27 Febbraio 2022
Abbiamo ordinato Time Skiffs, l’undicesimo LP degli Animal Collective, lo scorso novembre, direttamente sul sito della Domino.
Mentre scriviamo l’albo è fuori da quasi un mese, e del CD pre-pagato ancora non c’è traccia. Sarà per via della Brexit visto che la Domino spedisce dal Regno Unito, sarà perché le poste sono sempre in ritardo. Sta di fatto che ormai non conviene più andare di pre-order per essere tra i primi a compiere il sacro rituale dell’ascolto dalla copia originale del disco di una band che ammiri da tanti anni, perché tanto l’ultimo cretinetti lo ascolterà e commenterà prima di te, masticandolo e sputandolo in una manciata di minuti grazie ai portali di streaming. Chi crede di dover possedere una copia fisica di un disco, oggi è penalizzato sempre e comunque.
Questo però non ci indispettisce rispetto all’artista e quindi non deve inficiare sul giudizio di lavoro lungamente atteso, perché dopo il tonfo (si può dire?) di Painting With (2016), e a parte qualche trovata sperimentale di poca utilità, i due motori della band hanno prodotto due episodi solistici di grande ispirazione, che ci hanno fatto credere che forse ci sarebbe stato un ulteriore grande album degli Animal Collective. Così è, parzialmente.
È chiaro già durante il primo ascolto che se il metro di paragone è Merryweather Post Pavilion (2009), l’iconica summa del percorso del primo decennio di vita del combo di Baltimora, Time Skiffs non riesce a tenere botta, soprattutto in termini di songwriting. MPP non era un album arrangiato splendidamente (tutt’altro!), ma aveva dalla sua delle melodie che riuscivano ad emergere dalla confusione della performance – gli Animal Collective, non ce ne vogliano, non sono i King Crimson – e ad alzarsi libere nell’aria. Ancora oggi ti parte il battimano se ripensi a My Girls.
Time Skiffs è invece arrangiato con buona calibrazione e mixato anche meglio (complimenti alla nostra Marta Scalogni), ma solo alcune delle sue canzoni possono dirsi pienamente riuscite dal punto di vista corale e quindi melodico. Il singolo Prester John è certamente una di queste tracce, e uno dei vertici assoluti della loro discografia: c’è un po’ tutta la loro poetica nel testo, c’è un impianto vocale in cui Deakin, Avey Tare e Panda Bear si dividono perfettamente i compiti, mentre il basso regge in piedi tutta la struttura. Stupenda.
Altri pezzi hanno bisogno di svariati ascolti per mostrare tutte le loro carte ed essere goduti a pieno. Se Strung with Everything sembra più vicina ai tempi di Strawberry Jam, un po’ anonima è invece Walker, dedicata da Lennox a Scott Walker, che non sembra aver né nerbo né materia da approfondire. Cherokee è accomodante, ma rimane un sottofondo lineare.
L’atmosfera trasognata di Passer-By è anch’essa intermezzo acquiescente prima del refrain di We Go Back, invero un bel flashback che riporta agli AC dei vecchi tempi, e un altro vertice di Time Skiffs, assieme anche agli intrecci vocali di Car Keys, nella prima parte del disco. Il tutto però porta quasi al rallenty fino alla coda di Royal and Desire: non ci sono più gli attacchi isterici e caffeinati di Avey, ma nemmeno gli slanci spirituali e psichedelici di Panda Bear.
Tutta la seconda metà della parata sembra galleggiare in una comfort zone che certo non può definirsi sperimentale, né particolarmente innovativa per la band, ma che ti mantiene al sicuro, convinto che sì, gli Animal Collective sono diventati adulti e che ti trovi sempre in buona compagnia con loro, ma anche che no, non ti fanno più alzare dalla sedia per unirti al loro coro: vogliono che te ne stai seduto a riflettere piuttosto. Quel che è stato è stato, ed è stato bello che sia veramente accaduto. Ripensaci. Tu c’eri.