9 Maggio 2022
Per alcuni è ancora difficile da ammettere, ma una gran parte delle uscite più interessanti ogni anno sono di matrice black. Per numeri, influenza e qualità media delle pubblicazioni, l’hip hop ha ormai preso quel ruolo che il rock ha avuto fino ai Novanta.
Eppure, in mezzo alla miriade di pubblicazioni non sempre è facile orientarsi e capire cosa vale davvero la pena ascoltare e cosa no. L’interesse per la mediocrità che infesta le playlist di Spotify è prossimo allo zero, ed anche le poche superstar che negli anni ci hanno entusiasmato sembrano aver preso una piega che non ci soddisfa (vero Kanye?). In attesa di Kendrick Lamar, uno dei pochi nomi grossi per cui vale ancora la pena avere curiosità, abbiamo selezionato sette dischi hip hop che finora hanno caratterizzato l’annata.
In generale negli ultimi anni si sta assistendo sempre più ad un ritorno alla cultura del sample, sia in un’ottica più sperimentale sia tramite esperienze che danno nuova linfa al classico boom bap come nel caso della Griselda. Il 2022 sembra aver portato ancora più allo scoperto questa tendenza, e questo piccolo report testimonia ancora una volta la vivacità del genere.
Billy Woods – Aethiopes. Billy Woods non è personaggio avvezzo a seguire assiduamente le tendenze di una scena che lo vede ai margini, tant’è che la sua decennale carriera deve attendere il 2012 per intravedere qualche riconoscimento, grazie all’impronta politica di History Will Absolve Me. A dieci anni esatti da quel turning point – sebbene nel mezzo si siano susseguite valide pubblicazioni soliste e non – eccolo riemergere dall’underground con un LP già candidato a disco hip hop dell’anno. Avere come neo la mancanza di tracce che riescano a spiccare lungo la sua durata è, per un disco, una questione che rientra nell’ordine naturale delle cose. Ben più raro è imbattersi in una casistica dove ciò accade ma per merito del livello sorprendentemente elevato della scaletta. Le atmosfere paranoiche di Aethiopes entrano sottopelle grazie a strumentali crude e liriche saldamente radicate nell’attualità, impreziosite dal flow unico di un’artista fattosi illustratore degli angoli più bui della società odierna. 83/100
Cities Aviv – Man Plays The Horn. Alla ricerca di nuove uscite su RYM, questo album si è rivelato una delle sorprese più piacevoli della prima parte dell’annata. Cities Aviv è il nome d’arte di Wilbert Gavin Mays, un rapper di Memphis che fin dagli esordi ha fatto di un’attitudine fortemente ipnagogica la sua principale cifra stilistica. Anni ed anni di esperimenti trovano la quadra in questo monumentale lavoro di 83 minuti, nel quale possiamo trovare un sound eclettico che oltre a cloud rap ed hypnagogic pop ingloba influenze southern, jazz rap, drumless, quando non addirittura tentazioni ambientali, sublimate nella lunga “SMOKING ON A BRIGHTER DAY”, per la verità un tentativo non completamente riuscito. Non si fa fatica a riconoscere tra le ispirazioni di questo album alcuni degli artisti più significativi degli ultimi anni per quanto concerne la manipolazione dei samples, come JPEGMAFIA ed Earl Sweatshirt, ma la capacità di trovare una sintesi personale e coerente col proprio percorso rende questa uscita imprescindibile per comprendere lo stato dell’arte del genere nel 2022. In mezzo a queste 26 tracce, spicca specialmente “WAYS OF THE WORLD”, che ripesca il chipmunk soul degli anni 2000 trasformandolo in un’allucinazione psichedelica. 78/100
Conway The Machine – God Don’t Make Mistakes. Negli ultimi anni il collettivo Griselda è stato il portabandiera di un revival boom bap che ha riportato il sound di New York ai fasti degli anni ’90. Nonostante le (numerose) uscite di Conway, Westside Gunn e Benny The Butcher & co. possano a volte risultare fini a sé stesse, alcuni album particolarmente curati fanno eccezione. È il caso, ad esempio, di Tana Talk 3 di Benny, ma anche di questo God Don’t Make Mistakes. In questo LP Conway riesce a fare centro sotto tutti i punti di vista, proponendo un lavoro che suona classico ma mai vecchio, ed arricchendolo con liriche mai così personali ed intense. La tracklist di soli 12 pezzi non è appesantita da nessun filler, ma due tracce spiccano in maniera evidente sulle altre. In “Stressed”, su una produzione atmosferica di Daringer, Conway espone il tema dello stress prima in maniera più leggera poi divenendo via via più personale, citando episodi come il suicidio del cugino, la morte del figlio ed i suoi problemi di alcolismo e depressione con una naturalezza disarmante. Decisamente introspettiva anche la conclusiva title track, forte di un ottimo beat di The Alchemist, nella quale il rapper ritorna alla sera in cui rimase vittima di una sparatoria costruendo una serie di “what if” che portano la narrazione a livelli davvero altissimi. Sono questi gli apici di un lavoro sinceramente emozionante. 82/100
Denzel Curry – Melt My Eyez See Your Future. Tra gli esponenti più creativi della scena trap, il californiano Denzel Curry si è distinto per il suo eclettismo, che lo ha portato a cambiare pelle di disco in disco non limitandosi ad abusare degli stilemi che lo avevano rivelato al pubblico ai tempi del singolo “Ultimate”. L’ultimo album in studio, ZUU, una pur divertente collezione di bangers radicate nel suono del Sud, segnava un passo indietro rispetto a TA1300, album ambizioso e caratterizzato anche da un’impronta politica. Con questo ultimo album Denzel Curry prova a proporre di nuovo la versione più ambiziosa di sé, sperimentando con vari tipi di sound e con diversi produttori, pur riuscendo nell’impresa di rimanere coerente scongiurando il fastidioso effetto playlist. Con totale naturalezza si passa quindi dalle atmosfere morriconiane di “Walkin” al jazz rap di “Melt Session #1” e “Mental”, da un pezzo quasi alla MF DOOM come “The Smell Of Death” alla drum ‘n’ bass di “Zatoichi”, in collaborazione con slowthai. In mezzo c’è spazio anche per episodi più classicamente trap, oltre che per la posse track “Ain’t No Way”, nel quale il Nostro rappa una delle migliori strofe della sua giovane ma già significativa carriera. 77/100
Earl Sweatshirt – SICK!. Per chi segue la scena hip hop in maniera attenta non limitandosi ai nomi più pubblicizzati, non c’è dubbio sul fatto che Thebe Kgositsile sia uno dei migliori rapper della sua generazione, rispettando a pieno l’aura di enfant prodige che si portava dietro dai tempi degli esordi con la Odd Future. Il suo percorso ha trovato un apice nel capolavoro Some Rap Songs, un disco storico che portava ad un livello più alto le intuizioni della scena lo-fi newyorkese del tempo, in particolare gente come MIKE e Standing On The Corner, amici e collaboratori di Earl in quella fase nonché a loro volta influenzati dai lavori precedenti del rapper originario di Chicago. Tornare dopo un episodio di tale portata non è mai facile, ma il dubbio che il suo sound potesse troppo standardizzarsi in quel format di successo era stato smentito già dal primissimo singolo “2010”. In questo SICK! i risultati più interessanti sono infatti quelli ottenuti seguendo quella linea di trap atmosferica in collaborazione col producer Black Noi$e, qui dietro alle macchine in quattro episodi in totale. I pezzi più drumless invece, anche quelli con The Alchemist, risultano buoni ma tutto sommato dimenticabili. Dal punto di vista lirico si passa dalla depressione dei dischi precedenti ad una paranoia ed un senso di isolamento dovuti alla pandemia, assoluta protagonista del disco sia con liriche più esplicite sia con altre più metaforiche ed ambigue. Un’esperienza come al solito intensa, ma la sensazione di un album di transizione è forte. 69/100
Pusha T – It’s Almost Dry. Reduce da Daytona, riconosciuto all’unanimità come miglior episodio del suo catalogo in studio, Pusha T si riaffaccia al panorama musicale dopo quattro anni e lo fa con It’s Almost Dry, prova dallo scorrere ondivago. Le produzioni vengono qui affidate a Kanye West – giustamente oggetto di elogi per il lavoro svolto in Daytona – e Pharrell Williams, che però non incidono come sarebbe lecito attendersi. Il secondo blocco presenta una manciata di pezzi che nulla aggiungono al percorso di Terrence Thornton o all’album in sé, come “Call My Bluff” o la mal riuscita collaborazione con Don Toliver e Lil Uzi Vert in “Scrape It Off”. A conti fatti, la prima metà resta godibile e regala qualche sussulto degno del repertorio dello statunitense, senza però innescare nell’ascoltatore alcun meccanismo che lo porti a premere play ripetutamente. C’è chi potrà dirsi appagato; noi, trovandoci davanti al successore di un disco cardine dello scenario hip hop dei Dieci, riteniamo che si potesse fare di meglio. 67/100
Vince Staples – Ramona Park Broke My Heart. Il più grande difetto di Vince Staples è il talento, che certo non gli manca. Eppure, soffermandoci brevemente sui suoi primi passi in studio, notiamo come si sia impantanato sui numerosi scenari che lui stesso era stato così bravo a costruirsi con la pubblicazione di Big Fish Theory, degno successore dell’acclamato Summertime ’06 maggiormente orientato alla sperimentazione, nonché suo apice a detta di chi scrive. Da lì in avanti, solo una serie di episodi confusionari. Con il neonato Ramona Park Broke My Heart, il rapper cerca di trovare nuovamente la quadra senza rinnegare la nuova direzione più sempliciotta intrapresa con FM! e confermata con l’omonimo dello scorso anno. L’incipit sembra dar ragione al californiano – un plauso a “When Sparks Fly” e alla sua narrazione – salvo poi perdersi in una coda ricca di idee mal concretizzate. Rimane il miglior episodio di una complicata fase della sua carriera, che tuttavia lo vede battere un terreno ancora poco definito per potersi dire uscito dalla crisi. 62/100