Arctic Monkeys – The Car

Arctic Monkeys – The Car

Arctic Monkeys: odi et amo.

Dagli esordi fulminei su Myspace al successo planetario di Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not (un milione di copie in meno di otto giorni e tanti saluti al precedente record degli Oasis), di acqua sotto i ponti ne è passata, e anche molta, ma da quegli esordi miracolosi un quesito serpeggia fino ai giorni nostri tra i detrattori della band: Ma gli Arctic Monkeys, ci fanno o ci sono?

Dopo sette dischi si può dire che ci fanno, e ci fanno eccome i non più giovani di Sheffield, sempre più a loro agio con gli abiti ben stirati di alfieri del pop di classe in un’evoluzione, a dirla tutta, cominciata da Suck It And See e poi deflagrata definitivamente in Tranquillity Base Hotel + Casino, tra immaginari in Super 8, orchestrazioni lenticolari e Old Grey Whistle Test. Figlio legittimo del precedente e già citato Tranquillity, The Car è il disco che ci aspettava dagli AM, tra strizzatine di occhio agli Steely Dan (Hello You sembra uscita dritta da Pretzel Logic), Elton John (sentite anche voi quel languorino di Bennie And The Jets nell’incipit di There’d Better Be a Mirrorball?e agli immancabili quattro di Liverpool. Voce arrangiamenti? Raffinati, mai caciaroni, sempre al posto giusto come in Body Paint e i suoi Wall of Sound Spector-iani, Jet Skies on The Moat che sembra uscita dritta dalle mani di Todd Rundgren o Perfect Sense, elegante e malinconica chiusura dei lavori. Tutto memorabile? No, ovviamente: ci sono dei passaggi in cui gli Arctic Monkeys cadono in tentazione e Semo fighi, semo belli semo Fotomodelli e inciampano, gigioneggiando anche senza troppa convinzione in Big Ideas e I Ain’t Quite Where I Think I Am, le classiche tracce di troppo che poco aggiungono all’economia di un disco che ne avrebbe fatto volentieri a meno.

Sulla scia di Tranquillity Base Hotel + Casino, The Car è un buon disco di pop fatto e suonato bene che, diciamocelo chiaramente, è già di questi tempi una cosa non da poco.