24 Gennaio 2019
Il sesto album di Noah Lennox in arte Panda Bear si intitola Buoys ed esce l’8 febbraio 2019 su Domino. Prodotto e registrato nella sua Lisbona assieme al fido Rusty Santos, è un disco che conferma come il percorso solistico del nostro sia ben più interessante del decennio che stanno vivendo gli Animal Collective (ovvero tutto il post Merriweather Post Pavilion-Fall Be Kind). Anzi, promettiamo di non citare nuovamente la band madre, proprio perché a fronte di opere fondamentali degli anni ‘oo – su tutte l’irraggiungibile Person Pitch, posizionato molto in alto nella nostra Top 100… – sarebbe davvero riduttivo calibrare ogni ragionamento intorno alla musica di Panda Bear sulla base di quanto sviluppato in passato assieme ad Avey Tare e compagni.
È anche vero che se siete qui a leggere questa recensione, di Noah Lennox sapete tanto se non tutto, ed è quindi pressoché inutile dover raccontare ogni volta la sua storia. Tuttavia nel caso non conosciate il catalogo del personaggio, potrebbe non essere totalmente errato iniziarsi con quest’uscita che, come vedremo, va alla ricerca dell’essenza del sound di Panda Bear.
Le tracce che hanno fatto da apripista, “Dolphin” e “Token”, rendendo molto riconoscibile lo stile e il canto dell’artista, non lasciavano intendere che la direzione di Buoys fosse in realtà così distante da quella dei precedenti capitoli. Si può ben dire, semmai, che questo disco ha gli arrangiamenti più essenziali dai tempi del soliloquio di Young Prayer (2004), e che il passo verso soluzioni alternative a quelle più strutturate e tecnologiche di Tomboy (2011) e Meets the Grim Reaper (2015) è stato davvero più lungo di quel che si poteva immaginare.
Ci piace quando Noah lascia andare la voce e trattiene le note più a lungo, evitando sincopi e allitterazioni, che invece, stavolta, sono lasciate alla strumentazione. Più di un pezzo nasce infatti dal ritmo cadenzato dalle interruzioni di continuità di suono della base musicale, fatta spesso da accordi di chitarra classica, su cui poi Lennox crea le sue melodie estatiche al gusto di riverbero. Pochi gingilli e campionamenti da dj casereccio adornano la sostanza con naïveté. In brani come “Cranked” sembra di essere intrappolati in un videogame sparatutto dei primi anni Novanta, con il buon Noah che la prende pure con filosofia. Piace molto la socratica “I Know I Don’t Know”, che rimanda ai vecchi tempi acustici, un po’ meno “Inner Monologue”, in cui intervengono anche il disc-jockey e cantante cileno Lizz, e il musicista portoghese Dino D’Santiago, dei quali dovete assolutamente rimediare l’intera discografia se volete restare sul pezzo. Come no.
Probabilmente la canzone più canzone, quella che alla fine dei primi giri vuoi subito riascoltare, resta “Token”, perché ha una melodia innodica in cui ti viene voglia di inserirti per innalzare anche tu al cielo il tuo canto libero. Riesce invece più difficile, testi alla mano, comprendere o quantomeno interpretare le liriche di queste nuove composizioni. Provateci anche voi, perché noi non c’abbiamo capito niente stavolta, e ci sentiamo di togliere un paio di centesimi al voto finale di Buoys proprio per questo motivo. Altrimenti in Panda Bear è sempre stato bello trovare contenuti lirici se non addirittura insegnamenti filosofici da metabolizzare mentre se ne cantano in versi.
In ogni caso, se avete in casa tutto il resto della discografia, non potrete renderla incompleta non possedendo anche Buoys. Imprescindibile per l’appassionato, adatto per il novizio, così è il sesto album firmato Panda Bear.