Nick Cave and the Bad Seeds – Skeleton Tree

Nick Cave and the Bad Seeds – Skeleton Tree

Skeleton Tree è il nuovo album di Nick Cave e accompagna il documentario One More Time With Feeling di Andrew Dominik, girato in bianco e nero 3D e recentemente presentato fuori concorso alla 73esima edizione del Festival di Venezia.
Più che un filmato di carattere informativo, One More Time With Feeling è per forza di cose divenuto qualcosa di molto più poetico, dato lo sfondo tragico che ha ispirato la composizione e la registrazione dell’album. Ma la grandezza del regista e di Cave è stata quella di non limitarsi a un elogio funebre e alla documentazione del dolore, ma di infondere di riflesso nel film e nel disco tutta la drammaticità di una delle vicende più terribili che possano capitare a un uomo, ovvero la morte prematura di un figlio. 

È chiaro che rispetto ai momenti migliori, agli apici della discografia di Nick Cave, Skeleton Tree si presenta meno viscerale e spontaneo, e più meditativo che mai. Piano, sintetizzatori, qualche altro gingillo elettronico, poche percussioni e pressoché niente strumenti a corda: questa la nuova ricetta sonora che si potrebbe definire ambient blues, o confessional ambient. C’è molta elettronica in questa che sembra essere l’apertura di una nuova fase per l’artista australiano e la sua band, che tuttavia negli anni ha perso i suoi uomini migliori. Ormai i Bad Seeds non ci sono più: Blixa Bargeld e Mick Harvey hanno da tempo lasciato la compagnia cantante, così Warren Ellis ha preso il sopravvento, nel bene e nel male. 
Ma sono discorsi che seppure non possono essere trascurati, appaiono quasi irrispettosi al cospetto di un’opera così profonda e soprattutto del dolore di un uomo che ne ha vissute talmente tante che forse non si aspettava più di essere sorpreso dalla vita, tanto che è stato sorpreso dalla morte. 

Skeleton Tree brilla di una luce buia tutta sua, sia nei momenti più narrativi come la doppietta iniziale (per “Rings of Saturn” possiamo quasi parlare di rap bianco), sia in quelli più statici come “Magneto” – in cui torna in mente il Mark Hollis solista – o il duetto new age druidico con la soprano danese Els Torp in “Distant Sky”. Tutti brani che non parlano della tragedia, ma che interpretati come sono, trasudano tutto il patimento interiore di Cave. Il pezzo più orecchiabile è certamente “I Need You”, tanto disperato quanto corale da risultare facile da memorizzare, mentre la titletrack recita sommessa l’ineluttabilità del dolore “I called out, I called out / Right across the sea / But the echo comes back in, dear / And nothing is for free”.

L’atmosfera generale non si avvicina a niente di precedente nella discografia di Cave. Certo nessuno dei suoi lavori tetri e posseduti, ma neanche album più introspettivi come The Boatman’s Call (1997) o No More Shall We Part (2001) – senza andare troppo indietro nel tempo – possiedono la drammaticità di Skeleton Tree, che pure altrimenti, studiando i testi, non sarebbe neanche un disco dark. Mancherà il peso specifico dei tempi d’oro, e soprattutto la voglia di fare arte coi Bad Seeds dei primi anni Novanta, ma in termini di qualità delle composizioni Skeleton Tree è quantomeno il migliore dal 2003 ad oggi, Grinderman inclusi.

Questo è l’anno dei miti del rock che tornano in piena forma. L’epitaffio di David Bowie, poi il ritorno ambient di un intellettualissimo Brian Eno, adesso un clamoroso Nick Cave (e volendo ci mettiamo dentro anche la colonna sonora di The Childhood of a Leader firmata da un altro veterano, Scott Walker)… è l’annata del ritorno dei giganti. Forse non è più impossibile fare dischi di grande intensità in vecchiaia. Chissà che non si ripresenti anche qualche altro dinosauro scongelato da qui alla fine di dicembre…