Wild Beasts – Boy King

Wild Beasts – Boy King

Partiamo da questa premessa (o, se volete, provocazione): i Wild Beasts sono la più grande band contemporanea di cui non avete sentito parlare.

Non mi risulta abbiano mai venduto chissà quanto, tanto che anche nella madrepatria inglese arrivati al quarto album erano ancora gruppo spalla di band più importanti (ricordo di aver visto una data londinese in cui aprivano ai National, e non vi sto a raccontare quanto questa mi abbia aumentato la salivazione), nonostante due capolavori. E so di dire tanto, so che è un termine abusato, ma per me sono capolavori. Two Dancers e Smother hanno una combinazione di elementi che ho trovato solo nei mammasantissima giustamente esaltati da tutti. Le melodie, l’atmosfera, gli incroci pazzeschi degli strumenti, due voci eccezionali e completamente opposte l’una all’altra, quella raffinatezza: praticamente sono tutto quello che gli Alt-J hanno sempre voluto essere, solo senza le stramberie.

Da un album all’altro, inoltre, hanno sempre proseguito un percorso evolutivo che non è sempre stato né chiaro né lineare. Innanzitutto, dal primo disco, Limbo Panto, a Two Dancers c’è stato un salto nella qualità e nel songwriting che è ai limiti del possibile. In genere siamo abituati ai fuoriclasse che iniziano subito sparando le cartucce grosse o a quelli che ci arrivano col tempo; loro sembra quasi abbiano sparato il primo colpo per capire l’inclinazione del fucile e poi centrare in pieno il bersaglio al secondo colpo, quasi con la strafottenza dei fuoriclasse. Una finta di Michael Jordan. Dove Limbo Panto era, per quanto bizzarro, vivace e barocco, perfettamente riconducibile a quell’indie rock britannico che nei primi anni ’00 ha fatto muovere il culo a tutti, Two Dancers se ne distaccava completamente, spogliandolo e rendendolo tutt’altro. Poi nel 2011 con Smother hanno praticamente rifatto Two Dancers con in più tastiere e sintetizzatori (con risultati da standing ovation), poi hanno provato a lasciare da parte il più possibile le chitarre per provare a intensificare i momenti dreamy e quasi ambient di Smother, e hanno scritto Present Tense, che al netto delle belle canzoni comunque presenti è sicuramente il loro album meno riuscito. E poi sono arrivati a Boy King. Che non è una svolta ad u, ma poco ci manca.

Le bestie selvagge hanno preso i suoi eterei che hanno reso tanto belli i loro dischi fino ad ora e li hanno messi da parte, facendo quello che a tutti gli effetti è il loro disco rock. Poi certo, rock in senso lato, oggi non sono tanti gli Arctic Monkeys di turno che ti fanno il disco rock come una volta. Perché se è vero che è impossibile ignorare le influenze quasi synthwave (e d’altra parte, se avete letto il nostro speciale e andate a vedere il video di “Get My Bang”, primo singolo del disco, è difficile che non vi venga in mente proprio Drive), è vero anche che sono riusciti a creare una pacifica coesistenza tra sintetizzatori e riff o assoli di chitarra. Nella traccia d’apertura, “Big Cat”, infatti, coesistono perfettamente. “Tough Guy” sembra veramente uscita da AM, tra echi di Black Sabbath e assoli da air guitar con smorfia annessa, e tracce come queste si trovano quasi fino alla chiusura del disco, che, a contraltare di quanto detto finora, è uno stupendo richiamo ai suoni a cui i quattro ci avevano abituati.

Il che è, a ben vedere, perfettamente coerente con la non-storia raccontata in questo disco. Dico non-storia perché, stando alle interviste, non è un concept album: il disco ha un tema, ma non una storia. Quasi difficile a credersi, considerato che praticamente in ogni canzone a parlare non sono né Thorpe né Fleming (due delle più belle voci del rock attuale, per inciso), ma personaggi inventati all’uopo. Difficile a credersi anche perché nei lavori precedenti (e in questo) ci hanno abituato a tali riferimenti letterari e cinematografici – oltre che ad un lessico, diciamolo, non proprio per tutti quelli che non masticano benissimo l’inglese – che ad un certo punto quasi ti aspetti il mattone, la storia unica divisa in dodici canzoni. Soprattutto quando ti trovi davanti un disco così coerente con sé stesso dall’inizio alla fine come Boy King. E invece, siccome they got gusto, niente da fare. Anzi, per tutta risposta prendono il sesso, una delle caratteristiche sempre presenti ma mai predominanti della loro discografia, e la estremizzano il più possibile, di fatto costruendoci il disco attorno. In maniera pure parecchio esplicita. Il virgin killer di “Tough Guy”, i versi “Alpha female I’ll be right behind you/Alpha female, female alpha” che ha una non casuale assonanza con “alpha female, female I’ll fuck”, più o meno ogni parola di “Eat Your Heart Out Adonis”, addirittura richiami al BSDM in “Big Cat”, eccetera eccetera. Non che questo significhi che i loro riferimenti intellettualissimi siano scomparsi in Boy King, eh! Anzi. Maria Antonietta, Freud (!), forse anche T. S. Eliot sono quelli che ho contato in una lettura veloce di genius.com. Ma da una band che prende il nome da un movimento artistico dei primi del ‘900 (wild beasts non è che la traduzione inglese di fauves – tra l’altro primo nome del gruppo) mi aspetto che pian piano esca fuori anche altro.

Ma alla fine della fiera, questo disco è buono o non è buono? Barrare la prima opzione. Non saranno i capolavori del 2009 e del 2011, ma provate ad ascoltarlo 3-4 volte e togliervi certi pezzi dalla testa.

Wild Beasts is dead, long live to Wild Beasts.