Top 100 Anni ’70

100. Ultravox – Ha! Ha! Ha! (1977) Ponte tra il glam rock dei primi Roxy Music e la new wave, Ha! Ha! Ha! si rivelerà, insieme agli altri due ad opera di questa prima incarnazione del gruppo, essere un disco di importanza capitale per la musica a cavallo tra fine anni ’70 e anni ’80. La formula di John Foxx e compagni raggiunge qui una sintesi perfetta tra aggressività, punk e istanze avanguardistiche. Tra feedback e chitarre spigolose, sintetizzatori tonanti e un utilizzo peculiare del violino, Ha! Ha! Ha! è un disco senza compromessi. Non stupisce, date queste premesse sui suoni, ritrovare nei testi descrizioni di vite derelitte in quella sorta di decadentismo industriale delle città dell’epoca. Menzione a parte merita “Hiroshima Mon Amour”, la più elettronica (ed europea) del lotto, che anticipa di qualche anno l’ondata new romantic. E’ probabilmente il brano più seminale dell’album. Mai considerati dalla critica quanto avrebbero meritato, a volte addirittura osteggiati e considerati pretenziosi, gli Ultravox sono invero un gruppo imprescindibile se si vuole capire il post punk. 

99. Traffic – John Barleycorn Must Die (1970) Purtroppo tutti si ricordano dei Traffic per “John Barleycorn”, cioè la quasi-titletrack del loro secondo disco, e non per il resto del suddetto disco. Curioso perché, mentre “John Barleycorn” è un traditional folk inglese lasciato praticamente intatto dalla band, il resto di John Barleycorn Must Die è un mix esplosivo di jazz, r’n’b e rock, suonato con perizia estrema e incredibile gusto melodico. I pezzi esclusivamente strumentali, come l’opener “Glad”, riescono a mantenere la tensione sempre alta, senza mai perdersi in divagazioni o sbrodolate, ma è quando entra la voce di Winwood, magari accompagnata dal sax come in “Freedom Rider”, che i Traffic dimostrano tutta la classe dei grandi. Non mancano tocchi barocchi o arrangiamenti eccessivi lungo l’arco del disco, che comunque risentiva necessariamente delle influenze del nascente progressive rock inglese. Piuttosto che scadere nell’orchestralità e nelle sbrodolate, però, i Traffic si sono sempre mossi sul versante del jazz rock, dimostrando che i primi anni ’70 avevano in loro i germi della grandezza, prima che il cattivo gusto prendesse possesso delle menti dei protagonisti di quell’epoca.

98. Bruce Springsteen – Born to Run (1975) Bruce Springsteen non era più il ragazzo di paese affascinato dalla grande città di Greetings from Asbury Park, NJ: in quella grande città si era ritrovato a vivere, a inseguire i suoi sogni e a scontrarsi con le inevitabili delusioni, insomma a crescere. Questo suo per così dire romanzo di formazione segna quindi il passaggio metaforico del fiume che divide il New Jersey dalla Grande Mela; passaggio che segna la morte dello spirito guascone e menefreghista che tutto sbeffeggia e tutto travolge. Si vivono sempre le stesse situazioni quali corse in macchina, vita notturna e amori assoluti e salvifici, ma viene instillata nei testi una sensibilità romantica e agrodolce, un sentimento di perdita e una visione della realtà meno romanzata e non necessariamente con il lieto fine. Il futuro su cui si fantasticava si sta trasformando in un presente che non sempre soddisfa le attese ed il Sogno Americano (con il suo credere che ogni possibilità sia una promessa) non trova sempre corrispondenza nella realtà.

97. Big Star – 3rd (1978) I Big Star fanno un pop a base di melodie cristalline, arrangiamenti elaborati e atmosfere sognanti che nel corso degli anni ha infatti trovato più di un proselite. Curioso che tutto questo sia avvenuto per lo più in terra anglosassone, essendo loro una band americanissima, senza dubbio attenta alle novità portate dalla British invasion degli anni ’60 e dal glam, ma assai vicina anche al garage rock e al jingle jangle californiano, oltre che alla lezione dei Velvet Undeground, dei quali hanno saputo regalare una versione di “Femme Fatale” forse ancor più riuscita dell’originale. Third, disco pubblicato solamente nel 1978 pur essendo stato composto ben quattro anni prima, rappresenta, anche grazie all’eccezionale lavoro svolto in fase di produzione da Jim Dickinson, il loro parto musicale più compiuto. Davvero difficile trovare un punto debole in questo album, in cui Chilton e soci si dimostrano capaci di spaziare con assoluta naturalezza dal delizioso pop orchestrale di “Stroke It Noel” alle atmosfere eteree di “Kangaroo”, passando per il trascinante power pop di brani come “Kizza Me” e la cupa desolazione “Holocaust”, pezzo scandito dai gelidi rintocchi di un pianoforte che potrebbe esser stato composto dal Thom Yorke più allucinato. 

96. This Heat – This Heat (1979) L’omonimo debutto dei This Heat, per quanto debitore dell’opera dei Throbbing Gristle, risulta più mirato ad una colta ricerca del suono che allo stupro psicologico. Sul piano puramente stilistico, la qualità delle registrazioni racchiuse in questo album non ha nulla da invidiare alle migliori prove dei campioni dell’industrial. Loop di nastri, sovraincisioni, distorsioni, improvvisazione, tagli, percussioni tribali. Elementi molteplici si accavallano, si lacerano a vicenda senza soluzione di continuità, rotolando su se stessi al buio. Kraut, jazz, drone, elettronica: una sintesi ossessiva, la genesi di un maniaco sonico. Fugaci come una meteora, la manciata di registrazioni che i This Heat hanno dato alle stampe è più che sufficiente a farli entrare nella storia. Oggi, come e più di allora, è il caso di riscoprire i This Heat e dare loro il credito che si meritano. Silenziosamente, la formazione inglese ha tracciato la via che solo trent’anni dopo si è cominciata a seguire. 

95. Siouxsie and the Banshees – The Scream (1978) Curiosa la storia dei Siouxsie and the Banshees, una delle band seminali del movimento dark wave. Si formano per suonare ad un festival punk nel 1976, e la primissima formazione comprende la cantante Siouxsie Sioux (al secolo Janet Susan Ballion), Steven Severin al basso, un certo Sid Vicious alla batteria e Marco Pirroni (che lavorava come commesso nel Sexy Shop di Malcolm McLaren) alla chitarra. 20 minuti di furiosa performance, inclusa una rivisitazione in chiave punk del Padre Nostro. Con John McKay e Kevin Morris in luogo di Pirroni e Vicious, partecipano a due registrazioni del John Peel Show, ma falliscono nel raccogliere attenzioni da parte dei discografici: un’occasione persa che poteva costare ai Siouxsie il loro posto nella storia del rock. Ci vuole un singolo eccezionale uscito al momento giusto come “Hong Kong Garden” – che arriva addirittura nella Top 10 britannica – per mantenerli in pista e portarli a registrare il capolavoro The Scream, che mette in luce tutte le qualità della formazione londinese. Non solo punk primordiale, ma anche vaghe visioni psichedeliche che distinguono la prima creatura dalle produzioni degli idoli della scena e che contribuiscono a formare quel setting oscuro di lì a poco destinato a diventare vera e propria corrente a sé. Lasciando da parte il pur essenziale discorso sull’estetica di Siouxsie, che verrà presa da modello da innumerevoli altri attori dark, allora come oggi spesso inconsapevolmente, ciò che rende i Banshees ancor più distanti dal resto delle formazioni punk dell’epoca è la capacità di tessere canzoni pop articolate, magari meno d’assalto, ma suonate con perizia e soprattutto interpretate con un incredibile fascino gotico. Assieme a Juju, The Scream è rimasto il disco simbolo di una formazione che troppo spesso, forse per l’amicizia e le collaborazioni con Robert Smith dei Cure, viene associata ai soli anni Ottanta.

94. Yes – Close to the Edge (1972) Il progressive rock è sempre stato un genere controverso. Se all’inizio, infatti, venne visto come una vera e propria rivoluzione, in seguito all’avvento del punk quasi tutti gli artisti del genere vennero immediatamente bollati come anacronistici, troppo accademici, lontani da quello spirito eversivo che aveva caratterizzato la musica rock degli albori. Oggi, a tanti anni di distanza, si assiste a una rivalutazione in negativo di alcuni dischi di quella stagione del rock una volta considerati capolavori indiscutibili. Questo non sembra riguardare però Close to the Edge. Registrato dagli Yes con la loro formazione migliore di tutti i tempi (la stessa del precedente, ed altrettanto buono, Fragile), questo LP è un miscuglio di generi tanto eterogeneo quanto perfettamente coeso. I diciannove camaleontici minuti della titletrack, le acrobazie strumentali di “Siberian Khatru” e l’incedere ipnotico di “And You And I” rappresentano senza dubbio una tappa fondamentale per tutti gli ascoltatori vogliosi di avventurarsi nelle sabbie del prog. 

93. Crass – Stations of the Crass (1979) Dire chi fossero i Crass è senza dubbio più facile oggi che non all’epoca (“We weren’t a band. We never were a band. I don’t think we even saw ourselves as a band”), quando la gente entrava liberamente nella sala prove. Ragazzacci disagiati secondo molti, geni rivoluzionari per altri. Il contesto specifico invece è quello della Dial House, una sorta di comunità aperta o, come gli occupanti stessi solevano definirla, “anarchy centre”, ritrovo non solo occasionale per alcuni reietti del punk, quelli che già poco dopo il famigerato ’77 ritenevano esaurita quella sterile vena creativa. Stations of the Crass vede la luce nel ’79, un anno dopo l’EP d’esordio, rivelandosi ancora più devastante: con le sole armi della musica e della parola dissacrerà non solo stilemi e vizi della società ma anche quelle stesse persone che si erano poco prima erte al ruolo di dissacratori.

92. Pink Floyd – Animals (1977) Mentre fuori impazza la furia punk e Johnny Rotten fa bella mostra della maglietta “I hate Pink Floyd”, esce Animals, decima fatica su formato full lenght per la band di Londra. Il disco con cui gli equilibri (già precari) dei Pink Floyd vengono meno, e con cui prende il sopravvento la figura di Roger Waters, con un Gilmour già remissivo nei confronti della leadership del gruppo. La rottura che porterà poi a quel famoso The Wall, dove il signor Waters non fece mettere mano alla composizione in nessuna delle sue parti agli altri tre, che diventarono praticamente semplici turnisti. Forse il miglior concept album dei Pink Floyd (sì, meglio anche del troppo personale The Wall…) dal punto di vista delle liriche e delle musiche scritte da Waters, che per descrivere i suoi immaginari apocalittici ed estranianti si serve di una efficacissima metafora orwelliana. Cani utilizzati dai Maiali per controllare le Pecore, così come nella Fattoria degli Animali di George Orwell, appunto. Protagonisti perfetti per inquadrare la sensazione di forte critica nei confronti del mondo politico e sociale dell’epoca. A contribuire alla contestualizzazione del disco provvede anche il celeberrimo artwork: la Battersea Power Station di Londra sovrastata da un gigantesco maiale, a simboleggiare l’industria controllata dal potere sporco. L’unico pezzo quasi interamente scritto e suonato da Gilmour è Dogs, una lunga suite di diciassette minuti che è forse il brano più rappresentativo dell’album. Una perfetta progessione di accordi e toni tipicamente gilmouriani che giocano con il vocoder che Wright lascia “abbaiare”. Gli altri due pezzi principali (a parte l’intro ed outro acustico che è praticamente un’unica atipica ballata d’amore) ricalcano un po’ lo stile del primo pezzo, aggiungendo però delle variazioni fondamentali, che fanno di Animals un album a corpo unico e di grandissimo valore, che rappresenta praticamente il canto del cigno dei Pink Floyd come corpo compositivo organico e fatto da più membri.

91. Iggy Pop – Lust for Life (1977) 1976: James Newell Osterberg Jr. alias Iggy Pop è caduto in depressione in seguito allo scioglimento, due anni prima, degli Stooges, è gravemente tossicodipendente e viene dato, musicalmente parlando, per morto da gran parte della critica. Ma ecco che direttamente da Berlino, arriva la chiamata salvifica dell’amico David Bowie, che lo invita a raggiungerlo e gli fa ottenere un contratto con la Virgin. Anno di grazia 1977: Iggy è vivo e lotta con noi! Pubblica in rapida successione, insieme all’amico David che nel frattempo usciva con Low e “Heroes”, The Idiot e, appunto, Lust for Life. Bowie compone la quasi totalità delle musiche, eseguite poi da dei sessionmen di eccezione, quali i fratelli Sales alla sezione ritmica, Rick Gardiner e il fedelissimo del Duca, Carlos Alomar, alle chitarre, e lo stesso Bowie al piano. Iggy ci mette le liriche sarcastiche, abrasive, scomode (tanto che il testo di “Turn Blue” viene censurato e non appare nel libretto), che raccontano la sua esistenza sregolata fatta di abusi di alcool e droghe (i liquor and drugs della titletrack, l’eroina protagonista di “Tonight” e “Turn Blue”), e il suo sentirsi emarginato della società (“Some Weird Sin”). Un album rock, splendidamente arrangiato, che come sound si avvicina più agli Stooges conditi di blues che a Bowie, e dotato di un energia avvertibile ancora oggi, per dare vita a quello che rimane l’apice commerciale e probabilmente anche artistico dell’Iguana. 

90. Public Image Ltd. – Metal Box (1979) Tipico esempio di disco diventato famoso più per le curiosità collaterali che per l’effettivo contenuto musicale, Metal Box (altresì conosciuto come Second Edition, se avete per le mani la ristampa del 1980) è in realtà uno dei lavori più interessanti di quegli anni a cavallo tra la morte della pacchianeria prog e la nascita degli anni Ottanta. La chitarra di alluminio di Keith Levene, John Lydon che si reinventa dopo i Sex Pistols, la confezione di metallo… dovrebbe passare tutto in secondo piano rispetto alla qualità delle canzoni. Che spaziano dal proto-industrial di “Albatross” alle citazioni classiche (nel senso di musica classica – “Swan Lake” è proprio quel che promette di essere), passando per inserti dub e reggae costruiti sui giri di basso di Jah Wobble. Il tutto impreziosito (sic) dalla voce di John Lydon, che è sgraziato e stonato come una campana, vero, ma è espressivo. Ed è questo (lezione numero 1 del rock and roll) che conta davvero. 

89. Human League – Reproduction (1979) A torto o a ragione considerato il primo autentico album di musica synth pop, Reproduction è senza dubbio uno dei momenti di svolta della scena new wave inglese, tanto che l’ingresso in pista degli Human League da Sheffield – e il loro conseguente successo, maturato tuttavia maggiormente coi successivi Travelogue e Dare – allarga definitivamente le coordinate di un genere che nel 1979 è ormai già difficile dall’essere rigidamente inquadrato. La New Wave si fa dunque anche puramente elettronica, e gli Human League pongono le loro basi per quanti nel decennio successivo sapranno raccogliere la lezione di Reproduction e farla propria, sia in territori prettamente dark (l’ombrosa “The Path of Last Resistance”), sia verso lidi propriamente techno-pop – che Martin Gore e soci sapranno ricalcare col loro stile (si pensi alle melodie del singolo “Empire State Human” o a “Blind Youth”) – seppur con un modus operandi più diretto e ballabile, tutto sommato distante dal post punk elettronico del 45 giri d’esordio “Being Boiled / Circus of Death”. È il sintetizzatore il vero protagonista, per un suono che via via si farà sempre più sfacciatamente commerciale. 

88. The Modern Lovers – The Modern Lovers (1976) Capitanati dal carismatico frontman e chitarrista Jonathan Richman, i Modern Lovers sono stati senza dubbio una delle realtà più significative all’interno della scena garage e proto punk a stelle e strisce. Se dal punto di vista musicale sono ravvisabili dei punti di contatto tra la proposta dei Modern Lovers e quella dei Velvet Underground, altrettanto non si può dire dei contenuti: mentre i Velvet Underground fin dall’inizio della loro avventura avevano deciso di farsi cantori del disagio e dell’alienazione giovanile, descrivendo con crudo realismo gli incubi della metropoli newyorchese, Richman ha preferito dedicarsi a temi più leggeri e disimpegnati, raccontando classiche storie di ragazzi impacciati ignorati dalle ragazze (“I’m Straight”), esaltando il rock’n’roll più viscerale (“Road Runner”) o prendendo in giro certi stereotipi della cultura borghese dell’epoca, come nel brano in cui ironizza sulle presunte capacità amatorie di un celebre pittore spagnolo (“Pablo Picasso”). Un album senza tempo, dal suono ancora oggi incredibilmente fresco, dodici riuscitissimi esempi di rock scarno ed essenziale, mai troppo aggressivo, ma all’occorrenza in grado di lasciare il segno. 

87. Buzzcocks – Another Music in a Different Kitchen (1978) Nati e cresciuti a Manchester, i Buzzcocks di Pete Shelley e Howard Devoto devono al loro debutto Another Music in a Different Kitchen una popolarità che li mantiene tuttora in attività. Formati probabilmente sotto l’influenza dei Sex Pistols, hanno fatto parte di quella che allora era considerata la nascente scena punk inglese, distinguendosi dagli altri soprattutto per un cospicuo impiego di melodie azzeccate ed orecchiabili. Non è un caso, infatti, se Shelley e compari vengono indicati come i pionieri di un pop punk che da allora non sembra ancora passare di moda. La formula vincente di Another Music in a Different Kitchen si completa con nervose sezioni ritmiche e riff di chitarra mai troppo scomposti o lasciati al caso. Sono proprio le melodie intelligenti che permettono di creare una serie continua di canzoni brillanti di luce propria, a partire da “Fast Cars” passando per “I Don’t Mind” e “Autonomy”.

86. Magazine – Real Life (1978) Howard Trafford “Devoto”, già voce dei Buzzcocks, è stato tra i principali protagonisti di quella leggendaria rivoluzione punk che, partendo da Londra, seppe infiammare i giovani ribelli di tutto il mondo. Abbastanza per poter vivere di rendita, sicuro di essersi ormai garantito almeno una piccola menzione nella storia della musica rock. Alla fine degli anni ’70, tuttavia, il Nostro non esitò a presentarsi alla guida di una nuova creatura, i Magazine, band che, insieme ad altre formazioni del periodo, Stranglers, Talking Heads e Ultravox in primo luogo, giocò un ruolo fondamentale nel superamento di determinati stereotipi, dando inizio a quella stagione musicale che la critica di tutto il mondo avrebbe ben presto ribattezzato new wave. Real Life, quindi, oltre che per i testi di Devoto, arguti e ironici, assai distanti da quel mood malinconico di fondo che da lì a poco sarebbe divenuto il marchio di fabbrica del perfetto dandy, è un LP che colpisce soprattutto per l’originalità della formula adottata, cercando di superare il consolidato schema chitarra-basso-batteria in favore di arrangiamenti e soluzioni più sofisticate, che prevedono il costante utilizzo delle tastiere. Brani come l’iniziale “Definitive Gaze”, la stralunata “The Great Beautician in the Sky” o l’oscura “Motorcade”, il cui giro di basso deve sicuramente essere stato un’importante fonte di ispirazione per Simon Gallup dei Cure, rientrano senza dubbio tra gli esempi più riusciti del nuovo corso intrapreso, che tanta influenza avrà sulle generazioni future. 

85. The Pop Group – Y (1979) I Pop Group di Mark Stewart, nonostante il nome fuorviante, sono quanto di più lontano ci possa essere da una band pop, almeno secondo quella che è la comune accezione del termine. La loro proposta musicale, infatti, è un’incendiaria miscela di jazz, funk e punk d’avanguardia distante anni luce dall’easy listening. Un oscuro e inquietante ibrido tra il rock deviato dei Pere Ubu e le ritmiche trascinanti proprie della black music, il tutto contaminato da allucinate divagazioni rumoristiche free jazz. L’intenzione dei Pop Group era quella di rappresentare in modo fedele il degrado e l’assoluta perdita di valori della società post industriale, ogni giorno più devastata dal capitalismo selvaggio e dallo sfruttamento sistematico dei più deboli da parte di una ristretta elite di potenti. Y è il disturbante ritratto di un’umanità oramai senza speranze, irrimediabilmente destinata all’autodistruzione, dove le urla sguaiate di Stewart, il cui impegno politico è divenuto oramai leggendario, sono quelle di tutti i derelitti della terra. 

84. Janis Joplin – Pearl (1971) Quella mattina Nick Gravenites aspettò inutilmente il suo arrivo, per terminare le registrazioni della profetica “Buried Alive in the Blues”. Edito postumo, Pearl avrebbe davvero potuto salvare la vita e il talento di Janis, l’icona bianca del blues. Troppe le canzoni clamorose, l’una dietro l’altra, che contiene questo autentico classico del rock farcito di gospel e spirituale del blues. Memorabili le performance vocali di pezzi come “Move Over”, “Cry Baby”, “Me and Bobby McGee”, “Mercedes Benz”, che ancora oggi rappresentano modelli di perfezione assoluta del genere per le aspiranti blueswoman di tutto il pianeta. Già perché la Joplin – con il fido Brad Campbell al basso ed una selezionata schiera di musicisti alle sue spalle – è riuscita ad arrivare ovunque con il linguaggio universale della sua voce roca e spirituale. Suo malgrado membro storico del club dei 27, Janis è assieme alle altre 2 J (Jimi e Jim) la migliore rappresentante possibile di quella stagione del rock americano, fatto di eccessi e leggende, ma anche e soprattutto di grande sostanza. 

83. Chrome – Half Machine Lip Moves (1979) La composizione della copertina è simmetrica: sinistra, destra, centro. La scritta in alto. L’oggetto rappresentato è un po’ più inquietante dell’armonia rassicurante: un officiante/chirurgo dal corpo coperto di bendaggi, una porzione di piramide ispida e ruvida che si staglia su un fondo del colore del cosmo. Anzi, è il cosmo, e al centro, dentro un rettangolo luminescente come gli schermi di Videodrome, un’indecifrabile tempio sudamericano sci-fi. Se l’immagine fosse filtrata dal rumore bianco di un televisore catodico e deformata, sarebbe la trasposizione perfetta della musica in immagine. Se i Throbbing Gristle fossero nati negli Stati Uniti, invece di essere alienati dal grigiore del risorgimento industriale inglese, forse avrebbero avuto la stessa verve rock and roll, la stessa carica psichedelica dei Chrome. Lo straniamento sarebbe lo stesso, ma, nella band americana, avrebbe un argomento di aggressività rivolta verso 30 anni di televisione massificante e retoriche fatte apposta per essere dileggiate. Messe un po’ da parte le poetiche cosmiche e europee e valorizzate le lezioni degli Stooges, l’album risulta quanto di più sfrenatamente metallico, sfrontato e futurista sia mai stato creato: clangori, filtri ruvidissimi, macchine in 4/4 suonano come una festa meccanica senza regole, un po’ come, sei anni dopo, avverrà per Foetus. 

82. Tubeway Army – Replicas (1979) Emersi dalla scena punk londinese di fine anni ’70, i Tubeway Army di Gary Numan (aka Valerian) trovarono il proprio personalissimo stile applicando, nel loro omonimo album d’esordio, la lezione elettronica dei Kraftwerk alla formula punk e post punk; i risultati erano a tratti molto differenti rispetto a quelli dei contemporanei Magazine e di altri gruppi che avevano aggiunto con successo le tastiere alla classica strumentazione, infatti nel caso dei Tubeway Army le novità erano anche strutturali. L’intuizione era ottima, ma è con il successivo Replicas, che si addentrava con più decisione e coraggio in questo esperimento, che si ha avuto un vero e proprio caposaldo dell’elettronica applicata al rock, ibrido fondamentale per il synth pop, per l’industrial rock e per la new wave. Si trattava di territori che annoveravano già il David Bowie berlinese tra i suoi pionieri ma, diversamente da lui che aveva preferito incanalare in Low ed “Heroes” le proprie esperienze personali, la grande passione fantascientifica (cinematografica e letteraria) di Valerian lo spinse a creare un mondo fatto di uomini-macchina e paranoia tecnologica, designandosi come il vero erede concettuale degli stessi Kraftwerk. Il messaggio fu poi portato avanti dal Gary Numan solista, grazie al grande successo di album come The Pleasure Principles e Telekon. 

81. Funkadelic – One Nation Under A Groove (1978) Definire i Parliament/Funkadelic “un gruppo funky” è come chiamare la Bibbia “un libro lungo”. In parte collettivo, in parte espressione delle visioni musicali di George Clinton, la/le band nascono per portare avanti in parallelo un discorso artistico sfaccettato. E dove i Parliament ne rappresentano l’anima funky e danzereccia, i Funkadelic sono sperimentali, dilatati e, be’, psichedelici. “Funkadelic” significa proprio questo: ritmiche funk, cori, fiati, il tutto inserito in un contesto psichedelico, dilatato e visionario. One Nation Under A Groove, decimo album del gruppo, è anche il più ambizioso e sfaccettato, spaziando dal funky classico della titletrack al quasi-hard-rock dell’adeguatamente intitolata “Who Says a Funk Band Can’t Play Rock?!”. L’immaginario della band è sempre stato a metà tra il surrealismo e la pacchianeria manifesta, come dimostra la copertina e un testo come quello di “Cholly”, storia di un uomo che amava la musica classica e si è convertito al funk grazie agli amici. Ma anche questo faceva parte del fascino dei Funkadelic: l’aver inventato una mitologia demenziale e autoironica, che consentiva loro di allestire spettacoli memorabili e coloratissimi. Il groove è sempre stato una sorta di divinità per George Clinton, e ogni disco uscito a nome Parliament o Funkadelic una messa in suo onore. Si può discutere su quale sia il suo lavoro migliore, su quali e quanti artisti siano stati da lui influenzati, sulla reale portata delle sue prediche politiche, attentamente mascherate in ciascuno dei suoi dischi. Resta il dato incontestabile che One Nation Under A Groove è il più grande successo commerciale della band nonché uno dei dischi funk più importanti di sempre. 

80. Amon Düül II – Yeti (1970) Gli Amon Duul II sono stati la formazione che meglio di chiunque altro ha saputo coniugare il gusto, tipicamente teutonico, per le atmosfere oscure e inquietanti, con le lunghe digressioni strumentali e la forza espressiva proprie della musica psichedelica a stelle e strisce. Con questo secondo lavoro in studio, la band si dimostrò in grado di dare forma compiuta alle intuizioni già presenti nel disco di esordio, quel Phallus Dei (1969) grazie al quale era riuscita fin da subito ad attirare l’attenzione di critica e appassionati non solo per l’originalissimo impasto di psichedelia, folk rock e blues proposto, ma anche per il songwriting estremamente provocatorio e fuori dagli schemi. L’album copre un ampio spettro stilistico e di fatto finisce per reinventare il rock progressivo, facendolo divenire un genere forse meno raffinato, ma infinitamente più vario e ricco di sfumature. Brano simbolo del disco è senza dubbio il pezzo di apertura “Soap Shop Rock” lunga suite in quattro movimenti, in cui i Nostri riescono a fondere con estrema naturalezza divagazioni chitarristiche quasi hard rock, suggestive improvvisazioni di violino, melodie orientaleggianti e canti sguaiati. 

79. Nico – Desertshore (1970) Mistero, tenebre, bellezza glaciale. Sono questi alcuni dei pensieri che ci vengono in mente quanto parliamo di Christa Päffgen, nota ai più con il nome Nico. Se la conoscete solamente grazie alle splendide performance con i Velvet Underground non aspettatevi dalla sua carriera solista altre “Femme Fatale” o “All Tomorrow’s Parties”. Prima con lo splendido Marble Index e un anno dopo con Desertshore si dedica a sonorità ben diverse. Quest’ultimo, capolavoro indiscusso della sua discografia, è un album assolutamente inquietante, freddo, evocativo. Elementi neoclassici e gotici caratterizzano la composizione dei pezzi, scritti, suonati e prodotti con l’aiuto del fido John Cale. La strumentazione è scarna e l’atmosfera è grave e solenne sin dalle prime note di “Janitor of Lunacy” accompagnata dall’organo di Cale e dall’harmonium della stessa Nico. La tensione non cala anche nei successivi brani, dove solo qualche breve intermezzo di piano restituisce per pochi secondi un senso di pace e tranquillità che però si dimostra subito effimera. Tra una canzone cantata a cappella, una sorta di inquietante filastrocca interpretata da una bambina e un’atmosfera quasi medievale grazie al violino e all’organo di “Abscheid”, Nico ci riporta alla luce del sole e si mostra in tutto il suo splendore con la sublime “Afraid”. Ma state attenti a non lasciarvi cullare troppo da queste note perché l’oscurità e la malinconia sono pronte ad incombere nuovamente. Con “Mutterlein” e soprattutto con “All That Is My Own” il finale è letteralmente da brividi. Violini, rumori inquietanti, piano delicatissimo e una voce sempre più solenne concludono l’opera. Nonostante la brevità del disco, alla fine vi sembrerà di avere affrontato un lungo viaggio in terre fredde ed inospitali. 

78. Throbbing Gristle – Second Annual Report (1977) Quello che entrerà nelle vostre orecchie non sarà semplice musica elettronica ma rumore introdotto non con forza nei vostri timpani, ma tramite due tracce introduttive dal senso compiuto, semplici. Dopodichè avviene il colpo vero e proprio: un muro di rumore, voci, sensazioni che rimandano al metropolitano, al grigio, al convulso. Intanto che subite dovete continuare a tenere presente la seconda metà degli anni ’70: lo stupore, il disagio che provate sentendo “Studio” dovete immaginarlo amplificato, moltiplicato. L’alienazione subita ogni giorno ad opera della vita metropolitana, il rumore continuo delle città inglesi, voci che per significato e importanza non sono dissimili da qualsiasi altro suono prodotto da un attrito casuale piuttosto che da un suono simulato elettronicamente. Nel 1977 i Throbbing Gristle inventano la musica industrial, genere che si evolverà inglobando un concetto melodico molto ampio che va dall’estremismo metal all’elettronica pura alla musica d’ambiente. Vera espressione del disagio di vivere in un mondo meccanico. 

77. John Lennon – Plastic Ono Band (1971)  Yoko Ono sta antipatica a mezzo mondo e si sa, ma da quando è venuto fuori che anche John Lennon non era uno stinco di santo che cantava solo di pace e amore senza riserve, anche lui ha perso diversi punti. Non può scendere la sua musica però, compresa quella del suo primo periodo solistico, di cui Plastic Ono Band è l’albo che ci piace di più, forse perché meno inflazionato di Imagine e privo di pezzi da filodiffusione natalizia. Non ci fosse il nome di Lennon in copertina, questo disco, pure con i suoi punti deboli, avrebbe anche maggiore credito di quello che ha. Conquista per il suo suono ruvido, il tono aggressivo delle interpretazioni vocali, e il ritorno al back-to-basics dopo gli eccessi di Let It Be. Come per All Things Must Pass di George Harrison, il miglior lavoro da solista di un ex Beatles è il suo primo vero disco di canzoni.

76. Devo – Q: Are We Not Men? A: We Are Devo! (1978) A volte il suono sceglie di passare prima dal cervello. Allora si considerano la struttura di un brano, la timbrica, gli intrecci degli strumenti, le influenze di altri musicisti. A volte invece esso passa prima dalla pancia; c’è come una scintilla ventrale, quasi una scarica elettrica che dallo stomaco arriva fino in testa. Niente può sostituirla. La semplicità comunicativa del rock. Magia fulminante. Insostituibile. Questo sono i Devo. L’esordio della band originaria dell’Ohio viene prodotto da Brian Eno: un nome, una garanzia. Il risultato sono 35 minuti di irrefrenabile follia. Sana energia. Siamo di fronte a un calderone sonoro ricco di spunti singolari e accattivanti, che deve alle tantissime contaminazioni musicali presenti la propria forza e il proprio indiscutibile merito. L’energia e l’immediatezza del rock‘n’roll tradizionale viene infatti fusa abilmente dal quintetto con progressioni punk, ritmiche tipicamente funky, brevi ma geniali spunti elettronici. I Devo fanno della loro ironia e stravaganza, dall’atteggiamento che assumono sul palco al modo di vestirsi, un’importante arma tesa a smascherare la società contemporanea. Menzione speciale per la cover dei Rolling Stones “(I Can’t Get No) Satisfaction”. Pura goliardia, chiarisce l’obiettivo del gruppo: stravolgere il rock. 

75. XTC – Drums and Wires (1979) Drums and Wires è il primo di una trilogia di album che collezionano i migliori brani della band di Swindon. Dalla matrice post punk, la band di Andy Partridge è riuscita a ricavare un pop elettrico dai tratti vagamente psichedelici, in grado di riempire le piste da ballo britanniche e fungere da punto di riferimento per numerose formazioni negli anni a venire – su tutti gli scozzesi Franz Ferdinand, e perfino Robbie Williams che riuscirà in un’ottima cover di “Making Plans for Nigel” – che di fatto raccoglieranno i frutti del lavoro degli XTC. Con l’ingresso del polistrumentista Dave Gregory e l’uscita del tastierista Barry Andrews, gli intrecci fra le chitarre e le trame melodiche pareggiano i conti coi contemporanei Wire, fenomeni del periodo con 154, ben saldati dal suono garantito dal giovane e promettente Steve Lillywhite, ben presto divenuto famoso nel mondo per essere il produttore degli U2. Pur scanzonato e danzereccio, Drums and Wires non nasconde disillusione e malinconia, come da copione nella poetica degli XTC. Davvero un peccato che non siano conosciuti che per questo LP, davvero uno scandalo che in generale non lo siano mai stati abbastanza oltre il canale della Manica. 

74. The Jam – All Mod Cons (1978) Sì, c’era stato già un ottimo debutto che aveva garantito delle attenzioni su di loro, ma All Mod Cons è il primo classico sfornato da Mr. Weller, il primo tassello in una discografia qualitativamente imponente e di rara bellezza. Il salto di qualità è infatti impressionante: abbandonati quasi del tutto i riferimenti al punk presenti ormai solo nella titletrack e soprattutto in ”A Bomb in Wardour Street”, Paul Weller si concentra su ciò che gli gira maggiormente in testa in quei giorni: melodie, canzoni pop. Del resto lui con il punk non c’entrava un bel nulla. Era uno che passava di lì per caso, i suoi riferimenti erano rock, soul, al massimo i Beatles, certamente Kinks e Who. In pratica parte di quei riferimenti che il punk si proponeva di spazzare via. E la ragione per cui Weller amava questo vecchiume è che sapeva che ciò che resta è la canzone, la bella melodia, il pezzo pop scritto bene. Pochi sono maestri di questa arte. Weller ha cercato di essere uno di questi, e All Mod Cons è la sua prima opera densa di canzoni di altissima qualità, oltre che un album importante per la scena mod e facente da base per il futuro brit pop. 

73. Grateful Dead – American Beauty (1971) Solitamente classificati come rock psichedelico e citati principalmente per il celebre doppio Live/Dead del 1969, i Grateful Dead di Jerry Garcia sono stati anche autori di due dischi rilevantissimi per il consolidamento di possibilità del folk. Workingman’s Dead e soprattutto American Beauty stilizzano il genere con sfumature bluegrass (“Friend of the Devil”), americana (“Sugar Magnolia”), pastoral (“Box of Rain”) e ancora psych, e portano negli anni Settanta un suono pulito e radiofonico che ha funto da modello per tutto il decennio e anche oltre. Ancora oggi, dall’attacco di “Box of Rain”, sembra di ascoltare una registrazione recentissima. Qualità nel songwriting sicuramente, ma dunque anche del suono.

72. Germs – (GI) (1979) Nonostante la breve vita di questa band californiana, Germs Incognito è riuscito a guadagnarsi la definizione di classico dell’hardcore punk underground, minimale quanto la sua stessa copertina. E come da definizione sarebbe inutile soffermarsi a decantare la tecnica compositiva o l’abile songwriting di GI: niente fronzoli e niente perdite di tempo. Il tutto si condensa tra le realtà visionarie sputate da Derby Crash ed una forte urgenza espressiva come da copione, ma non per questo meno efficace. Crash, che morì suicida a 22 anni appena un anno dopo, incarna alla perfezione l’immagine del tossico punk, eccessivo quanto carismatico, tanto da risultare indiscusso protagonista di GI nonostante l’importante apporto alla scrittura di gran parte dei brani da parte del chitarrista Pat Smear. “Lexicon Devil”, “We Must Bleed”, “What We Do Is Secret” resteranno tra i cavalli di battaglia del disco, composto in ogni caso da brani potenti, veloci e corrosivi come è lecito aspettarsi, fino alla conclusiva “Shut Down (Annihilation Man)” registrata live in qualche club americano puzzolente di sudore. Nonostante la carriera bruscamente interrotta, saranno in molti ad ispirarsi all’attitudine dei Germs, e a definirli come iniziatori dell’hardcore d’oltreoceano.  

71. David Bowie – “Heroes” (1977) Si immagini, in quel di Berlino Ovest, una lineup formata da David Bowie, Brian Eno e Robert Fripp: ce ne sarebbe abbastanza per pensare a chissà quali risultati. In effetti, sempre nello stesso anno di Low, usciva “Heroes”, strutturalmente simile al suo predecessore ma differente nell’animo; la differenza stava tutta in David, tornato ad essere più passionale e vivo nell’interpretare le sue canzoni. I testi non erano più espressione di depressione e paranoia ma di un ritorno alla vita, un po’ da protagonista e un po’ da osservatore (si vedano “Joe the Lion” e Chris Burden che si fa crocifiggere su una Volkswagen), spesso con un tono al limite dell’irreale e del fantascientifico. La rinnovata abilità di David nel comporre canzoni pop di livello era ora supportata da un uso più consapevole delle tecnologie e del genio musicale dei pesantissimi nomi presenti in squadra, che hanno dato vita ad un suono ancora più moderno ed efficace in senso pop. L’epica titletrack entra con pieno diritto tra i brani leggendari del rock: un inno di tutti, fin troppo abusato forse, ma la sua ingombrante presenza non deve far dimenticare quella degli altri trascinanti brani pop proiettati verso il futuro, popolati di personaggi alienati dalle loro stesse vite. Il secondo lato, come in Low, guardava ancora all’atmosfera ma proponeva strutture più esili, taglienti, che sembravano muoversi attraverso ambienti apparentemente immobili, creando ancora una volta effetti molto suggestivi, affiancando strumenti particolari (come il koto) a sintetizzatori e tastiere. 

70. The Stooges – Raw Power (1973) Il terzo lavoro degli Stooges è lo stato dell’arte del loro suono grezzo, proto-punk infuocato che si rifiuta di invecchiare. Raw Power suona decisamente più spoglio e sporco dei precedenti, più pesante nella sua ossessione. C’era chi si perdeva nelle intricate trame del progressive, chi si eccitava a colpi di droga e hard rock, ma probabilmente nessuno meglio degli Stooges in quell’epoca ricordata spesso per altro ha saputo impersonare lo spirito del rock’n’roll più rudimentale e duro, capace di far passare per onesti menestrelli i Rolling Stones e gli MC5. Non-musicisti per eccellenza, piuttosto che rincorrere una ricerca del suono elegante ma priva di spontaneità, gli Stooges affrontano i loro ascoltatori con i loro eccessi e la loro rabbia primordiale. Ignorato dalla critica all’epoca, salvo poi essere rilanciato da Lester Bangs e in seguito Kurt Cobain, Raw Power è anche il riflesso della condizione precaria degli Stooges, fra alcolismo insaziabile e tossicodipendenza senza speranza, che porterà la parola fine alla loro vita artistica. Un epitaffio che, alla luce di una grossa fetta di musica che seguirà negli anni a venire, si rivelerà seminale e irripetibile. Una manciata di pezzi sparsi su tre album per gli Stooges sono bastati a ridefinire il garage, ad anticipare il punk ed a reinventare la figura della rockstar maledetta. Poco male se oggi Iggy concede la sua faccia a cartelloni pubblicitari. 

69. The Rolling Stones – Sticky Fingers (1971) Sticky Fingers segna il passaggio tra due ere dei Rolling Stones: è il loro primo album in studio pubblicato negli anni Settanta, e il primo per la nuova etichetta personale, la Rolling Stones Records, dopo la scadenza del contratto con la Decca. Registrato tra il Muscle Shoals Sound Studio in Alabama e il mitico Mobile Studio a Stargroves a cavallo tra il ’69 e il ’70, Sticky Fingers raccoglie dieci pezzi caratterizzati da una spiccata anima blues e da una vena di country. I riff di Keith Richards, diretti e dal sapore classico, sono memorabili colonne portanti delle canzoni più puramente rock come “Brown Sugar” e “Bitch”. Non sono di minore bellezza i momenti acustici come la splendida “Wild Horses” o “Sister Morphine”, scritta da Marianne Faithfull, ma resa popolare dagli Stones. La matrice blues emerge con particolare evidenza in “Can’t You Hear Me Knocking” e “You Gotta Move”, composta da Fred McDowell e dal reverendo Gary Davis. Citazione d’obbligo per “Sway”, che include la partecipazione canora di Pete Townshend nei cori e “Moonlight Mile”, perfetta chiusura dell’album. Sul piano dei contenuti, Sticky Fingers non si discosta troppo dalle tematiche care a Jagger e soci: i testi parlano apertamente di abuso di droghe e sesso, lasciando intendere tristezza, frustrazione e la pesantezza dell’essere. 

68. Gong – Camembert Electrique (1971) Allen si era già messo in mostra con un album folle come Banana Moon. Camembert Electrique, del 1971, registrato insieme alla sua ragazza e ai tre compagni scoperti in terra francese, non si può definire in altri termini: assolutamente fuori di testa, pazzoide, schizzato. E non c’è da aspettare per averne la conferma, basta ascoltare i rumorini e la voce demenziale, da cartoon psichedelico, con cui l’opera si apre: “Radio Gnome” ci introduce al cosiddetto Pianeta Gong, nel quale c’è solo colore, rumore e tanta, tantissima voglia di sballarsi. “You Can’t Kill Me” è un po’ il marchio di fabbrica dell’album: il ritmo serrato, i riff ipnotici, vagamente psichedelici, il canto ubriaco di Allen contrapposto ai gorgheggi orgasmici della fidanzata, pseudo-ritornelli spaziali, deliri free jazz e soprattutto, una predilezione tutta alleniana: le filastrocche stordenti e infantili. Il loro rock fumettistico e scoppiettante, lontano dalla seriosità dell’avanguardia e arricchito di tutti i trucchi del jazz, dell’hard rock e della psichedelia, portava chiaramente il marchio del più feroce freak di tutti i tempi, Frank Zappa, privo però del suo mordente satirico. 

67. The Residents – Meet the Residents (1974) Classico esempio di tragedia greca pilotata da menti malate e contorte, deliri provenienti dai più oscuri angoli del subconscio, collage di esperienze e detriti di arte provocatoria quanto mai denigratoria, parodie dissacranti di personaggi più o meno noti (vedi cover), movenze teatrali ed entrate trionfali, anticonvenzionali e anti-confezionate, spettacoli di burlesque tra piume di struzzo e trucco sbavato, scioglilingua di fiati e accordi scordati, voci sinistre e spettrali che si sormontano canzonandosi a vicenda, pianoforti asincroni e tamburelli sincopati, un tango nervoso che sembra più una danza funky, demenziali saluti stagionali lunga una stazione qualsiasi, dissonanze psicologiche della peggior specie. A questo punto aggiungeteci un Frank Zappa che fa capolino dietro l’angolo, che tanto in queste occasioni fa sempre comodo. Forse allora avrete conosciuto anche voi i Residents, un collettivo di menti che ha fatto del grottesco la propria ragione creativa, artistica e, probabilmente, spirituale. 

66. Neil Young – After the Gold Rush (1970) Uscito nell’agosto del 1970, After The Gold Rush rappresenta senza dubbio uno dei vertici assoluti all’interno della straordinaria discografia di Neil Young. Un autentico manifesto della poetica del cantautore canadese, capace nelle sue composizioni di far convivere armoniosamente la dolcezza e il romanticismo della musica country più tradizionale con l’energia del rock più sanguigno. L’unico consiglio possibile, pertanto, è inserire questo cd nel lettore e lasciarsi rapire da questa incredibile sequenza di brani senza tempo, tra struggenti ballate (“After the Gold Rush”, “Byrds”, “I Believe in You”), amare divagazioni folk, delicate quanto cariche di cupa disperazione (“Tell Me Why”; “Only Love Can Break Your Heart”), ed entusiasmanti cavalcate elettriche (“Southern Man”, “When You Dance You Can Really Love”). Un canzoniere che, con la sua semplicità e immediatezza, riesce ancora oggi a suonare attuale. 

65. The Clash – London Calling (1979) La morte di Vicious aveva particolarmente colpito il mondo del punk inglese. Qualcosa stava cambiando; il punk rock tradizionale era in netto calo, e la new wave guadagnava terreno. C’era fermento musicale, e, per i Clash osare, rischiare e cercare nuove soluzioni era un obbligo per la sopravvivenza. Strummer e compagni rientrano in studio con un imperativo: lasciare mentalmente l’Inghilterra e rivolgere lo sguardo verso gli Stati Uniti d’America. Ingaggiato il produttore R&B Guy Stevens, nell’inverno del 1979 registrano London Calling, l’album (doppio album venduto al prezzo di LP singolo) che li consegnerà alla storia. London Calling è l’album della svolta, una pietra miliare della storia della musica. London Calling, oltre a sancire la fine del loro sodalizio musicale con la musica punk, rappresenta la fusione tra la musica bianca e la musica nera, ma non solo. Sembra che con London Calling i Clash abbiano voluto distruggere tutte le coordinate del punk rock, con lo scopo di creare un calderone musicale quasi non-sense (l’opera è compiuta in Sandinista), nel quale si incrociano diverse culture che si nascondono nella Londra notturna.

64. The Who – Who’s Next (1971) Quali sono i migliori Who? Quelli che nascono dalla lezione tipicamente mod dei Kinks e sfornano grandi singoli nella seconda metà dei Sessanta, oppure quelli delle maratone rock Tommy e Quadrophenia, o forse quelli che da Who’s Next hanno cercato via via con sempre più alterni risultati di formalizzare il rock contemporaneo con tutte le componenti e gli espedienti tecnici a disposizione? Fosse quest’ultima la variante preferita, allora sarebbe bastato fermarsi proprio a Who’s Next, il lavoro che meglio di qualunque altro della loro discografia riesce ad infilare l’una dopo l’altra ottime melodie, supportate dalle proverbiali performance di una band ormai entrata in modalità pilota automatico, tanta era la confidenza dei suoi componenti. I tour in giro per il mondo avevano permesso a Townshend, Moon e Entwhistle di conoscersi a memoria: il leggendario Live at Leeds dell’anno prima stava lì a dimostrarlo. Who’s Next rappresenta probabilmente il momento più alto della carriera della band di Hammersmith, almeno per quanto riguarda gli album, essendo impossibile replicare l’impatto e la spontaneità dei primi singoli. È il disco che sebbene composto di canzoni senza un vero filo conduttore né una spiccata linea di continuità – come accadeva per le opere rock Tommy e Quadrophenia – alla lunga si fa ascoltare più volentieri degli altri dall’inizio alla fine, dal notorio prologo di “Baba O’Riley” all’epica conclusione di “Won’t Get Fooled Again”. In mezzo ci sono solo pezzi di straordinaria intensità. 

63. Soft Machine – Third (1970) Ci voleva un album simile per mostrare al mondo le capacità di tre musicisti del genere. Wyatt, fra i tre, è quello che ha dimostrato di possedere il maggior estro creativo e la maggior personalità al di fuori della Morbida Macchina (fondamentale, si sa, il suo Rock Bottom). Si parla di una band la cui musica è folle, creativa, astratta, persino fredda e calcolatissima, ma libera. Da ogni schema precostituito così come da ogni possibilità di guadagno. Che forse non era la prerogativa di nessuno all’interno della band. I Softs (come vengono a volte definiti) cambieranno innumerevoli volte formazione fino a restare senza neppure uno dei membri fondatori (per Softs del 1976). Ma questo Third resta uno di quegli album che rimarranno scolpiti nella storia della musica. Che venda oppure no. 

62. Rush – 2112 (1976) Agli esordi, i Rush sembravano una qualsiasi band hard rock, come se ne trovavano a bizzeffe sia negli Stati Uniti che in Europa. Il precedente Caress to Steel, però, faceva intuire che la band canadese aveva ben altre ambizioni, presentando in scaletta due pezzi estesi che strizzavano chiaramente l’occhio al progressive. 2112 raffina ulteriormente l’approccio e rifinisce quest’idea, con gli epici venti minuti della titletrack a segnare un deciso passo in avanti a livello compositivo, imponendosi finalmente come qualcosa di realmente originale e personale. Ed il resto non è certo da meno, visto che qui troviamo anche altri loro classici, come “A Passage to Bangkok” e “The Twilight Zone”. È anche il disco che apre la fase maggiore della loro discografia, capace di regalare altri episodi di ottimo livello fino a “Moving Pictures”, con un suono sempre a metà tra ruvidezze hard e ghirigori prog. Viene naturale pensare che, in fondo, i Rush hanno saputo raggiungere risultati molto migliori di tanti tristissimi gruppi della scena prog metal, che hanno aumentato a dismisura la loro perizia tecnica senza saperne replicare le riuscite intuizioni melodiche.

61. Tangerine Dream – Zeit (1972)Così come lo intendiamo noi, il tempo è un concetto talmente usuale che diventa di difficile definizione. Esso è il susseguirsi infinito di attimi, è continuità, evoluzione, è la perpetua trasformazione delle cose in una visione ciclica del mondo e dell’esistenza umana. L’inizio e la fine di questa successione di istanti determinano la dimensione dell’universo così com’è nato, generato da un insieme infinito di punti nel cosmo. Eppure non stiamo parlando di fisica quantistica. Zeit è un lavoro difficile e pretenzioso, apice della musica cosmica. E’ un monolite che contiene un universo sospeso e immobile, ma in continua evoluzione sotto la reale e inesorabile pressione del tempo, 75 minuti densi di riverberi, statici viaggi senza gravità. La musica dei Tangerine Dream è sinfonia ricca d’immagini impalpabili, ogni suite compone un quadro in lento movimento. Froese cercava una musica visiva e questo ne è il perfetto risultato: l’ascolto di Zeit può esser reso meno ostico solamente se compiuto tramite l’immaginazione di forme e colori freddi. 

60. Ramones – Rocket to Russia (1977) I Ramones, oltre ad essere una delle formazioni più amate di tutti i tempi, sono senza dubbio tra le band che meglio hanno saputo incarnare nell’immaginario collettivo l’autentico spirito del rock’n’roll: divertimento, immediatezza e tanta, tantissima, energia. Una ricetta in apparenza assai semplice che, verso la metà degli anni ’70, contribuì a rendere i quattro delle autentiche icone, destinate a divenire in brevissimo tempo un punto di riferimento per tutte quelle formazioni che oltreoceano, a Londra, da lì a poco si sarebbero rese protagoniste della rivoluzione punk. Con Rocket to Russia tutti i meccanismi tornarono nuovamente a funzionare alla perfezione. Quattordici adrenaliniche tracce che rappresentano il perfetto compendio dello stile di Joey Ramone e dei suoi degni compari: canzoni semplici e immediate, costruite intorno a pochi azzeccati accordi, con melodie orecchiabili e ritornelli destinati a stamparsi fin da subito nella mente, scandite dal potente suono della batteria di Tommy e impreziosite dai fulminanti assoli di chitarra di Johnny, il quale, pur non essendo dotato di tecnica sopraffina, grazie a uno stile inconfondibile e ad una presenza scenica fuori dal comune può a tutti gli effetti esser considerato uno dei pochi autentici guitar heroes della storia della musica rock. Sarà anche solo del banalissimo rock’n’roll, ma questa musica riesce a far divertire, ridere e sfogare. Un porto sicuro dove chiunque può sempre trovare rifugio.  

59. Sly & Family Stone – There’s a Riot Going On (1971) Sono stati scritti infiniti racconti sul medioevo degli anni ’70 americani, la fierezza della soul culture, ormai più esclusivista che conciliante, la guerra, le droghe, quel piccolo problema che rimane una volta consumato l’entusiasmo iniziale, la critica a chi criticava senza criticare abbastanza; questo album fa parte di quei racconti. Anzi, forse ne è uno dei più significativi, uno dei più importanti, uno dei più innovativi. Forse proprio per questo non ci si deve stupire troppo se There’s a Riot Going On, così tetro, ruvido, dissonante e dimesso, riuscì a guadagnare le prime posizioni nelle classifiche americane e britanniche sia nella sua interezza, sia con i suoi due singoli. Certo, non mancano i momenti divertenti (ma mai spensierati) e meno impegnativi, tuttavia non è solo a questi pochi minuti che si deve l’ampio apprezzamento da parte del pubblico. Sly & The Family Stone, già dalla loro esibizione a Woodstock, erano l’atomo opacizzato e vibrante del funk, sconosciuto sia per gli aspetti più strettamente musicali, come l’uso della drum machine, il suono molto spigoloso su basi altrettanto catchy (schizofrenia), il cantato così differente e straniante di minuto in minuto, sia per i testi emaciati ma geniali e distorti quanto le loro apparizioni on stage. La posizione di primo piano e l’influenza che There’s a Riot Going On esercitò sulla musica americana, bissa quanto fatto nell’ottimo album Stand!, consacrando Sly Stone e la sua band a passaggio obbligato per l’ascoltatore non solo rock. Un album sottilmente intrigante, magnetico nel suo essere compiutamente spiacevole, un autentico capolavoro.

58. Derek and the Dominos – Layla and Other Assorted Love Songs (1970) Uno degli apici del blues rock tutto, ma andiamo con ordine. Nel decennio precedente Eric Clapton aveva certamente contribuito (in particolar modo con i Cream) a trasformare completamente il blues, rendendolo sempre più ruvido e pesante, ponendo le basi per band fondamentali come Led Zeppelin e Black Sabbath. In questa raccolta di brani, tuttavia, si muove in un contesto totalmente opposto, quasi a voler recuperare le radici del genere. L’incontro con Duane Allman degli Allman Brothers Band si rivela fondamentale, dando come risultato una serie di canzoni orecchiabili ma allo stesso tempo continuamente deformate dai deliri strumentali dei due formidabili chitarristi. La celeberrima “Layla”, introdotta da un riff immortale, contribuisce in maniera decisiva a consegnare il disco alla storia del genere.

57. Klaus Schulze – Illricht (1972) Inizialmente membro dei Tangerine Dream, poi sostituito da Christopher Franke, Klaus Schulze era un grande amante della musica classica e di Wagner in particolare, tanto da voler trovare il modo di renderle omaggio filtrandone l’essenza attraverso le nuove strumentazioni elettroniche. In alcune interviste ha negato l’influenza del solito Stockhausen, spiegando che quello di metterlo in mezzo è solo un espediente di critici e giornalisti che si trovano in difficoltà nel descrivere ciò che ascoltano, quando in realtà il compositore tedesco non si occupava soltanto di esperimenti elettronici come spesso si lascia intendere. Tornando a noi dopo questa breve nota di colore, il risultato di questa operazione consistette in diversi album contententi brani monumentali, della durata compresa tra i venti e i trenta minuti, alcuni dei quali costituiscono l’espressione più alta della musica cosmica assieme a Zeit degli stessi Tangerine Dream. In primis le sinfonie di Irrlicht, che genera un’enorme tensione grazie alla progressione di “Satz Ebene” e al suono di un organo dal gusto ossessivamente gotico per poi collassare e, letteralmente, perdersi nello spazio con l’ultima parte. Col tempo il lavoro di Schulze prese ad evolvere verso sonorità sempre più orecchiabili, meno informi e più ritmate (e in effetti lui nasceva come percussionista), quindi alla portata di ascoltatori meno avvezzi ad un approccio come il suo, ma Irrlicht resta senza dubbio il suo capolavoro, per le intuizioni geniali ed il suo preciso intento artistico. 

56. Comus – First Utterance (1971) Più una singolarità che la norma nel panorama prog, i Comus sono probabilmente LA gemma nascosta degli anni ’70 tutti. Una classica descrizione della loro musica suonerebbe, molto banalmente, come un mix di folk, prog e psichedelia, ma non renderebbe neanche un decimo di quel che First Utterance è in grado di offrire. Basterebbe la copertina, un disegno a matita del cantante Roger Wootton che rappresenta una dal viso contorto e inquietante, a capire che qui non si parla né di fate né di folletti né di oceani topografici. I Comus sono sempre stati affascinati dal paganesimo, da vicende macabre, erotiche e sanguinarie, come anche dalle pastorali di Milton e dai riti deliranti dell’antica Grecia. Tutto questo traspare (gronda?) da ogni nota di First Utterance, dall’opener “Diana” – di cui i Current 93 proposero una cover nel 1990 – all’angosciante e ossessiva “Drip, Drip”. La voce di Roger Wootton trova un ideale contraltare in Bobbie Wattson, a creare un contrasto tra Bella e Bestia che verrà usato/abusato/stuprato da chiunque per i decenni a venire, senza mai raggiungere l’equilibrio perfetto tra teatralità e inquietudine dei Comus. First Utterance è, nonostante lo scarso successo che incontrò ai tempi dell’uscita, un disco coinvolgente, geniale e soprattutto influente: tralasciando i nomi minori che ogni tanto ne omaggiano la memoria, basta pensare che David Tibet non ha mai smesso di spendere parole di elogio per quello che si può a buon diritto definire uno dei massimi capolavori dell’epopea prog.  

55. Police – Reggatta de Blanc (1979) Reggae-Rock: così è stato catalogato Reggatta de Blanc. Ma c’è molto di più. E’ bene fare qualche specificazione. Il sound dei Police eredita alcuni elementi caratteristici del Punk (esploso pochi anni prima in Inghilterra): immediatezza, freschezza e semplicità. Tuttavia il tutto viene rielaborato con maggior ricercatezza e con gusto sopraffino. E in questo senso è decisivo lo stile di Andy Summers, i cui riff di chitarra risultano più levigati e curati rispetto ai graffianti accordi del Punk. Certamente anche il Reggae è un elemento fondante, tuttavia i Police non riprenderanno mai fedelmente le caratteristiche del genere jamaicano, ma reinterpreteranno il tutto con la solita maestria. Così, in ultima analisi, l’unico stilema riconducibile al Reggae risulta essere l’ utilizzo frequente di ritmi in levare. Ogni elemento è al posto giusto, il trio stupisce senza strafare, con arrangiamenti azzeccatissimi e geniali intuizioni qua e là. Reggatta de Blanc è il classico esempio di come una band possa stupire senza effetti speciali, con la sola classe dei propri componenti.

54. Joni Mitchell – Blue (1971) Giugno 1971, Joni Mitchell esce con il suo quarto LP, Blue, che diventa un immediato successo di critica e pubblico. Rifiutata l’immagine hippie a lei affibbiata nel dopo Woodstock, l’artista cambia completamente le carte in tavola. Si respira infatti la semplicità rurale, l’emozione per le piccole cose, l’aria che muove le spighe nei campi, il sole nonostante l’intimità di alcuni versi. Blue, in Inglese, non è solo il colore, ma anche “triste, giù di corda”. I testi sono racconti autobiografici permeati dalla malinconia e dal malessere, intenti comunque a musicare delle atmosfere delicate e coinvolgenti, composte principalmente con la chitarra acustica e il pianoforte: non avremmo avuto Tori Amos senza la Mitchell, questo è certo. Apprezzabile è inoltre la sua versalità di polistrumentista che riesce ad impreziosire ogni canzone con arrangiamenti raffinati e mai fini a loro stessi, anzi sempre di ottimo gusto e funzionali alla melodia dei brani. Blue rimane un grande esempio di sincera eleganza, preziosa consolazione per ogni anima romantica che si rispetti. 

53. Elvis Costello – This Year’s Model (1978) Il ritorno discografico di Elvis Costello dopo l’album d’esordio My Aim Is True fu segnato da una mossa decisiva operata in partenza: come band di supporto non avrebbe più avuto i Clover ma un trio di piano, basso e batteria che prese il nome di “The Attractions”. Certo, il materiale lo scrisse comunque lui, ma l’aver trovato i musicisti giusti influì in modo molto positivo sia nel processo di realizzazione che nell’esecuzione dal vivo dei pezzi, che assumevano così quel piglio un po’ punk che non poteva far altro che valorizzare canzoni come “No Action” o “The Beat”. Ne venne fuori This Year’s Model, un grande album in bilico tra il pop e il rock’n’roll, sospeso tra la sua facciata retrò e il suo essere proiettato verso le novità e le contaminazioni wave che svecchiavano il modo di intendere la musica rock. Ed ecco, chi vorrebbe scrivere canzoni pop/rock efficaci dovrebbe studiare e imparare a memoria anche i pezzi di questo disco. Tutti, perché sarebbe un errore – ed anche un delitto – scartarne anche solo una tra “(I Don’t Want to Go to) Chelsea”, “Lip Service”, “You Belong to Me” o “Lipstick Vogue”; ascoltandole con attenzione ci si rende conto di quanto certe idee e certi espedienti siano ancora utilizzati e attuali, e di riflesso di quanto fossero avanti nel 1978, alla faccia degli enormi occhialoni e di quell’abbinamento di giacca e cravatta decisamente fuori tempo massimo. Probabilmente non tutti i rockettari del duemila avranno avvertito la curiosità necessaria per andare a scavare nella lunga discografia di un tizio che alla fine degli anni ’70 era addobbato come un idolo di 20/25 anni prima e che viene spesso ricordato dai comuni mortali come “quello che cantava “She””. Ma se è vero che la storia del rock è fatta anche di personaggi, sicuramente Elvis Costello è tra questi, e se è vero che per farne parte bisogna aver lasciato qualcosa di valore, This Year’s Model è il suo testimone. 

52. Wire – Pink Flag (1977) Comprimere oltre 20 tracce in appena una mezzora di musica sembra essere uno dei capisaldi punk più comuni ed utilizzati, eppure gli Wire riusciranno sempre a mantere le debite distanze dalla categoria. Pink Flag è un debutto che, pur senza sacrificare l’impatto ad effetto supportato da minimali e ripetitivi giri di chitarra, da testi cinici e dalla voce sgraziata di Newman, dimostra davvero pochi segni di gioventù acerba e anarchico-ribelle. Questo perchè già faceva intravedere i germi che avrebbero spinto gli Wire ad una continua rivisitazione di loro stessi, senza cadere nei tranelli degli stereotipi del punk, prediligendo una più accurata sperimentazione e un lavoro se vogliamo più cerebrale e raffinato. Non per questo Pink Flag perderà di tensione o riuscirà a passare inosservato, contenendo anch’esso alcuni anthem intramontabili quali ad esempio “Lowdown”, “Mr Suit”, “Mannequin” o la pungente “12XU”, tutte canzoni-non canzoni di grande intensità e impatto che hanno ormai fatto scuola. Alta intelligenza senza regole.  

51. Sex Pistols – Never Mind the Bollocks Here’s the Sex Pistols (1977) Il caro vecchio 1977. L’anno del punk e in particolare dei Sex Pistols. Si fa strada nel mondo giovanile una concezione di musica intesa come ribellione, sputo, bestemmia, il tutto basato su accordi elementari e feroci e su canzoni che puntano più a colpire che ad affascinare, ovvero, la formula vincente delle canzoni-fulmine di un gruppo di ragazzi scalcagnati che suonano sotto il nome di Ramones. è la ricetta secondo la quale John Lydon, Sid Vicious, Steve Jones e Paul Cook cucinano questo Never Mind the Bollocks, album che è possibile amare oppure odiare ma che va sicuramente annoverato come una delle avventure più estreme e riuscite di tutta la musica rock. è sorprendente come una tradizione così aspramente nichilista e pressochè anti-qualsiasi cosa sia riuscita a sopravvivere così a lungo. Le invettive sprezzanti e schifate di quattro schizzati hanno rappresentato una sfida chiara e potente all’establishment che ha reagito con l’ostracismo e la censura, le sue armi migliori. Ma che hanno in qualche modo raccolto il dolore di masse giovani soffocate dai virtuosismi stordenti e spesso inutilmente cerebrali di innumerevoli band progressive e psichedeliche, alla ricerca di una musica che raccontasse il loro mondo fatto di squallore, droga e solitudine. 

50. Faust – Faust (1971) Tra i musicisti tedeschi che animarono gli anni ’70 mitteleuropei i Faust fecero, come anche i Popol Vuh, storia a parte. Non furono un vero e proprio gruppo, in più si tratta del tipico caso in cui la frase “nemo propheta in patria” calza a pennello, in quanto supportati e chiacchierati più dalla stampa estera (quella inglese in particolare) che da quella tedesca. Nonostante ciò, il valore artistico dei loro Faust e Faust IV resiste nel tempo. La musica proposta nel loro primo album è pura avanguardia, potremmo dire che sta al rock come certi filoni artistici e culturali del novecento stanno al più classico concetto di arte. Si tratta di un collage di rock e rumori vari che inizia sommergendo, nel senso letterale del termine, stralci di un paio di canzoni arcinote di Rolling Stones e Beatles. Una dichiarazione d’intenti in piena regola da parte di un collettivo che giocava a nascondersi e ed essere contemporaneamente demenziale, irriverente, inquietante, tutto fuorché prevedibile, lontano dal business discografico che avrebbe coinvolto certi loro illustri colleghi. Con il disco omonimo riuscirono a cogliere appieno lo spirito avanguardistico che spingeva gli artisti ad andare oltre gli schemi. 

49. David Bowie – Hunky Dory (1971) Hunky Dory non è solo un episodio fondamentale per comprendere, o cercare di comprendere, il rock contemporaneo. E’ anche un passaggio fondamentale per avere un quadro completo di David Bowie, propedeutico e a tratti addirittura migliore del successore Ziggy Stardust. Con Hunky Dory, infatti, Bowie arriva al primo vero capolavoro dei suoi esordi, raccogliendo tutte le idee che in qualche modo aveva invano cercato negli episodi precedenti della sua carriera per convergerle in uno dei migliori esempi di glam rock a tutto tondo. La qualità del songwriting è per lunghi tratti strabiliante, tanto che descrivere oggi brani come “Kooks”, “Changes” o “Life on Mars?” appare davvero ingenuo. Pop, kitsch, glam appunto: Hunky Dory è uno schiaffo alla progressive e all’hard rock, la migliore prova del mai troppo celebrato Mick Ronson. Con i suoi ammiccamenti, le sue moine, la sua profonda sensualità e la sua poesia, Hunky Dory è ancora oggi una maschera immortale e, fra le tante indossate dal Duca Bianco, in assoluto una delle migliori. 

48. Queen – Queen II (1974) Queen II è uno degli album da riscoprire e da considerare come un vero e legittimo capolavoro del rock dai toni dark e sepolcrali, tanto caro ad artisti della scena metal, nonché a rockstar degli anni Novanta come Billy Corgan, che ha candidamente dichiarato in tempi non sospetti come questo disco sia uno dei suoi favoriti in assoluto, fondamentale per la sua formazione di artista e compositore. E ancora Trent Reznor, Scott Weiland, Mike Patton, oltre ai loro contemporanei Elton John, David Bowie, Robert Plant, sono solo alcuni degli artisti dichiaratisi estimatori di un gruppo così frequentemente odiato dalla critica fuori dai confini britannici. Se A Night at the Opera (e The Game negli States) è il lavoro comunemente più elogiato del gruppo, Queen II è probabilmente l’opera rimasta più nascosta dell’intero arco della loro carriera, e, a ben vedere, è stato proprio il suo carattere oscuro e tetro ad averlo mantenuto in questo alone di silenzio: i Queen si sono progressivamente allontanati dalla luce nera che pervade sin dalla cover questo secondo disco, e – a nostro parere – non hanno più composto interi album di simile valore.

47. George Harrison – All Things Must Pass (1971) Nel 1970, il mondo del rock venne funestato da una serie di morti eccellenti che segnarono simbolicamente la fine di un’era: Janis Joplin, Jimi Hendrix e… i Beatles. La dipartita dei Fab Four non segnò però la fine delle carriere dei componenti che ne avevano fatto parte, che iniziarono quasi immediatamente a rilasciare lavori solisti. Le strade intraprese furono differenti: John Lennon provò a distaccarsi completamente dal passato, Ringo Starr incise un album di cover, Paul McCartney preferì la strada dell’easy listening. E George Harrison? Il chitarrista se ne uscì addirittura con un disco triplo, come a voler protestare verso il poco spazio che gli era stato concesso all’interno del gruppo. È un album particolare, che inizia inanellando uno dopo l’altro piccoli affreschi di ispirazione folk, che disegnano un paesaggio dimesso, anti-spettacolare e bucolico, e si conclude con rumorose jam estese. All Thing Must Pass dimostra inequivocabilmente l’abilità di Harrison sia come songwriter che come chitarrista, e rimane il lavoro più riuscito di un Beatle solista. 

46. Syd Barrett – The Madcap Laughs (1970) Le canzoni che andranno a formare The Madcap Laughs richiesero un numero di minimo di cinque prove e un numero massimo di undici (“Golden Hair”) per essere registrate. Con la supervisione di Waters e Gilmour, Syd riuscì a terminare il suo debutto da solista dopo quasi un anno. Il lavoro finale è cantautorato folle, in cui Barrett riversa il carattere rumoristico che contraddistingueva i primi lavori dei Pink Floyd (ad esempio, in “Late Night” utilizza un accendino sulla chitarra, trascinando letteralmente le note) bilanciandolo con momenti di una semplicità disarmante, nei quali le liriche da poesia diventano fiaba per tornare ancora poesia. Ed è in fondo questo che troviamo in The Madcap Laughs: la malinconica voce di Syd ci canta di speranza e di amore, si abbandona a visioni e torna fra noi. Fanciullesche canzoni d’amore (“Love You”), solitarie grida disperate (“No Man’s Land”), stralci di James Joyce (“Golden Hair”) da un sogno interrotto e stridenti prove vocali (“If It’s in You”). La voce del vero genio dei Pink Floyd. 

45. Brian Eno – Music for Airports (1978) Sguardi che sai non dureranno oltre i pochi minuti, prima del decollo. Persone camminano, persone corrono, persone si siedono sconsolate. Tese. E ci metti un po’ a capire che ai loro occhi non sei diverso. Anche tu, come loro, stai vagando in un non-luogo giuridico, in uno spazio fisico, in un vuoto poetico. Non è una contraddizione, non un gioco di parole, non più di quanto lo sia una musica composta non per persone, ma per ambienti. Non dobbiamo per forza accorgerci degli strati sonori delle composizioni di Eno, ad ogni modo sublimi anche dal punto di vista tecnico, come non dobbiamo per forza accorgerci delle bifore di un salone di un tempo, di enormi schermi colorati o di artifici architettonici. L’album è il primo delle due opere considerate genitrici della musica ambient (termine che verrà coniato, non a caso, dopo l’uscita di Music for Airports) e in effetti ne è il coronamento, l’apice dal punto di vista concettuale e della realizzazione. 

44. Marvin Gaye – What’s Going On (1971) Impostato come un concept album ispirato alla sorpresa e all’amarezza provate da un giovane soldato appena rientrato a casa (tratto dalle riflessioni provocate dalle lettere che lo stesso Frankie inviava alla sua famiglia dal fronte) What’s Going On si dipana senza soluzione di continuità lungo l’arco di nove brani, nei quali Gaye passa in rassegna con testi appassionati i mali del suo tempo. La titletrack si apre con un collage di voci concitate e con il ritmo languido e seducente della batteria e delle percussioni, sovrastate dal sax. È un disperato appello ad abbandonare la violenza e l’ostilità: “only love can conquer hate”, proclama Gaye, con parole un po’ naïf che risentono del più che decennale pacifismo di Martin Luther King. La domanda del titolo ritornerà costantemente nel corso dell’album, smorzando decisamente l’accusa sociale. Infatti, What’s Going On non è una paradossale chiamata alle armi per la pace e la convivenza civile tra genti diverse, ma sembra quasi una supplica maieutica alla dialettica, alla riflessione. Mettendo da parte l’amore erotico e l’emotività tipiche del soul e del funk, a cui peraltro ritornerà in futuro con un altro capolavoro, Let’s Get It On, e concentrandosi su un intenso e quasi innocente messaggio politico-spirituale, Marvin Gaye è riuscito a creare non solo un capolavoro della black music ma della musica tutta. Comprensibilmente, il discografico Berry Gordy non voleva saperne di pubblicare un singolo (originariamente scritto da Al Cleveland e da Renaldo “Obie” Benson) in cui Gaye raccontava di proteste anti Vietnam e di brutalità poliziesca, temendo forti ripercussioni sul piano commerciale, né tantomeno pubblicare un concept album, ma la tenacia di Marvin ha pagato con gli interessi. What’s Going On si è trasformato nel primo concept album della Motown e dell’intera scena soul, ed è stato aggiunto nel 2003 al National Recording Registry negli USA. 

43. Black Sabbath – Master of Reality (1971) Se si parla di Black Sabbath ci si riferisce necessariamente all’era Ozzy, quando, con cinque ottimi dischi, gli inglesi di Birmingham inventarono la musica pesante. Se si parla di quei cinque dischi, la mente va sempre al primo omonimo (pietra miliare del rock) o al secondo lavoro, Paranoid – merito di alcuni pezzi che potremmo definire in egual misura storici e abusati. E Master of Reality? Il terzo disco dei Black Sabbath è forse, a livello artistico, il più importante lavoro della band, quello che getterà le fondamenta di stoner, doom, sludge e dintorni. Rispetto al blues spiritato del primo disco e all’hard rock di Paranoid, Master Of Reality è lento, ossessivo, riprendendo così idee e atmosfere da “Black Sabbath” (la canzone). “After Forever” e “Lord of This World” faranno, a loro modo, scalpore per via delle tematiche cristiane trattate nei testi, “Solitude” è una ballad grondante atmosfera, “Children of the Grave” l’erede spirituale di “War Pigs”. Persino i colpi di tosse in apertura di disco, a introdurre il classico “Sweet Leaf”, diventeranno un trademark della band, ripresi e stravolti da centinaia di gruppi successivi, dagli Electric Wizard in giù. Master Of Reality è anche, probabilmente, il disco dei Black Sabbath che contiene più pezzi riproposti come cover dai gruppi più disparati; forse è questa la dimostrazione più lampante che, ferma restando l’importanza del debutto e la carica dirompente di Paranoid, il terzo disco dei quattro di Birmingham è la loro vera opus magnum. 

42. Michael Jackson – Off the Wall (1979) Si fa ancora un gran parlare della sua morte, quando ormai i più lo avevano dimenticato e gli pseudo-alternativi dell’ultima ora si affaticano a nascondere le loro copie di Thriller per non sentirsi feriti nell’orgoglio. Jacko prima di distruggere le classifiche mondiali con il suo album più noto, andava già rivoluzionando il pop da qualche anno, ripartendo dalla lezione motown che si era appena lasciato alle spalle per spopolare in discoteche bianche e nere. Soul, funk, jazz, r’n’b, pop: la formula di Michael è trascinante, inarrestabile, smuove anche il fondoschiena più lardoso. Jacko mette a punto il suo stile vocale, le sue movenze, il suo look, con i fidati Quincey Jones e Rod Temperton forgia quel sound unico che in così tanti hanno provato a replicare senza nemmeno scalfire il trono del Re del Pop. Come suona oggi “Don’t Stop ‘Til You Get Enough” suonano pochi altri pezzi mainstream, c’è da farsene una ragione. Il tempo gli ha dato ragione nonostante il mare di melma in cui era ormai affogato. Off the Wall fu l’inizio della sua ascesa, e pochi possono dire di aver cominciato allo stesso modo la propria scalata al successo. 

41. Brian Eno – Before and After Science (1977) Nell’anno dell’esplosione punk il padre fondatore della cosiddetta ambient music decide di pubblicare un album che per molti versi porta avanti la sua passione per certe sonorità pop. Si, pop. Certo, si tratta di un pop androide, estraniante, quasi beffardo: suona strano veder associato un simile artista, il quale può fregiarsi di collaborazioni con band diversissime come Cluster, U2 e Talking Heads solo per dirne alcune, a certe sonorità che possono persino risultare facili all’ascolto. Ma ad un’analisi più attenta si scopre che Before and After Science è più cerebrale che viscerale nella sua miscela di popolare e colto, di pop e avanguardia. La fama di Eno resta legata al 90 per cento alle sue collaborazioni con altre band in veste di produttore e ai dischi del suo periodo ambient ma i suoi dischi pop hanno messo in evidenza la sua capacità di accostarsi a forme decisamente più popolari e accessibili senza per questo tradire la propria personalità di folle sperimentatore.

40. Tim Buckley – Starsailor (1970) Troppe volte, cercando di parlare di Tim Buckley con il mio interlocutore di turno mi sono ritrovato a spiegare “Sai, è il padre di Jeff”. Troppe volte, davvero. Il solito destino infame si è messo di mezzo, facendo in modo che di uno dei più dotati e coraggiosi cantautori di ogni tempo sia venuto meno anche il ricordo, al punto da finire oscurato anche dall’exploit del figlio, talentuosa meteora del mondo rock. All’epoca in cui incise Starsailor, Tim era un ventitreenne cantautore di culto, tanto amato dalla critica quanto ignorato dal grande pubblico. Attraverso una manciata di dischi, tra i quali meritano di essere ricordati almeno Goodbye and Hello (1967) e Happy Sad (1968), Buckley era riuscito a forgiare uno stile assolutamente unico e personale, in perenne bilico tra cantautorato folk, psichedelia e jazz. Ascoltando i suoi album seguendo l’ordine cronologico, è possibile cogliere con facilità il coraggioso percorso musicale intrapreso da questo cantautore californiano, il quale aveva progressivamente deciso di allontanarsi dal folk rock di matrice più classica per esplorare una dimensione autenticamente nuova, lontanissima dalla forma canzone ed in cui la voce stessa era concepita come uno strumento musicale. Questo nuovo lavoro, pubblicato nel novembre del 1970, altro non è, quindi, che il punto di arrivo di un viaggio intrapreso diversi anni prima. 

39. Stevie Wonder – Innervisions (1973) Terzo album del periodo classico del genio polistrumentista di Stevie Wonder, periodo in cui, libero dalle costrizioni Motown, lascia le tematiche di semplici relazioni uomo-donna per raccontare le difficoltà dell’America a lui contemporanea, con canzoni sul sesso, sulla droga e sulla politica, nel mirino l’amministrazione Nixon. Wonder, che ha quasi interamente ideato, suonato e prodotto l’album, porta avanti il suo discorso funk influenzato da rock, blues e jazz facendo largo uso del sintetizzatore (portato nella musica nera proprio dal primo album della serie). Il risultato finale è un disco molto ritmato, con poche ballate pure che passa velocemente ma naturalmente da passaggi positivi ad altri di rassegnazione e viceversa (le storie di povertà sono anche di dignità, le storie sulla droga sono anche sulla frustrazione e sull’inutilità, quelle sui controsensi della società cristiana sono anche di totale devozione verso il messaggio di Cristo). Il mondo non è semplice e le facili vie d’uscita portano a storie tristi, ma, rimboccandosi le maniche, la vita è giusta e meravigliosa. 

38. Lou Reed – Transformer (1974) Lou Reed è stato innegabilmente un personaggio chiave – a volte anche in modo inconsapevole – del panorama rock, nonché un artista dalla personalità affascinante. Dai seminali album con i Velvet Underground al loro abbandono qualcosa era inevitabilmente cambiato, ma non si trattava certo della sua necessità di creare altra stupid music, come la definiva lui. Eppure l’esordio da solista non era stato troppo esaltante e rischiava addirittura di compromettere la sua futura vita artistica; evidentemente servivano stimoli esterni e aria nuova, visto che la rinascita avvenne grazie a David Bowie (suo grandissimo ammiratore) e alla scena glam rock inglese. Quell’ambiente diversamente decadente rispetto alla corte di Andy Warhol era perfetto per il Lou Reed del 1972, lì avrebbe potuto esorcizzare i propri demoni senza doverli necessariamente mettere a nudo; e proprio per questo la sua esperienza glam non ebbe lunga vita, dopo un po’ Lou avrebbe realizzato che si trattava di una maschera che non avrebbe potuto sopportare, una menzogna troppo grande che non avrebbe potuto rappresentarlo oltre. Ma in quel preciso momento era esattamente ciò di cui aveva bisogno. Con un nuovo look (necessario, faceva parte del gioco), una manciata di brani inediti scritti ai tempi dei Velvet Underground misti a nuove composizioni e il sostegno di Bowie e Mick Ronson, venne confezionato e pubblicato Transformer, con i suoi perfetti pezzi glam rock “Vicious”, “Andy’s Chest”, “Hangin’ Round”, “Wagon Wheel” e “I’m So Free”, il manifesto “Walk on the Wild Side”, le ballate “Perfect Day” e “Satellite of Love”. Congedandosi con “Goodnight Ladies” affiorava qualcosa di malinconico, ben mimetizzato in modo da non farlo notare troppo. “Oh, I’m still missing my other half. It must be something I did in the past”. Lou era rinato, Transformer ce lo aveva restituito in grandissima forma, ma doveva già trovare rifugio in altra musica.

37. Popol Vuh – In den Gärten Pharaos (1971) L’esordio Affenstunde era servito ai Popol Vuh per muovere i primi passi nel mondo della musica sperimentale, unendo elementi etnici alla Kosmische Musik che altra gente stava sviluppando più o meno contemporaneamente. Tuttavia le intenzioni di base non miravano esattamente a far progredire la musica attraverso sperimentazioni fini a se stesse, bensì all’elevarla su un piano trascendente, elaborarla sfruttando la potenza intrinseca dei suoni come insegnavano culture antiche, in modo che l’ascoltatore fosse in grado di trarne reale beneficio. La qualità dei risultati ottenuti dai Popol Vuh è data non solo dall’idea di base, dagli strumenti utilizzati e dal modo in cui è stata realizzata, ma anche dalla genuina necessità di Fricke di creare qualcosa di simile soprattutto per se stesso. Tutto questo è In den Gärten Pharaos, il primo capolavoro dei Popol Vuh. La strumentazione utilizzata per la sua creazione consisteva soltanto di Moog, percussioni, piano elettrico e organo. La titletrack nasce dall’acqua e ha termine nell’acqua; in mezzo, suoni alti e gravi che si inseguono su un delirio tribale, attimi di calma e ritorni sempre più coinvolgenti di sintetizzatori e percussioni, arrivando al punto in cui la lunga composizione sfocia in qualcosa di più armonioso, con accenni jazz, prima di spegnersi.

36. Nick Drake – Bryter Layter (1970) In fondo sono solo sette canzoni, intime quanto si vuole, ma restano canzoni. Eppure qualcosa scatta – non in tutti, è chiaro – quando col suo tono grave e sincero, Nick Drake decide di esporsi. Basta forse chiudere gli occhi e calarsi nel film, ascoltando l’introduzione e immaginando questo paesaggio rurale immerso nel verde, e tanta ombra dove rifugiarsi. Dev’essere scattato anche in lui: dopo l’esperienza di Bryter Layter, di fatto cesserà di fare musica per vincere la scommessa con le sue paure, e si spoglierà di tutti gli abiti che non lo avevano reso felice per un desolato congedo. Tutto il disco vive di quello che nell’immaginario collettivo verrà poi riconosciuto come il suo stile, a cui saranno poi paragonati un’infinità di cantautori designati come suoi eredi e presto passati di moda, o gruppi rock che decideranno di cimentarsi in una ballata alla Nick Drake. Il punto è che nessuno dopo di lui ha scritto una canzone come “Northern Sky”.

35. Bruce Springsteen – Darkness on the Edge of Town (1978) Il Boss abbandona in parte le strutture orchestrali e torna alla forma canzone, strofa-ritornello-strofa, più chitarre e meno jazz per un disco che ha varie cartucce buone da sparare. Come “Something in the Night” o “Racing in the Street”, per non parlare della stessa “The Promised Land”, che con la titletrack rappresenta un gruppo di gemme fra le più clamorose dell’intera carriera artistica di Bruce. Darkness on the Edge of Town rappresenta l’espressione massima della sua poetica di working class hero deluso dal Sogno Americano e costretto entro le contraddizioni e le ingiustizie di un Paese che pure riesce ad amare nelle sue realtà più umili e degradate. Il titolo parla chiaro: in confronto a Born to Run viene a mancare la luce alla fine del tunnel: rimane la scelta non più tra vincere o perdere, ma tra perdere con dignità o sprofondare nella disperazione, scomparire nel buio ai margini della città. Un tassello imprescindibile del rock americano dei Settanta. 

34. Neu! – Neu! (1972) Molto spesso ai Neu! è stato dato l’onore (e l’onere) di esser responsabili dell’influenza di una miriade di artisti successivi. Il motivo principale deriva dal fatto che il duo tedesco, una volta dipartito dagli amici/antagonisti di Düsseldorf, ha deciso di non perdersi d’animo relegando il loro lavoro ai confini dell’anonimato, ma contribuendo allo sviluppo di un nuovo genere di musica elettronica: forse con un’eco meno altisonante rispetto a quella suscitata dai colleghi Kraftwerk o Tangerine Dream ma apportando comunque un tassello importante dello stesso puzzle. I Neu! diventano i fautori di un genere minimale e ossessivo, più clinico e sperimentale rispetto alle sonorità più fruibili del gruppo di Schneider, eppure anche velatamente più rock. “Hallogallo” si erge a portabandiera di tutto ciò che i Neu! rappresentano e rappresenteranno per le future generazioni, in una litania meccanica ed ipnotica, mentre il basso marziale di “Negativland” e i suoi sferragliamenti di sottofondo anticipano di molto le sonorità new wave ed industrial di qualche anno successivo, tutto questo coesiste con atmosfere liquide e sperimentali che rendono questo disco l’apice dell’espressione dei Neu!

33. Faust – Faust IV (1973) I Faust si contraddistinsero immediatamente per il loro apparente scoordinato rumorismo, nonché per una ricerca che pareva quasi contraria alla musicalità, ma anche per il loro humor demenziale e canzonatorio. Dopo i vari esperimenti sonori degli album precedenti, il loro quarto disco oltre a segnare il definitivo passaggio della band alla neonata etichetta Virgin, è ritenuto il loro punto più maturo e consapevole, nonché il più accessibile e melodico. Dopo questo quarto disco a causa di svariate incomprensioni con l’ingombrante etichetta discografica i Faust spariranno dalle scene per un lungo periodo, ma anche dopo la loro reunion negli anni ’90 non saranno mai più in grado di ripetere la loro arte in capolavori come questo e il loro primo album, preferendo quindi concentrarsi maggiormente sull’attività live, scelta quanto mai azzeccata data la loro naturale predisposizione all’improvvisazione. La loro genialità e i loro modelli creativi si rifletteranno non solo in quei gruppi allora diretti concorrenti (anche i Can dopo il loro passaggio alla Virgin rischiarono di subire la supremazia dei colleghi di Wümme) ma anche in tutti quei gruppi che tenteranno di varcare i futuri orizzonti sonori del rock più sperimentale.

32. Led Zeppelin – IV (1971) Led Zeppelin III aveva fatto storcere il naso a critica e pubblico, Page e soci avevano dimostrato di non volersi cristallizzare nel blues rock del primo album né tantomeno nelle sferzate hard-rock del suo successore e la seconda via del gruppo, quella folk-acustica del terzo album, non era stata compresa e accettata. La voglia di riscattare le critiche era così tanta che il gruppo sembrava deciso a tirar fuori il meglio di sé per raggiungere l’immortalità e la consacrazione definitiva, a sfornare il disco della definitiva maturità. E questo è in primis Led Zeppelin IV: una sorta di vaso di Pandora che racchiude in sé tutte le caratteristiche del gruppo, il blues, l’hard rock e la dolcezza acustica dei tre predecessori, sapientemente mescolate e condite con quel pizzico di mistero che stava cominciando a serpeggiare sulla band. Ci sono dei dischi che restano immortali, diventano colonne portanti e la gente ti insegna a venerarli come tali, sospendendo ogni tuo giudizio critico nei loro riguardi, ma soltanto quando ti lasci completamente trasportare e travolgere dalla loro musica, diventi effettivamente consapevole del loro valore. 

31. Kraftwerk – Autobahn (1974) Era possibile proporre un prodotto costruito principalmente con strumentazioni elettroniche e che fosse allo stesso tempo realmente più vicino al formato canzone da classifica? Sarebbe stato possibile proporre al grande pubblico non del rock contaminato dall’elettronica, ma dell’elettronica contaminata dal pop? Ralf Hütter e Florian Schneider di Düsseldorf, in arte Kraftwerk, riuscirono a concretizzare questa idea, anche se forse le loro intenzioni iniziali non erano esattamente queste. Autobahn fu il primo passo vero e proprio di una rivoluzione che avrebbe trovato piena realizzazione soltanto dopo. L’opera più importante dell’album, neanche a dirlo, è la titletrack, un componimento incentrato sul tema del viaggio sull’autostrada; concettualmente si va dalla messa in moto all’arrivo in autostrada e al viaggio vero e proprio, con tanto di auto che sfrecciano nel senso opposto, clacson, autoradio, momenti di noia e stanchezza dettati dalla monotonia. Il testo, nella sua semplicità, continua a suggerire la celebrazione del progresso che va ad integrarsi con la natura: l’autostrada e i suoni elettronici contro un paesaggio di campagna (irreale, la natura viene imitata e sostituita dalla tecnologia) e la voce umana (meccanica e dal colore nuovo), in un contrasto che diventerà molto caro al gruppo. Il brano principale venne poi editato per essere adattato al formato singolo da 3 minuti, in una operazione fatta a discapito della genialità di fondo della concezione globale dell’opera ma che ne determinò il vero e proprio successo: la canzone elettronica era finalmente nelle alte posizioni delle classifiche americane ed inglesi, e rappresentava una vittoria sia per i Kraftwerk sia per la musica a venire.

30. Tom Waits – Small Change (1976) Apice del suo periodo jazz blues, compimento di un percorso che da lì in avanti andrà mutando e contaminandosi a un ritmo impressionante, Small Change è il disco-Bukowski di Tom Waits. Ricolmo d’alcol fin dai titoli dei suoi pezzi più famosi (“The Piano’s Been Drinking”, “Not Me”, “Bad Liver and a Broken Heart”), colto nel suo citare in egual misura il noir e Louis Armstrong, Small Change è anche uno dei dischi più emotivamente carichi di Thomas Alan Waits. Sarà merito dell’interpretazione vocale, finalmente avviata sulla strada della vera maturità, o dell’essenzialità degli arrangiamenti (piano, voce e armamentario jazz assortito), fatto sta che Small Change è ancora, a distanza di trent’anni, uno dei punti più alti della carriera del cantautore americano. 

29. Bob Dylan – Blood on the Tracks (1975) Chissà cosa sarebbe successo se Dylan non avesse scartato gran parte del materiale (registrato a New York) poco prima della pubblicazione. Forse non staremmo parlando di un disco in grado di fare concorrenza ai capolavori degli anni ’60. In un periodo difficile e tumultuoso della sua vita (il divorzio dalla moglie Sara Lownds era ormai alle porte), il menestrello di Duluth si trova a riflettere come forse non aveva mai fatto sull’amore, tema centrale delle liriche dell’album. Dalla vivace “Shelter from the Storm” alla rabbia di “Idiot Wind”, senza tralasciare la celebre “Tangled up in Blue”, l’elemento portante del sound di Blood on the Tracks sono le pennellate acustiche che vengono disegnate con grande eleganza dalla chitarra di mister Zimmerman. Ad accompagnarle, senza mai però toglierle dal centro della scena, strumenti quali organo e tastiere, basso e batteria: puntellano gli arrangiamenti, ma ne sono al tempo stesso elementi fondamentali (basti pensare all’organo dell’epica Lily, Rosemary and the Jack of Hearts). Tra testi di grande maturità e sapienza musicale, Blood on the Tracks è, in buona sostanza, passaggio obbligato nell’approfondimento della carriera di Bob Dylan.

28. Leonard Cohen – Songs of Love and Hate (1971) Il terzo album del cantautore canadese è un lavoro di un’intensità sconvolgente. Dall’iniziale “Avalanche”, che stabilisce subito il tono del disco con nervosi accordi di chitarra ad accompagnare un canto dimesso ma al tempo stesso struggente, alla finale “Joan of Arc”, dedicata all’eroina francese e coverizzata anche da De André, non c’è un attimo di respiro. È un viaggio negli abissi dello spirito umano, con un umore rassegnato e malinconico. È un disco minimale negli arrangiamenti, ma incredibilmente complesso a livello testuale, con liriche così ricche e piene di figure retoriche da poter far invidia a Bob Dylan. L’immortale “Famous Blue Raincoat” è il capolavoro nel capolavoro: un altissimo momento di poesia, una storia estremamente umile e terrena che si colora di un significato molto più universale, quasi metafisico.

27. King Crimson – Red (1974) È l’ottobre del 1974 quando Red arriva nei negozi, ma i King Crimson non ci sono già più. Sono svaniti decretando la morte di una stagione del progressive. Loro, che il progressive lo avevano generato. Nel buio pesto del ritratto, i tre sembrano rischiarati dalla consapevolezza di chi si arrende a testa alta alla morte, disposti ad incamminarsi di nuovo quale che sia il nuovo percorso, se ve n’è uno. I King Crimson salutano, non senza rilanciare per l’ultima volta le coordinate di un genere ormai prigioniero degli eccessivi cliché sinfonici, nonché del tutto anacronistico in un rock che si muove in direzioni sempre più distanti da quel che Fripp e i suoi soci avevano fondamentalmente contribuito a forgiare. Red è un commovente omaggio a se stessi, una fine dei giochi che riporta indietro e va oltre i King Crimson. Il senso di malinconia che pervade i quaranta minuti dell’opera è infatti enfatizzato dal richiamo alle armi di alcuni dei maggiori protagonisti dell’arco che in un lustro ha portato di volta in volta Fripp esattamente dove la propria logica di artista e fruitore di musica richiedeva, anche a costo di perdere credito e attenzioni. 

26. Neil Young – Harvest (1972) Una copertina semplice, quasi banale, con quella sfumatura color crema e quella sorta di sole stilizzato sullo sfondo a far da risalto ad un titolo in qualche modo solenne (dato il carattere utilizzato) come Harvest, ovvero raccolto, vendemmia. Il riferimento alla campagna non è casuale. Everybody Knows This Is Nowhere aveva messo in mostra le doti cantautorali di Young, accompagnato dai Crazy Horse, e una certa propensione per un sound hard rock diretto e chiassoso, perfetto complimento per i suoi racconti di solitudine e angoscia. After the Gold Rush ruppe con il diktat di quell’album, proponendo sonorità decisamente più struggenti e vicine al folk. Harvest, si può dire, è un altro passo in un processo evolutivo che porterà Young a sperimentare addirittura con synth e vocoder. Neil Young è stato (ed è) uno di quei cantautori che, al fianco di personaggi come Bob Dylan, Patti Smith e Cat Stevens (per nominarne alcuni) hanno raccontato le sofferenze e le difficoltà della vita, fra droga, solitudine e isolamento, senza l’enfasi politicizzata e surreale del primo, della visionarietà della seconda e (spesso) della pacata domesticità del terzo, ma con un nervosismo e una disperata ricerca di catarsi che possono dirsi soltanto sue.

25. Roxy Music – For Your Pleasure (1974) Il glam attraverso la loro musica diventa quasi un genere a se stante, da alcuni sinteticamente battezzato art rock, un genere in cui non sono solo teatralità, maschera e decadenza a fare la differenza. Se l’omonimo debutto ridisegnava il rock all’insegna della poesia maledetta, For Your Pleasure, l’ultimo lavoro targato Roxy Music a vedere la partecipazione di Brian Eno, è il suggello della loro arte, marchiato a fuoco da quel tocco di genio di cui si sentiva la mancanza nel predecessore, nonostante la sua innegabile classe. In For Your Pleasure Bryan Ferry e soci abbracciano la notte, ma piuttosto che cercarne gli aspetti lugubri, ne risaltano il fascino misterioso. Non abbandonano il glam, ma lo trascinano laddove difficilmente potrà arrivare dopo di loro, in luoghi tanto eleganti quanto unici, per fare in modo che l’ascoltare volente o nolente cammini verso la perdizione insieme a loro.

24. Patti Smith – Horses (1975) Il desiderio di comunicare della Smith divenne, così, il punto d’incontro fra la nobile Poesia e l’immediatezza della Musica. E da lì, la strada fu in salita e ricoperta di fiori rossi di furia e rabbia. Caratteristica stessa della voce della Sacerdotessa del Rock, sempre animata da quel ritmo primordiale che porta la gente ad aggregarsi e condividere. In fondo, Horses è semplicemente questo: il perfetto crocevia fra la pluralità di influenze musicali in esso contenute ed il veicolo con cui Patti riesce a parlarci, in qualsiasi posto e condizione ci troviamo. Nove tracce che volgono lo sguardo al mondo dopo aver scrutato a lungo nella propria anima, divenuta parte dell’universo stesso. Ed è, probabilmente, dalla dirompente sensazione che spinge a far qualcosa per ciò che si ha attorno che nel ’75 Horses vede la luce, in poco più di tre quarti d’ora di durata. Proprio come le liriche di Charles Bukowski colpiscono a fondo e ci privano del fiato, i testi di Patti Smith prendono le sembianze di ruggenti leoni. Portatori di inni da sbandierare per strada, o da appuntare sulle pareti della propria camera, al riparo da un mondo disgraziatamente crudo. 

23. Queen – A Night at the Opera (1975) Ritenuto più a ragione che a torto l’album più rappresentativo della Regina, A Night at the Opera consacra definitivamente al grande pubblico il talento dei quattro londinesi, destinati a vivere una delle più straordinarie e drammatiche avventure che il rock abbia mai conosciuto. È il disco di “Bohemian Rhapsody”, manifesto della poetica d’intenti dei Queen e una delle canzoni di maggior successo nella storia del rock, ma anche la dimostrazione che Mercury e soci non sono arrivati troppo tardi rispetto a Led Zeppelin e Bowie. Se le qualità superiori di Mercury al piano e May alla chitarra erano già state notate nei primi lavori, è con A Night at the Opera che i Queen diventano una band di caratura internazionale, cementando uno stile del tutto personale ancora oggi difficilmente replicato ed imitabile. Le canzoni confluiscono l’una dentro l’altra, come se l’album fosse una matriosca fatta di passaggi sinfonici, stravaganze pop, schitarrate proto-metal e racconti acustici che sopraggiungono simultaneamente ad un nucleo che racchiude l’essenza di tutto quanto avvenuto prima, “Bohemian Rhapsody” appunto. Un disco dall’animo frivolo, romantico e sfrontato, che tradisce con ironia un profondo senso di solitudine. A Oscar Wilde sarebbe senz’altro piaciuto. 

22. Vashti Bunyan – Just Another Diamond Day (1970) Just Another Diamond Day è il primo LP di Vashti Bunyan. Artista bucolica, songwriter londinese di culto, ma quasi senza saperlo. Voce flautata e arpeggi delicati, folk, intimisti. Vashti è l’esatto esempio di colonna sonora da narrazione di una favola perduta nel tempo, come in “Where I Like to Stand”. Anticipatrice dell’arpa celtica di Enya; si sente più l’Irlanda che l’Inghilterra in Vashti. Linee armoniche delicate, dolci, pure e senza influenze; diciotto piccole tracce da portare nel cuore. Piccole canzoni, piccole emozioni, piccole perle da custodire sotto al cuscino, come la preparazione di un sogno bellissimo. Uno dei veri classici del folk, ancora appannaggio del solo pubblico di genere. 

21. Pink Floyd – Dark Side of the Moon (1973) Quarantacinque milioni di copie vendute nel mondo. Terzo album di sempre come vendite. Quindici milioni di copie nei soli Stati Uniti (mercato atavicamente ostico alle band inglesi). Oltre settecentosessanta settimane di permanenza nella classifica billboard. Sono le impressionanti cifre di Dark Side of the Moon. Ma non sono le cifre a rendere grande un’opera. Pubblicato il 24 marzo del 1973, l’ottavo disco in studio dei Pink Floyd segna un deciso cambio di rotta nella direzione musicale intrapresa dalla band. I quattro d’oltre manica (Mason alla batteria, Wright alle tastiere, Gilmour alla chitarra e voce e Waters basso voce) passano dalla psichedelia degli esordi ad un rock\pop di sapore ambient, firmando Il concept per eccellenza. Ebbene sì, Dark Side of the Moon non può essere definito di certo il primo “concept album” della storia, ma di sicuro è il più importante. E se dal punto di vista della composizione musicale l’opera pare equamente distribuita tra i quattro membri del gruppo, non altrettanto si può dire della concezione lirica. Da questo disco e, in maniera ancora più spiccata sul successivo “Wish You Were Here”, Waters si erge a mente lirica della band espandendo esponenzialmente il suo dominio e il suo pensiero fino a far diventare i Pink Floyd un suo personale dominio.  

20. Talking Heads – Fear of Music (1979) Dopo Talking Heads: 77, il suono della band di David Byrne era andato evolvendosi col successivo More Songs About Buildings and Food, prodotto da Brian Eno, il quale sarebbe andato a mettere le mani anche sui due album che sarebbero venuti. Non ci si meravigli, dunque, se alcuni brani di questi Talking Heads hanno qualcosa in comune con il Bowie berlinese, ed è anche evidente come la mano di Eno sia riuscita a valorizzare le ottime premesse del disco d’esordio, arricchite via via con elementi nuovi e diversi. Di Fear of Music si può parlare come un ottimo album senza nulla togliere ai dischi che lo avevano preceduto; contiene grandissimi pezzi come l’esotica “I Zimbra”, la ritmata giungla metropolitana di “Cities”, l’inquieta “Memories Can’t Wait” o “Drugs”, sospesa su un tappeto di tastiere. I testi di Byrne erano centrati sulla vita di città, la carriera, lo stress dell’uomo moderno, preso dal lavoro e dalle sue fobie, incapace di prendere sonno, e se all’inizio i toni erano prevalentemente descrittivi e ironici, col tempo andavano sfociando sempre più nella nevrosi.

19. Can – Tago Mago (1971) Tago Mago, terzo album della band di Colonia, è considerato il disco simbolo di tutta la scena tedesca dell’epoca. Formatisi verso la metà degli anni ’60, i Can nascono grazie all’incontro fra il bassista Holger Czukay, cresciuto musicalmente alla corte di Stockhausen, e il funambolico tastierista Irmin Schmidt. A loro si aggiungeranno il batterista free-jazz Jaki Liebezeit e il chitarrista poco più che adolescente Michael Karoli. All’inizio viene reclutato alla voce Michael Mooney, che abbandonerà il gruppo per problemi di salute (mentale) dopo il secondo disco Soundtracks (1970). Al suo posto arriverà il giapponese Kenji Damo Suzuki, leggenda vuole incontrato casualmente davanti ad un bar. La venuta di Suzuki darà un tocco straniante ulteriore al già alienante sound della band, precedentemente autrice di album più legati alla forma canzone, ma non per questo meno affascinanti. Al tempo come adesso, Tago Mago può risultare ostico e indisponente (soprattutto dalla metà in poi), per via delle sue poche aperture alla melodia, delle avventurose improvvisazioni in fluire dettate dall’ebbrezza strumentale del momento e dell’avanguardistico utilizzo della drum machine, scelta coraggiosa in ambito rock. Ma proprio per tali caratteristiche è un disco che non lascia indifferenti neanche gli ascoltatori casuali; non si può non dare un giudizio sulla musica in esso contenuta, in bene o in male.

18. Pere Ubu – The Modern Dance (1978) La danza moderna degli americani Pere Ubu torna sempre, regolarmente, da diversi anni ormai. E’ davvero impossibile non riconoscere la massiccia influenza di David Thomas e compagni: psichedelia, noise, Velvet Underground e primi Pink Floyd, un pò di jazz e un pizzico di blues, un pò di cantautorato, invenzioni vocali, combinazioni di riff ed elettronica, teatralità, e non si finirebbe più. Un album chiave, punto di non ritorno per la new-wave tutta, che conserva intatto a distanza di quasi trent’anni il suo immenso valore e che spesso viene dimenticato per inneggiare alla presunta genialità di artisti posteriori ai Pere Ubu. Alcune invenzioni di The Modern Dance sono facilmente ritrovabili anche nell’esplosione indie del dopo duemila, ed è incredibile come una delle band più importanti degli anni ’70 venga spesso dimenticata a favore di altri nomi che non sempre hanno apportato una svolta simile alla musica rock. Se guardiamo al panorama cosiddetto alternativo nato sul finire degli ’80 ed esploso nei ’90, troviamo artisti che candidamente riprendono queste soluzioni, questo impianto rumoristico, evolvendolo magari, ma senza discostarsi troppo dal lavoro dei Pere Ubu. Impresa non facile del resto, perchè gli Ubu hanno confezionato in poco meno di quaranta minuti una quantità di idee notevole, mescolando sapientemente un ventennio abbondante di musica per riscriverlo secondo le loro distorte visioni sul mondo che ci circonda.

17. Brian Eno – Another Green World (1975) Brian Eno si è sempre definito un non musicista. Eppure, ascoltando i suoi capolavori, viene spontaneo contraddirlo: non solo è un musicista coi fiocchi, ma è anche uno dei più originali ed influenti di tutti i tempi. Another Green World ha più di quarant’anni, ma suona ancora oggi vivo, fresco, attuale. Al suo interno troviamo un po’ tutte le componenti della musica di Eno: splendidi pezzi di pop elettronico, un gusto prettamente glam, brevi paesaggi sonori di stampo ambient (discorso che approfondirà meglio in seguito, creando di fatto un nuovo genere). La line up, poi, è a mani basse tra le migliori di sempre: tra gli altri troviamo John Cale alla viola, Robert Fripp alla chitarra, Phil Collins alla batteria… tutti ovviamente coordinati dal genio visionario di Eno, che con questa opera abbandona idealmente la sua epoca per proiettarsi (e proiettare i suoi ascoltatori) nel futuro. 

16. The Rolling Stones – Exile on Main Street (1972) Un nuovo viaggio verso le radici, con pochi sussulti ma tanta sostanza. Ruvido e carico di puro spirituale del rock, è probabilmente più di ogni altro l’album di Keith Richards. La sensazione è quella di un disco registrato in presa diretta, per la serie “attacca il jack e suona”. Non mancano i momenti divenuti nel tempo dei classici minori della band, come “Sweet Virginia” e “Shine a Light”, per non parlare di quella “Tumbling Dice” ancora oggi immancabile nei concerti dei dinosauri del rock, eppure all’epoca questo doppio vinile fu salutato con minore entusiasmo sia rispetto al precedente Sticky Fingers che al successivo Goat Head’s Soup, entrambi capaci di fornire dei singoli più avvincenti, ma allo stesso modo lontani dalla compattezza di suono di Exile on Main St. Negli anni si è potuto tristemente notare come questo disco sia in realtà l’ultimo vero capolavoro dei Rolling Stones, solo a corrente alternata poi in grado di tornare alle eccellenze dei loro primi episodi. Exile on Main St. rappresenta dunque lo spartiacque definitivo tra la leggenda e la storia ancora attuale. 

15. Popol Vuh – Hosianna Mantra (1972) All’epoca non ci fu nemmeno il tempo di soffermarsi sull’incredibile salto compositivo e stilistico di cui Hosianna Mantra si faceva significante. In den Gärten Pharaos, capolavoro di quella che poi fu definita Moog Music – dal nome del creatore del tipico sintetizzatore strumento più caratteristico e grande scoperta di un’intera stagione musicale – era stato pubblicato appena l’anno prima e aveva rappresentato, per quei relativamente pochi che lo avevano ascoltato, l’apice di un nuovo modo di intendere la musica, lontano, lontanissimo dagli stilemi pop inglesi ed americani. Ora, subito, Hosianna Mantra scombinava di nuovo le carte in tavola, proponendo un nuovo linguaggio musicale. A partire dal titolo, l’obiettivo di Fricke era quello di fondere in musica l’esperienza religiosa, intesa nella sua unicità anche a fronte di credenze e astrazioni diverse. Hosianna e Mantra, due parole provenienti da culture religiose diverse, unite in un unico flusso dall’avventuriero del suono – e dell’animo umano – Fricke, shamano e diacono del rock contemporaneamente. Se nel tempo Hosianna Mantra è stato definito come un’anticipazione della musica New Age, è dunque altrettanto vero che l’idea originale di fusione di stili provenienti da diverse culture poteva essere etichettata all’ora come oggi come un’originaria world music. 

14. King Crimson – Islands (1971) Islands è il capolavoro nascosto della band di Robert Fripp. Quanto all’aggettivo, esso intende sottolineare come spesso se dici King Crimson dici In the Court of the Crimson King o al massimo Red e Discipline; è vero che l’appassionato della musica di Fripp e del progressive in generale sa benone del valore di un album così affascinante, ci mancherebbe. Non è però altrettanto noto presso le recenti generazioni incamminate al sempre più lungo e tortuoso viaggio alla riscoperta dei classici del rock: sanno che nel 1971 è uscito il quarto album dei Led Zeppelin, e se va bene conoscono anche Hunky Dory, ma non Islands. La parola capolavoro invece va da sé, con la musica incisa dalla quarta formazione diversa su quattro dischi dei King Crimson. Serviva infatti una nuova band in grado di portare sul palco da cui mancavano da due anni – un’enormità allora, routine oggi – le nuove idee del maestro Fripp. Islands è il passo successivo del pur suggestivo Lizard, riesce ad andare oltre e ad immortalare qualcosa che va oltre il concetto di rock, quindi certo anche di progressive. Un’opera ambiziosa eppure mai autoindulgente, in grado di ammaliare per tutta la sua durata con la sua eleganza. 

13. Throbbing Gristle – 20 Jazz Funk Greats (1979) Così come un soggetto può scegliere di trasformare il proprio corpo in maniera tale da non essere più un uomo e nemmeno una donna, rifiutando di appartenere al genere umano, lo stesso vale anche per la musica: continuando a pensare a nuove possibilità, nuove forme diverse senza dover piacere per forza, l’importante è essere onesti con sè stessi. La stessa onestà che porta i TG a muoversi in territori personali, o di dolore, analizzando materiali che riguardano ossessioni odierne, scavando nelle nostre paure, nei disagi della condizione umana, senza pensare alle possibili ripercussioni. 20 Jazz Funk Greats esplora l’avanguardia rumoristica, industriale ed elettronica. Abbandona solo in parte la furia claustrofobica dei lavori precedenti, ma nel suo essere imprevedibile decompone e rimescola i concetti base della loro sperimentazione, servendosi di più della forma-canzone. Immagini pornografiche o campi di concentramento nazisti, sempre ossessionati dalla perversione nel senso più ampio della stessa, sempre pronti a varcare il confine tra il lecito e l’illecito, i TG sono stati spesso additati e censurati. Ma il loro scopo non era quello di shockare o desensibilizzare le masse attraverso la mera trasgressione, al contrario il tutto è finalizzato ad aprire le menti, abbattere le barriere e indurre l’individuo a pensare in maniera differente, sia per quanto riguarda l’attitudine musicale sia per quanto riguarda in generale la propria esistenza. 

12. David Bowie – The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders From Mars (1972) Un alieno sbarca su una Terra ormai prossima alla fine nel disperato tentativo di salvarla. Lo stravagante essere alla fine riuscirà nell’impresa, ma il prezzo da pagare sarà per lui altissimo: dovrà immolare la sua stessa vita sull’altare del rock’n’roll. Questa in estrema sintesi la favola di Ziggy Stardust, disco che consacrò come star assoluta David Bowie. Nelle undici tracce che compongono questo lavoro si possono rinvenire con facilità tutti i tratti peculiari di quello che venne ribattezzato glam rock: voci effeminate, melodie lineari e di pronta presa, arrangiamenti molto elaborati, chitarre all’occorrenza aggressive. Per costruire la sua maschera, Bowie prese ispirazione dal comportamento di alcuni artisti dell’epoca, noti e meno noti: Ziggy è a tutti gli effetti la parodia di divi universalmente conosciuti come Mick Jagger, Lou Reed e Mark Bolan. Una volta divenuto una “Star” di prima grandezza, Ziggy Stardust, come raccontato nel brano omonimo, si dimostrerà però assolutamente incapace di sostenere l’enorme peso della fama conseguita e inizierà a perdere il controllo della propria esistenza. Fino all’inevitabile finale: con un melodrammatico “Rock and Roll Suicide” l’alieno deciderà di togliersi la vita e porre fine alle proprie sofferenze, entrando definitivamente, anche grazie a questo gesto estremo, nell’Olimpo dei grandi miti della musica rock.

11. Gang of Four – Entertainment! (1979) In quel breve ma intenso periodo che chiudeva gli anni ’70 rivoluzionando violentemente i canoni del rock, anche i Gang of Four di Leedsproposero la loro personale visione post punk. Ispirati, tra gli altri, dai contemporanei Television e dai movimenti di protesta della loro città, trovarono la loro dimensione filtrando il concetto di punk attraverso funk e dub, realizzando un mix che, detto tra parentesi, riuscì a conquistarsi una grande ammirazione da parte di diverse icone rock dei decenni successivi, tra le quali spiccavano ascoltatori molto attenti come Micheal Stipe e Kurt Cobain – mica due a caso. A condurre i giochi di Entertainment! era la lotta dissonante tra il basso di Dave Allen, la cui presenza veniva fortemente evidenziata in quanto elemento portante di tutto il disco, e la chitarra di Andy Gill, una lama vera e propria. Come spesso era (e sarebbe ancora) accaduto, si trattava di musica nera che veniva tinta di bianco. Anzi, di rosso, data l’influenza di alcuni aspetti delle teorie marxiste sulle liriche di Jon King. L’indiano sorrideva convinto che il cowboy fosse suo amico, il cowboy sorrideva perché stava per farlo fesso: questo era il messaggio in copertina, e diceva già molte cose sull’attitudine mentale del ritmatissimo punk funk dei Gang of Four. Per oltre trent’anni, Entertainment! è stato una preziosa fonte di spunti e ispirazione. Quale miglior prova della sua freschezza? 

10. Black Sabbath – Black Sabbath (1970) Che Black Sabbath non sia un album come tanti lo si può facilmente intuire anche solo osservando la copertina: una chiesa in mezzo alla campagna, il sole al tramonto a disegnare inquietanti giochi di luci ed ombre, e lì in mezzo Lei: una donna misteriosa, totalmente vestita di nero e con il capo coperto da uno scialle, che sembra sia lì ad aspettarti. Non si sa chi sia e cosa voglia, ma un’aurea di negatività pare circondarla ed il suo aspetto è decisamente poco rassicurante. Bisogna avere davvero tanto coraggio e un po’ di sana incoscienza per decidere di seguirla. Non è un caso che questo disco si apra con un brano intitolato proprio “Black Sabbath”: tanto per mettere subito le cose in chiaro, Ozzy e soci decidono di iniziare con quello che a tutti gli effetti può essere considerato il loro manifesto programmatico. Qualcuno dice che dentro a questo disco c’è tutto il metal, o buonissima parte di quello a venire nei tre decenni successivi. Non è lontano dalla verità. Benvenuti all’interno di un incubo, il loro incubo. 

9. Television – Marquee Moon (1977) Le taglienti sovrapposizioni di chitarra di Tom Verlaine e Richard Lloyd difficilmente trovano uguale e conservano intatto il loro fascino dopo tutto questo tempo, stupendo oggi come allora. Mentre basso e batteria si muovono su standard definiti, le chitarre giocano e si intersecano continuamente, lasciandosi andare ad assoli che nulla hanno a che spartire con la precedente ondata hard rock. Tutto l’opposto: rivestono di elettricità aguzza un blues più che un rock, e distorgono semplici ballate fino a trasformarle in cavalcate acute e affascinanti. Non siamo di fronte a mero esibizionismo, ma a qualcosa di più mirato: le note sono contate e vengono trattenute, per poi essere rilasciate e riportare la canzone dove si era fermata. In otto pezzi ci sono abbastanza idee per scrivere altri tre o quattro dischi. E la bellezza dell’opera sta nella creatività di ogni sua singola parte: anche spogliando le canzoni dei loro incredibili riff, rimangono melodie che restano nel tempo, liriche assolutamente non trascurabili che denotano la passione per il decadentismo e il romanticismo di Verlaine (da cui appunto lo pseudonimo). 

8. Neil Young – On the Beach (1974) On the Beach non è solo un disco. È una vera e propria esplorazione all’interno dell’anima e del cuore di Neil Young, che in questo intensissimo album si mette definitivamente a nudo, come in una seduta psicanalitica. Vengono analizzati eventi che tra di loro hanno in comune solamente una struggente tristezza di fondo: il fallimento della politica americana, la fine dell’utopia hippie, la morte per eroina degli amici Danny Whitten e Bruce Berry, la fine della relazione con l’attrice Carrie Snodgress. A volte quasi dimenticato rispetto ad altri episodi memorabili della sua discografia anni ’70, si tratta in realtà di un autentico capolavoro, nel quale i testi (mai così visionari) si fondono alla perfezione con un accompagnamento musicale spettrale di chiara ispirazione blues. Nota a margine per il pezzo finale, “Ambulance Blues”, nove minuti di immagini devastanti che si susseguono l’una dietro l’altra lasciandoci una fortissima sensazione di malinconia, ma al tempo stesso la consapevolezza di aver ascoltato qualcosa di meraviglioso ed irripetibile.

7. Suicide – Suicide (1977) Alan Vega (vocals) e Martin Rev (tastiere e synth) compongono un duo che non potrebbe essere più lontano da certi atteggiamenti codificati e pseudo-punk, nonostante i loro live, fitti di provocazioni e insulti rivolti al pubblico, finiscano regolarmente in rissa. Non ci sono le chitarre, innanzitutto. Nè i proclami all’anarchia, e neppure le urla e gli sghignazzi malefici di un Johnny Rotten. La loro musica, invece, ha qualcosa di metafisico, di inafferrabile. Suicide è una di quelle opere d’arte che si pongono in contrasto aperto con le regole del mercato discografico, e non finiscono qui i paralleli con la band di un certo Lou Reed. Stessa nevrosi, stessa capacità di sintetizzare il dolore e l’alienazione in forme musicali estranianti e stordite. Il ritmo martellante e le pulsazioni ossessive del synth in “Ghost Rider” formano un’ottima introduzione ai toni e ai contenuti dell’album: la voce di Vega è una cantilena nervosa e gelida, echi e riverberi si intrecciano, ogni tanto spunta qualche urletto surreale. E quella frase, terribilmente semplice: “America is killing its youth”. Perchè di questo si cibano i brani di questo disco: il potere, l’avidità, la solitudine.  

6. Robert Wyatt – Rock Bottom (1974) Rock Bottom è la discesa nell’abisso più profondo e al contempo la risalita dell’anima: “Into the water we’ll go, head over heel”. L’ambiente e l’immaginario marino aiutano Wyatt ad esprimere i propri sentimenti, a rinascere come artista rimanendo servo e caro alla propria vita. L’apertura è dedicata alla canzone del mare, in cui danza ondeggiante un lirismo confuso e turbato, sulle note di una tastiera e del basso dell’amico Robert Sinclair. Il flusso sonoro è ininterrotto ed ogni brano si immerge e trova una soluzione nel successivo. In “A Last Straw” l’umore stralunato lascia il posto alle immagini del sommerso, con un accompagnamento dalle sfumature soft jazz. “Little Red Riding Hood Hit the Road” coi suoi sprazzi di tromba e il suo ritmo incalzante rappresenta la discesa a picco verso il fondale, in cui l’uomo Robert troverà la sua ragione. E’ laggiù che Wyatt scrive alcune delle pagine più toccanti della musica progressive: i virtuosismi contrapposti ai respiri in “Alifib” segnano uno dei vertici di un genere che in quegli anni sta morendo. La contigua “Alife” scardina ancora il formato-canzone e l’ordinaria metodicità nel comporre melodie pop, grazie ad un interpretazione vocale marziana e ai graffi e le carezze del clarinetto (ora basso, ora tenore) di Gary Windo. Formidabile, immortale. “Little Red Robin Hood Hit the Road” decreta la resurrezione, in un ambiente a metà tra il sogno crimsoniano e la fantasticheria dei Genesis, dove emergono la chitarra di Mike Oldfield e la voce dalla strana cadenza sovietica di Ivor Cutler a rispondere agli interrogativi di Wyatt, ormai rigenerato da nuova vita. Rock Bottom è il punto di arrivo e la soluzione della scena di Canterbury. Un inno alla propria persona e al coraggio di guardare oltre la follia e l’imprevedibile corso degli eventi.  

5. Nick Drake – Pink Moon (1972) Sapeva che era la sua ultima possibilità e, nonostante le precarie condizioni psichiche, era riuscito a trovare dentro di sé la forza e la concentrazione necessarie per apprestarsi ad incidere quello che a tutti gli effetti può essere considerato il suo capolavoro più puro. Così una sera, intorno a mezzanotte, il musicista si presentò con la sua chitarra acustica presso lo studio di registrazione, dove si trovava il solo John Wood, si sistemò ed, incredibilmente, eseguì, una di seguito all’altra, tutte e undici le canzoni che faranno parte del disco. La seduta non durò che un paio d’ore: appena finito Nick salutò e se ne andò. Tornò presso gli studi solamente alcuni giorni dopo per aggiungere poche note di pianoforte alla titletrack. L’album per lui era perfetto così, non aveva bisogno di niente altro. Con i suoi trenta minuti scarsi, Pink Moon è a tutti gli effetti uno dei dischi più intensi del folk acustico britannico. Tanto conciso e semplice quanto pieno di significato. Se fosse ancora tra noi, probabilmente stenterebbe a credere ai propri occhi vedendo di essere diventato un cantautore di culto, punto di riferimento dichiarato di tutta una generazione di musicisti e con milioni di estimatori in tutto il mondo. Ciò che colpiva maggiormente di Nick non era soltanto la voce calda e l’incredibile abilità con cui era in grado di suonare la chitarra acustica, ma soprattutto la profonda vena poetica, la capacità di mettere a nudo la propria anima nei pezzi in cui scriveva. 

4. Kraftwerk – Trans-Europe Express (1977) Se Autobahn era stata la prima mossa concreta verso la costruzione di brani su architetture elettroniche, Trans-Europe Express del 1977 ne rappresenta la definizione più alta. Radioactivity aveva regalato alle classifiche la hit omonima (e fondamentale), ma rimaneva fin troppo orientato verso una serie di effetti evocativi piuttosto che su canzoni vere e proprie. Il nuovo lavoro dei Kraftwerk proseguiva invece sulla scia della “Radioactivity” canzone, gettando le basi, assieme ad altri album del periodo, di una grande porzione della musica che avrebbe fortemente caratterizzato il decennio successivo. Hütter e Schneider, secondo la leggenda, furono folgorati dall’idea concettuale di base durante un pranzo al Le Train Bleu, un ristorante situato all’interno dell’importante stazione Gare de Lyon di Parigi e stilisticamente dedicato ai fasti della vecchia Europa. Il contrasto tra la potenza di mezzi di trasporto sempre più potenti e l’eleganza dei tempi che furono non poteva non solleticare la fantasia delle due menti del gruppo. Trans-Europe Express gioca esattamente su questi elementi. 

3. Wire – 154 (1979) Le registrazioni di 154 risultarono un’esperienza psicologicamente prosciugante, che portò tuttavia ad un album in cui il punk andava anche oltre le venature dark dei Joy Division di Unknown Pleasures: 154 realizzò un’ideale tanto popolare quanto sperimentale, a fronte di un’investigazione artistica risultante da un lato dalla maturazione tecnica, dall’altro dalla progressiva apertura a nuove possibilità espressive, nonché dalle sovracitate ed impreviste vicissitudini. Con 154 i Wire resero intellettuale il genere più grezzo per eccellenza, il punk. I Wire stavano nobilitando un’intera scena, superandosi e dando alle stampe uno dei capisaldi della stagione new wave. Se si dovessero elencare anche solo cinque album in grado di fotografare quanto accadeva a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, in Gran Bretagna come nel resto del mondo, 154 sarebbe di certo nella lista.  

2. Joy Division – Unknown Pleasures (1979) È sufficiente sapere che ogni canzone costituisce un tassello unico che sradicato dal resto non perderebbe significato, che tutte le immagini lasciate da Curtis rimangono in vita anche prese singolarmente. Racchiuse fra le note di Unknown Pleasures abbiamo dieci piccoli grandi manifesti di un sentimento che risulterà essere comune tanto ai giovani dell’epoca quanto ai giovani d’oggi, attimi di buio a cui insolentemente si rifaranno in molti. I Joy Division scavano nel cuore, ci mostrano una realtà tetra, vivida, ma che ci appartiene e da cui noi come loro non possiamo mai del tutto allontanarci. Una figura, quella di Curtis, che ancora oggi fa discutere e riflettere, le cui parole conservano intatti valore ed emotività. Questo è quello che rimane, e con solo questo i Joy Division si sono riservati un posto tutto loro, nascosto come le facce dell’animo umano che ci hanno mostrato, nella storia della musica. 

1. David Bowie – Low (1977) Nel 1976 già tirava aria di un nuovo cambiamento per il neonato Duca Bianco, il dandy tanto raffinato e ricercato quanto tormentato e sull’orlo dell’autodistruzione. L’insostenibilità della vita che stava conducendo negli Stati Uniti spinse l’ex icona inglese del glam rock a tornare in Europa. Ispirato dalla nuova aria mitteleuropea e intenzionato a creare qualcosa di artistico capace di andare oltre le formule musicali già sperimentate senza demolire la propria identità, con autentico bisogno di espressione personale e colto da fervore creativo diede inizio ad una fase di iperattività coinvolgendo prima l’amico Iggy Pop, poi anche un tal Brian Eno incontrato per caso. Così, ancora una volta, David Bowie catturava influenze e nuovi suoni, li fondeva alla propria esperienza e li faceva propri, li valorizzava e li possedeva per assoggettarli ai propri bisogni artistici. Low era un vestito nuovo per la musica del Duca, dallo stile riconoscibilissimo anche sotto gli effetti applicati alle percussioni e alle chitarre, anche in mezzo ai suoni elettronici che di tanto in tanto graffiavano i brani. Ne era venuto fuori un album che tendeva al futuro, ma soprattutto era caratterizzato da contrasti quali gelido-caldo, giorno-notte, espressione-incomunicabilità, Berlino Est-Berlino Ovest, primo lato-secondo lato. I ritmi si contrapponevano ai testi, quasi ermetici e pervasi ancora da timori reali e quotidiani (“Ho di nuovo rotto il vetro della tua camera. Ascolta, non guardare il tappeto, ci ho disegnato su qualcosa di orribile. Vedi, sei una persona stupenda, ma hai dei problemi. Non ti toccherò mai.”) e i momenti più rilassati e melodici servivano a lasciar spazio ad una dichiarata malinconia, che cercava rifugio soltanto nel “dono del suono e della visione”; rinchiuso nella stanza blu che aveva creato per paura di mostrarsi troppo, David si lascia andare solo quel che basta, e in “Always Crashing in the Same Car” e “Be My Wife” esternava i timori le speranze di ci ha viaggiato tanto senza giungere a qualcosa, ottenendo soltanto il risultato di essere ancora più solo. Cambiando lato, il disco cambiava totalmente faccia, il dichiarato bisogno di andare oltre il rock trovava il suo massimo sfogo. Con l’aiuto di Brian Eno, Bowie si è trovato letteralmente a dipingere l’intensissimo e desolato paesaggio atmosferico di “Warszawa”, lasciando sublimare i propri turbamenti esclusivamente in musica e in linee vocali prive di senso. Nel secondo lato di Low esisteva l’essenziale: l’artista, la guida esperta, l’inventiva, la sensazione e i macchinari che sarebbero serviti a concretizzarla. Tra ambient, world music e space rock, ci si calava nell’oscurità dei “Subterraneans”, nei quali il sax diventava emblema stesso del bisogno espressivo di David Robert Jones e della Berlino divisa. 

Hanno partecipato alla stesura e alla compilazione di questa classifica, in ordine casuale:  Giuseppe Rotundo, Denis Bosonetto, Paolo Busetto, Pierluigi Ruffolo, Sandy Pierpaoli, Manuel Uberti, Daniele Sassi, Samuele Venturi, Cristiano Marinelli, Gabriele Ferrari, Alessio Dainelli, Jacopo Mele, Domingo Forte, Eugenio Giannetta, Giacomo Colombo.