25 Aprile 2017
D’accordo, non sono propriamente grunge e a Seattle non si sono mai trasferiti, nonostante i cordiali inviti dei boss della Sub Pop Pavitt e Poneman, ma quando provo a incolonnare le mie band preferite di quel periodo, gli Afghan Whigs finiscono puntualmente sul podio. Eppure non posso dire di averli capiti quando andavano vissuti, o vissuti quando andavano ancora capiti. Già perché 1965 mi ha allontanato per parecchio tempo dai progetti di Dulli quando ancora dovevo finire di decifrarli, e perché della reunion di questi ultimi anni, onestamente, c’è poco da capire. Il nuovo In Spades, in uscita in questi giorni ancora su Sub Pop, è un album che non può sprizzare energia sensuale e soul, e non ha la carica violenta/alticcia dei giorni migliori. Se ne parliamo, tuttavia, non è perché la nostalgia di quando eravamo anche noi giovani e incoscienti ha preso il sopravvento, ma perché pure coi capelli bianchi e in evidente sovrappeso, i ragazzotti di Cincinnati riescono ancora a consegnare un pugno di canzoni orecchiabili e ruvide il giusto per farsi apprezzare da chi ha perlomeno continuato a seguire le vicende dei Twilight Singers, invero band piuttosto sottovalutata e che avrebbe potuto vedere il proprio Blackberry Belle in TOP 100 anni ’00, e forse vero punto di riferimento del nuovo tomo.
Abbiamo dieci nuove canzoni registrate tra New Orleans, Los Angeles, Memphis e Joshua Tree, in cui, almeno a parole, l’ascoltatore è invitato ad aprirsi a un mondo di metafore scure ed immaginari spettrali. Tranne che nel brano “Light as a Feather”, ogni residuo di funk o di rilettura sporca dei classici soul è ormai sparito. Il basso di John Curley non è dunque protagonista come in alcuni dei pezzi simbolo del gruppo (il solo ripensare alla sua performance in Gentlemen e Black Love rilascia ancora tanto godimento), ma prende il suo posto nel fluido sonoro assieme agli altri strumenti, senza mai prevaricarli. La scrittura di Dulli non può essere quella dei vecchi tempi, ma ci sono almeno tre brani che non sfigurerebbero in una possibile selezione col meglio degli Afghan Whigs. Tra queste citiamo sicuramente la conclusiva “Into the Floor”, che ragazzi, a noi sa tanto di Afterhours (come se non fossero in realtà gli Afghan una delle band più influenti sulla musica di Agnelli e Iriondo), e il singolo “Demon in Profile”, che cresce e trova ritmo in tempo dispari sopra a un giro di piano neanche così già sentito. Non sarà la nuova “How Soon Is Now?”, ma la stessa “Arabian Heights” è comunque elemento portante di questo In Spades, e nondimeno superiore all’offerta media dell’hi-fi rock attuale.
Se l’amico e compagno di avventura (dark) Mark Lanegan ha da poco rilasciato uno dei suoi migliori dischi in assoluto, lanciando ancora più in là il pallone, su un ulteriore campo da gioco, non possiamo dire lo stesso per il buon Greg che pure dopo il dignitoso Do the Beast, riesce con In Spades a infilare una decina di pezzi ben arrangiati che tutto sommato seppure non aggiungano chissà che al resto della discografia, tengono sicuramente vivo l’interesse su un artista che ha raccolto molto, molto meno di quel che meritava.