25 Aprile 2023
Con il suo album più musicale di sempre, il compositore canadese Tim Hecker sceglie di uscire dal consueto utilizzo che si dedica alla musica ambient, per raccontare scenari di tesa introspezione, inadatti allo studio e al mero sottofondo di relax. Il disco si chiama No Highs, e crediamo sia uno dei vertici dell’intera discografia dell’artista.
Stop. La descrizione si potrebbe fermare qui, se si trattasse di una recensione moderna, rapida e incisiva come un apoftegma. Inutile star ad indagare sul perché e il per come Hecker è andato a sviluppare, utilizzando persino il codice morse, quello che ormai ti insegnano solo ai boy scout, il suono di queste nuove tracce, davvero differenti e più live, in qualche modo, di tutto il resto della sua produzione.
Il crescendo di alcune tracce si sviluppa senza deflagrare mai in qualcosa di risolutivo, ma anzi va a corrodere le sensazioni acquisite durante l’ascolto, lasciandoti a psicoanalizzare ognuna di queste per quello che sono state mentre avvenivano, in un quadro di inquietudine e rassegnazione.
No Highs affronta e mostra tonalità grigie sin dalla copertina, lasciando immaginare riferimenti di natura post-industriale, forse più simili al concetto originale del primo JESU che non di lavori come An Imaginary Country, Virgins o Love Streams, su cui pure è bello ritornare. La tensione è crescente e superiore, e dimostrata con l’assemblaggio di parti elettroniche e strumenti reali, come i corni di Colin Stetson o i tasti dell’organo della chiesa di periferia. Questo è un albo che può pure essere standardizzato per una performance solista dal vivo, ma è altresì evidente che non c’è mai stato un Hecker più vivo di così, neanche agli esordi. E a ormai quanti, vent’anni di attività e ricerca sonora? Dev’essere stato davvero complesso per lui impennare in questo modo.
Potremmo arrivare a sostenere che con No Highs Tim abbia spinto se stesso verso la luce, se non fosse che questa poi si è rivelata meno luminosa di quel che poteva immaginare.