, ma in Utopia di pezzi pari livello non ce ne sono.
Insomma Björk ti fa pagare caro il biglietto. Il fatto che sia un’artista superiore, molto superiore, lo senti come un peso anziché una goduria per le orecchie. Vi invitiamo a riascoltare Post, Homogenic a Vespertine. Pensate se uscisse oggi con roba così, ma chiaramente aggiornata ai suoni e alle possibilità di oggi. Verrebbe giù la muraglia cinese, si scquaierebbe la Tour Eiffel, Berlusconi vincerebbe le elezioni.
Segnaliamo tre brani in particolare. Quello di apertura, “Arisen My Senses”, che setta l’umore dal principio, quello di chiusura, “Future Forever”, formalmente la migliore, e soprattutto i 9 minuti e 47 di “Body Memory”, per la serie, se dobbiamo farci del male, facciamolo e basta, senza alcun compromesso. Forse basterebbe ascoltare solo questa traccia per spiegare tutto Utopia.
Non è uno scherzo. Pare sia in arrivo una versione live dell’intero albo, che presenterà arrangiamenti con i flauti ancor più protagonisti. Noi però ve lo diciamo subito, siamo a posto così.