4 Maggio 2018
Cambiano molte cose in 5 anni. I luoghi, le situazioni, le persone, le idee, i gusti, tutto. Si cerca sempre di cambiare in meglio, ma a volte non è quello che succede. A poco a poco qualcosa può erodersi, finché la struttura cede. Crollano le certezze, spariscono i punti di riferimento e finisci per restare solo. Cominci a perdere gli interessi, anche quelli che un tempo abitavano con te nel profondo dell’anima. Smetti di credere in alcune cose. Non ti aspetti più niente e pensi di vivere meglio così, ma ovviamente non è vero. Cerchi solo di ridurre il dolore.
Però mantieni qualche lumicino acceso. E uno di questi ha ripreso vita di sua volontà una notte di circa due mesi fa, quando una vecchia conoscenza si fa di nuovo viva e ti dice: “Ehi, sono stato via a fare questo, vuoi dare un ascolto?”.
E nel concederle la tua attenzione ti accorgi che lentamente il tempo si contrae fino ad annullarsi e la parte più recondita di te ritrova la sua voce. Il ritmo cavalcante t’ipnotizza e avverti uno scorrere irrefrenabile, un fiume di oro liquido in piena, la discesa della lava lungo un vulcano. Vecchie immagini tornano alla mente. Senti un impellente desiderio di ossigeno per alimentare l’energia cinetica. Diventi tutt’uno col ritmo senza averlo deciso e non ti sei neanche reso conto che stai levitando da terra. Una mano possente e incorporea ti solleva e il vuoto circonda i tuoi confini materiali. La gravità smette di funzionare e provi a muovere le gambe in questo nuovo ambiente. Non sarà come volare ma ci andiamo vicini. I metri aumentano inesorabili, centinaia, migliaia. Ci prendi gusto, sei sopraffatto, ritrovi perfino il sorriso, finché all’improvviso non senti più nulla sotto di te e per un attimo è il panico, sensazione che si estende agli arti. Guardi su e la mano di cui ti fidavi è pronta a scaraventarti al suolo con la violenza di un meteorite. Ti prepari all’urto ma invece di cessare di esistere esplodi in milioni di frammenti scintillanti, parole ed emozioni che non avevano mai trovato spazio in cinque anni.
Cinque anni dopo Immunity, discus astralis del 2013, creatura selvaggia domata a fatica, che ti scruta avidamente nella psiche per stanare le debolezze più insite, ecco una nuova estenuante odissea introspettiva. Si intitola Singularity e riparte con una titletrack che fa paura: un monolite che ti sovrasta a passi biblici, e detta un motivo minaccioso che cresce come una chiamata alle armi, con un beat titanico che dispone le truppe in posizione. È subito tutto chiaro. Questo non è un viaggio mentale, non siamo nello studio di Jon: siamo fuori e gli spazi sono dilatati in maniera esponenziale, dalla fredda terra sotto i piedi alle costellazioni in cielo (ammazza quante sono).
“Neon Pattern Drum” è un banger techno in costante evoluzione, dai synth granulari che si scompongono in miriadi di parti alla cadenza nevrotica, in perenne agitazione: non è solo voglia di far muovere il didietro, è una questione molecolare, con protoni ed elettroni impazziti. Senti come rimbalza la cassa a metà del pezzo… no Jon, qui ci stai nascondendo qualche trucco assurdo. E difatti, dopo la classica ricerca fulminea su Google, scopriamo che il musicista di Londra, inseguendo da anni la pace spirituale fra servizi fotografici e tour mondiali, è andato a farsi di funghi in quel di Amsterdam, ma non per sballarsi di brutto, bensì per far carburare la sua creatività e dedicarsi alla pratica della meditazione trascendentale… no, non abbiamo idea di cosa sia ma suona come un aiuto di cui potremmo approfittare tutti. Seriamente. Ora si spiegano i chilometri cubi riempiti di innumerevoli strati di suoni, melodie, flussi, glitch ritmici e la lista non finisce più. Perché un conto era essere già consci dell’estrema elaborazione dell’operato di Hopkins, un altro è ammirare l’apice raggiunto in Singularity: a detta sua, in un’intervista sull’Evening Standard, in ogni traccia vi è sufficiente materiale sonoro per comporre un album intero (e si sente). Ah, e non dimentichiamo l’effetto principale dei funghetti allucinogeni: è così evidente, lasciandosi travolgere da “Everything Connected” e la sua esuberanza stellare. Non è un rave mondiale, è il Sole che si espande a supernova per inghiottirci tutti in un’esplosione psichedelica di luce e pensieri positivi.
Conosciamo il ragazzo e sappiamo dove ci porterà: ci darà dello spazio emotivo per riflettere su quanto appena accaduto e dividerà l’opera in due. “Feel First Life” richiama i Sigur Rós più sereni già presenti nel finale di Immunity e nell’EP del 2014 Asleep Versions, in un momento di calma ambient religiosa che fa da preludio alla scoperta del mondo naturale in “C O S M”, dipinto musicale di un’alba accecante che risveglia la vita del pianeta e contrasto filosofico della prima metà convulsa del disco. Ma qualcosa di colpo si spezza. Buio totale. Un faro in lontananza illumina una figura china su un pianoforte. Per quanto il cambio di scena non fosse imprevedibile, vi è un sentore mai colto prima nella discografia di Hopkins… triste. Abbattuto. Ehi, amico… lo so. È dura. Non ti fa bene rimanere qua così. Dai, vieni con me, ci facciamo un giro.
Non vi ho presentati: il mio amico è Bill col cappello, era lui che suonava il tema di “Echo Dissolve”, reprise dell’intro di “Emerald Rush”. È uno che ne ha passate di tremende, molto peggio di me e voi. Ha bisogno di aria fresca. Lo porto fuori a vedere il tramonto e lui mi racconta di come un giorno diventerà immortale, sopravvivrà all’estinzione umana e incontrerà i prossimi abitanti della Terra, grandi esseri luminosi che lo adoreranno come un dio, ultimo della sua specie. Da loro imparerà a meditare e svilupperà i poteri della mente con i quali muoverà le stelle a suo piacimento, facendole tintinnare come in un brano di Pantha du Prince. “Luminous Beings” è la summa del percorso mistico di Hopkins, serafico, romantico e perché no, ottimista. Un pacifico soundscape in cui convivono “Light Through the Veins”, “Sun Harmonics” e tutte le sue rivelazioni passate. Un po’ sdolcinato e allungato forse, ma ormai lo sappiamo che è così e poi dai, non vorremo rovinargli l’atmosfera proprio nel finale, che arriva con il mantra riflessivo del pianoforte che raccoglie l’universo intero nel suo punto d’origine (e no, non sto delirando di nuovo, è Hopkins stesso a confermare questa trama nelle ultime interviste).
Singularity non è il seguito logico di Immunity e non è né migliore né peggiore. Non è originalità, innovazione o avanguardia. Singularity è diverso. Singularity è vita. È un’esperienza extrasensoriale. È il disco che suona esattamente come hai sempre voluto. È quel qualcosa in più che tutti vorrebbero sempre. È l’opera che tutti prima o poi si aspettano per segnare i loro cammini musicali, per provare emozioni intense, per ricordarla nel tempo come un classico. È uno dei lavori più vitali e profondi della storia del genere elettronico e ha l’accessibilità per raggiungere chi non è mai stato toccato da sonorità simili.
Si possono muovere critiche tecniche a Singularity che però sfumano nel contesto dell’esperienza contemplativa che può dare. Si può dibattere sul centesimo in più o in meno del voto, sul confronto con Immunity, ma non è questo l’atteggiamento migliore con cui viverlo. A me non interessano le previsioni da classifica di fine anno: a me interessa aver ritrovato un vecchio amico, che mi ha confortato e mi ha detto che no, non si è appiattito tutto, c’è ancora posto per la meraviglia e certe cose rimangono davvero. Anche dopo cinque anni.