2 Maggio 2023
Si è sempre dedicata una certa attenzione alla creatura di Matt Berninger e soci, vuoi per la capacità di mantenersi qualitativamente costanti col passare delle uscite, vuoi per un pizzico di legame affettivo con cui oggi risulta difficile convivere. Si è però stati altrettanto lucidi nell’ammetterne i principali limiti, ossia l’incapacità di scrivere un’opera generazionale e di evolvere il proprio sound verso lidi sconosciuti, limite reso ancor più evidente da una formazione tecnicamente meno dotata rispetto a quelle di alcuni colleghi.
Eppure, muovere una critica concreta alla ragion d’essere del progetto sembrava un’eresia solo fino a qualche anno fa. L’apice raggiunto con High Violet non sembrava aver causato loro troppi grattacapi, date le uscite dell’ancora oggi gradevole Trouble Will Find Me – pur senza suonare sincero dalla prima all’ultima nota – e del successivo Sleep Well Beast, che venne accolto abbastanza bene nonostante i cambi tardivi attuati alla formula, forse perché a quel punto la vedevamo tutti allo stesso modo: ai National non si poteva chiedere di compiere l’agognato passo che li avrebbe accostati ai grandi contemporanei.
Giunti a I Am Easy To Find, ecco arrivare i campanelli d’allarme, quelli veri. Già, perché ignorare i pessimi segnali qui palesati vi colloca in una setta volta a supportare ogni mossa degli statunitensi, locus horridus da cui vogliamo tenerci a debita distanza. Il prodotto non era insufficiente in senso assoluto, ma il senso di stanchezza avvertito faceva passare la voglia di tenere acceso il lumicino verso una band felicemente in crisi di mezza età. L’annuncio di un nuovo lavoro in studio era ormai prossimo, e qualche anima pia aveva tentato di credere nell’impresa tentando di isolarsi dai discorsi sulle aspettative (giustamente) rasoterra. First Two Pages Of Frankenstein non appartiene a un mondo fatato, così decide di spazzare via ogni flebile speranza nell’arco di due pezzi.
L’opener offre solo uno spunto circa le collaborazioni presenti lungo la scaletta, mostruosamente ruffiane e messe lì esclusivamente per acchiappare quanti più alternativi da salotto possibile, personaggi convinti che Fugazi sia il nome di una bibita o chissà cosa. O volete farmi credere che dietro alla scelta di sfruttare Sufjan Stevens a mo’ di corista si nascondano nobili intenti artistici? “Eucalyptus” invece non soffre degli stessi difetti riscontrabili in altri pezzi dei National, in quanto non suona fiacco o forzatamente melenso; è semplicemente un pasticcio senza capo né coda. Almeno hanno avuto la decenza di piazzarlo nelle prime battute, così da non prendere in giro nessuno.
Nemmeno i testi, un tempo uno dei maggiori punti di forza del collettivo, riescono a tenere a galla una nave che fa acqua da tutte le parti, dalle suddette liriche, indirizzate a un pubblico in pieno delirio adolescenziale, a una volontà di potenza praticamente nulla. Quello dei National è un polpettone senz’anima che ha l’aggravante di prendersi parecchio sul serio. Inutile parlare di delusione, perché il fiasco era nell’aria, solo non credevamo sarebbe stato così fragoroso.