Rock Report 2018, part II

Siamo agli ultimi sgoccioli per quanto riguarda il 2018. Quel che deve ancora essere pubblicato di significativo, arriverà entro i primi venti giorni di novembre, dopodiché sarà già tempo di resoconti, classifiche, riflessioni di fine anno. Così come ci sono già i panettoni e i pandori nei supermercati, ci sono anche webzine che stanno pubblicando le loro chart in queste ore, convinti forse che nulla di rilevante possa ancora uscire sulla ruota di un 2018 che, possiamo già dirlo, non è stato memorabile, ma se non altro ha avuto una discreta abbondanza di buone uscite, sia sul fronte rock che soprattutto in quello electro.

Faremo in modo di recuperare i dischi rock più importanti che abbiamo lasciato per strada negli scorsi mesi – pensiamo a Daniel Blumberg ed Anna Calvi, per dirne due – e di trattarli con la dovuta attenzione, ma intanto con questo report sintetico mettiamo il punto su una manciata di pubblicazioni delle ultime settimane. Alcune, stavolta, sono state cocenti delusioni. 

Vedremo poi di postare le nostre impressioni su album di artisti ascrivibili alla categoria BIG (sono in arrivo i nuovi di Jeff Tweedy, Muse, Julia Holter, Thom Yorke) con singoli articoli dedicati, a prescindere dal valore intrinseco di ciascuno, perché la gente di questi nomi vuole sempre avere notizia.


Death Cab for Cutie – Thank You for Today. Ben sarà pure nostro amico, ma non possiamo lasciar passare un albumetto innocuo come questo, punto di incontro tra velleità new wave pop, lo spirituale indie dei primi Duemila da cui sono emersi ai tempi del manifesto Transatlanticism, e una solarità estiva che un po’ sì, un po’ anche no eh, soprattutto quando il calore passa. Le dieci tracce sono tutte perfettine, e parlano a chi ha raggiunto con Gibbard l’età adulta e ora predica calma e sensazioni del tipo “è andata così, it is what it is, accontentiamoci”. Insomma, è un disco che già dal titolo impone un tono rassegnato-soddisfatto, che pare rivolto a chi in qualche modo ce l’ha fatta a integrarsi nella società. D’altronde è vero che chi può permettersi di ascoltare nuova musica oggi, ovvero essere sul pezzo nel momento che esce, è probabilmente una persona privilegiata che ormai ha fatto le sue esperienze di vita, ed è sopravvissuta alle angosce della gioventù. Un new-normal con i primi capelli bianchi, e meno tempo per seguire le nuove tendenze. C’è qualche brano più intrigante – ci piacciono “You Moved Away” e “When We Drive” in particolare – ma la sommatoria è piatta, da skip irrispettoso e intransigente. Non ci torneremo facilmente. 60/100 Daniele Sassi


Interpol – Marauder. Siamo arrivati tre volte in fondo al sesto album degli Interpol, e tre volte la sensazione è stata la stessa. “È un disco analogico, per tornare alle radici”, si è letto in una recente intervista a Paul Banks. Ci abbiamo creduto, e non siamo rimasti delusi da questo. Ma impotente è la parola giusta per descrivere Marauder. Puoi provare a eccitarti con “The Rover” e “Mountain Child”, anche solo per tornare ai sussulti migliori di Our Love to Admire, quel terzo album che col senno di poi abbiamo tutti un po’ sottovalutato, puoi godere del suono molto hi-fi, elettrico, potente grazie alle sue chitarre taglienti e a un basso che anche senza Carlos D torna a pulsare, puoi giubilare perché ascolti e sì, sono loro al 100% – anche se meno dark d’un tempo – ma oggi 2018 non sai esattamente cosa fartene perché non è quello che avresti voluto che fosse diventata la band di Turn on the Bright Lights. Questo semmai è ciò che all’epoca ti saresti aspettato da una delle numerose formazioni epigoni che poi sono inevitabilmente scomparse nel tempo. Sono gli Editors che provano a fare quegli Interpol, sono i Vines che si vestono in completo nero e cravatta rossa, e in tutto questo non comprendi cosa ha realmente aggiunto Dave Fridmann (Flaming Lips, Mercury Rev, Tame Impala) allo spettro sonoro degli Interpol. Insomma, non ci voleva la sua mano per trovare questo suono. Marauder permetterà alla band di New York di ripresentarsi in tour per tutto il 2019, ma è di fatto un’ulteriore occasione persa per rilanciarsi e riprendersi un po’ di quel credito perso per strada. 58/100 Luca Momblano, Daniele Sassi


Mogwai – KIN. La prima settimana di settembre implica inevitabilmente l’intasamento della casella di posta. Puntualmente, arrivano sempre tutti assieme talmente tanti promo di nuovi dischi che fatichi a caricarli tutti nella libreria iTunes, e soprattutto, purtroppo, qualcosa finisci sempre per lasciarlo inascoltato. Quindi mentre mettevo a posto la mia stanza, di domenica mattina, mi sono ritrovato col sottofondo della colonna sonora di KIN e non accorgermi di stare in realtà ascoltando i Mogwai se non verso la fine dei suoi 42 minuti, quando la titletrack non può non destarti e farti realizzare che sì, quelli che stanno suonando sono per forza di cose i Mogwai. Me ne sono stupito e al contempo compiaciuto, perché da tempo i caratteri di tipicità del combo scozzese mi avevano un po’ stancato, e perché quindi la paletta sonora di questa soundtrack si distacca dal loro solito schema, che nel tempo ha pure dimostrato di essere redditizio. Quello dei nove brani di KIN è un post rock che lascia immaginare uno scenario urbano per l’ominimo film dei fratelli australiani Jonathan e Josh Baker, di cui si parla un gran bene per altro. Più tessuti interposti al computer, meno strumentazione analogica, più ambient eterea e meno riverberi montati con l’effettistica delle chitarre. Tuttavia quando parte l’ultima canzone (perché è una vera e propria canzone), non sono più nemmeno i Mogwai a suonare, ma gli Slowdive… 70/100 Daniele Sassi


Jonathan Bree – Sleepwalking. Il pop dell’ultimo mezzo secolo è un grande libro che ha pagine e personaggi in ogni angolo del mondo. Jonathan non è un prodotto del web, non è l’ennesima vittoria del passaparola digitale. Eppure vive in Nuova Zelanda, da dove partì con i suoi Brunettes (una sorta di Beach House ante-litteram, ma con un inesplorato lato giocoso) per aprire concerti negli States anche per Shins, Beirut, Postal Service e Broken Social Scene. La sua fama in patria è consolidata, eppure resta un signor nessuno: ecco perché forse trasformarsi in un intrigante fantasma musicale che si rifà all’estetica di Bryan Ferry. Almeno due brani (orecchiabili, ecchissenefrega…) sono da provare prima di aspettare l’arrivo del 2019: “Say You Love Me Too” e soprattutto “Fuck It”, oltre al singolo “You’re so cool”. Suoni forse un po’ freddi – ma le corde sono quelle giuste – all’eterna ricerca della canzone perfetta in un mondo imperfetto. 74/100 Luca Momblano


Chastity – Death Lust. Ma cosa cazz… Cosa suonano? Come? Sembrano i Deftones iniettati di grunge ma senza ancora un produttore serio alle spalle. O l’ultimo tentativo shoegaze di dare una direzione meticcia al genere (come se non ci avessero già provato in troppi). Cribbio se suonano bene, la voce non si è ben capito dove può dare il suo meglio, ma sono canadesi e un piccolo culto se lo sono già creati. Hanno persino la strizzata giusta per le più improbabili classifiche nerd. Si chiama “Heaven Hell Anywhere Else”, e non è la migliore. “Children” in partenza di disco è la classica catastrofe dell’ascoltatore: “dai, non possono non arrivare in fondo, non posso non provare ad ascoltarle tutte”. Quindi complimenti, chissà che riducendo la quantità di idee non si arrivi al giusto compromesso e alla prossima puntata ricordare che “li avevo recensiti su DoYouRealize!!!”. 77/100 Luca Momblano


Saintseneca – Pillar of Na. La ragione per cui il combo guidato da Zac Little, arrivato al quarto disco, non è ancora riuscito a raggiungere uno status superiore a quello di promessa del folk rock indipendente del Midwest, ed essere quindi la risposta di questo versante degli Stati Uniti ai Fleet Foxes, non è facile da rintracciare. Dimostrandolo più che mai prima con il nuovo Pillar of Na, i ragazzi hanno in realtà molta energia da vendere e una soprattutto paletta di armonie vocali abbastanza ampia – forse troppo? – da colorarsi di varie tinte del genere, e dunque un potenziale pop che forse la pur ben calibrata produzione non riesce pienamente a catturare, nonostante un songwriting di buonissima fattura e un suono elettrico che sprigiona appunto freschezza, e non lascia certo immaginare una band ormai arresasi all’impossibilità di raggiungere le prime due righe dei tabelloni dei festival estivi. Si sente chiaramente, infatti, che i Saintseneca sono molto affiatati, e non fatichi a immaginarli suonare assieme dal vivo. Questa è gente che la strada la conosce, e che conta di farne altra nei prossimi mesi. Per elevarsi da questa aurea satis da cui non si smuovono, serve un orecchio, quindi un produttore, quindi un investimento che trasformi brani ben scritti come “Feverer” o “Ladder to the Sun” in potenziali singoli da airplay radiofonico. Servono registrazioni che sviluppino meglio idee intelligenti come trovi in abbondanza sparse qua e là in questo nuovo LP. Ascolti “Frostbiter” e “Moon Barks at the Dog” e dici sì, questi ci sanno fare, ma non ti desti dal fare altro, se lo stai facendo, per memorizzare il titolo delle canzoni e magari ricercarle successivamente. Se invece, in accordo con la AntiRecords, sono contenti così, allora non impicciamoci e lasciamoli fare quello che vogliono. Alla fine, non sono fatti nostri. 72/100 Daniele Sassi


Cursive – Vitriola. Non ci speravamo più, davvero, ma a distanza di sei anni dal decisamente poco riuscito I Am Gemini sono tornati i Cursive con quello che è senza dubbio il loro lavoro migliore dai tempi di The Ugly Organ (2003). Sarà un caso, ma sono arrivati a questo risultato con il ritorno del batterista originale e soprattutto con l’utilizzo del violoncello che aveva così tanto caratterizzato i pezzi di quell’album, e ovviamente con la situazione sociopolitica americana a fare da sfondo, ovvero Trump e compagnia brutta che di sicuro non possono far felice uno come Tim Kasher, ma eventualmente possono ispirarlo. Quindi torniamo ad avere dei Cursive di nuovo carichi, graffianti e cattivi, mai banali, anche se qualche volta la vicinanza con la paletta suoni di The Ugly Organ si fa troppo evidente e lascia la sensazione di sano dejavù. In poche parole un disco solido e parzialmente sorprendente, considerato quello che hanno fatto negli ultimi quindici anni. 78/100 Alessandro Riva


Kurt Vile – Bottle It in. Sono già passati tre anni da B’lieve I’m Goin Down…, ma vuoi per Lotta Sea Lice, l’intermezzo con Courtney Barnett dello scorso anno, vuoi perché da Smoke Ring for My Halo in poi (2011) – ovvero il momento in cui emerge dall’anonimato sulla ruota di Philadelphia – la Matador si è data molto da fare per mantenere i suoi amplificatori accesi, la curiosità per il nuovo disco di Kurt Vile è tutto fuorché spasmodica. La release si intitola Bottle It in, ha una cover tanto brutta quanto brutto lui riesce (volutamente) ad essere, e raccoglie tredici pezzi di rock cantautorale per ben 80 minuti di musica in cui il nostro prende spunto dallo spoken word del Mark Kozelek degli ultimi anni per realizzare un indie folk dallo storytelling tanto didascalico quanto forzato. Quasi tutte le tracce risultano noiose e mancanti di ingegno musicale (particolarmente quelle tirate per le lunghe), e indugiano su una stessa idea che non essendo supportata da abbellimenti di contorno o da una melodia vocale accattivante, non riesce a trarre alcun vantaggio dalla ripetitività. Per intenderci, quando sono gli Swans a fissarsi su un arpeggio o un giro di chitarra portandolo avanti fino alle estreme conseguenze, puoi restarne ipnotizzato, o quantomeno comprendere che c’è una visione integrata di sfondo, nel blocco concettuale che nell’insieme risulta essere l’opera. Se lo fa Kurt Vile (o anche i suoi amici The War On Drugs), il risultato è pedante, difficile da sostenere, e totalmente privo di utilità. Le prime canzoni incolonnate sono anche le uniche definibili come tali, il resto è una narrazione rock documentaristica in cui fatichi a trarre motivi di interesse, perché Vile non è né Kozelek né Lou Reed, e perché ci sono pochi momenti in cui ritrovi uno straccio di idea sonora. Chi riesce ad ascoltare questa lagna autoreferenziata per intero, senza mai digitare il tasto skip, è probabilmente un masochista o un bramino induista. 48/100 Daniele Sassi


Cat Power – Wanderer. Moon Pix e You Are Free sono i due dischi più rilevanti del percorso artistico di Chan Marshall. Sono datati rispettivamente 1998 e 2003, e per quanto riusciti e ancora oggi affascinanti nel loro essere essenziali, scarni e puri, nessuno dei due può essere definito un capolavoro. Anzi, possiamo ben sostenere di essere un po’ delusi dal mancato sviluppo ulteriore della polistrumentista di Atlanta. Se poi ci metti sei anni per pubblicare un disco come Wanderer, che nulla, proprio nulla aggiunge a quanto già pubblicato in precedenza, e lo farcisci di demagogia femminista (“Woman”, con la terribile partecipazione di Lana Del Rey, “Robbin Hood”), la pazienza finisce e scatta la ripicca insana che vuole il ridimensionamento. Il nuovo è un albo che accorda gli elementi quintessenziali della poetica e del suono di Cat Power, ma che non porta che un paio di brani (la pearljamiana “Horizon” e “You Get”) in grado di non sfigurare in mezzo ai migliori dei tempi andati. In fondo Chan il suo messaggio lo ha lasciato con il dvd Speaking for Trees. Quello sarebbe bastato a farcela amare e rispettare nei secoli dei secoli. Oggi ci sembra più una donna che fa di professione la musicista che un’artista con l’esigenza di esprimersi abbracciando una chitarra di fronte al microfono. E non solo perché questo disco è principalmente composto al piano. 60/100 Daniele Sassi


St.Vincent – MassEducation. Excusatio non petita, accusatio manifesta. Non sappiamo se questa appendice era prevista sin dall’inizio, o se le critiche di ridondanza ed edulcorazione rivolte da più fronti a Masseduction sono arrivate all’orgoglio di una grande musicista come Annie Clark, che ha voluto rispondervi così. Sta di fatto che ci troviamo davanti a una versione nuda delle canzoni del disco dell’anno scorso, che suona più come una mossa alla Let It Be Naked, per scusarsi e farci conoscere le buone intenzioni da cui sono nate le canzoni, che una necessità artistica. Lei ci continua a piacere, a stare simpatica, a sembrare una delle personalità maggiori del rock al femminile dei nostri anni, ci mancherebbe. E ok, ha sbagliato la produzione e soprattutto la comunicazione di un album che doveva farla diventare un fenoneno da headliner nei cartelloni dei festival estivi, rilasciando un’immagine studiata a tavolino che cozza molto con quella della ragazza acqua e sapone dei primi tempi, e anche con il profilo indie ben calibrato di album come Strange Mercy e l’omonimo, che inevitabilmente dovremo tenere di buon conto nella classifica di fine decennio che stileremo fra un anno. Ciò però non significa però che non ci aspettiamo un ritorno in grande stile col prossimo LP, che per forza di cose dovrà essere diverso negli intenti e nei temi. Un disco parzialmente sbagliato e una postilla inutile come questa, che per altro abbiamo faticato ad ascoltare con buon grado di attenzione, non macchiano il magnifico curriculum di St.Vincent. 55/100 Daniele Sassi


Marissa Nadler – For My Crimes. È già arrivata al nono capitolo di lunga durata la cantautrice folk di Boston Marissa Nadler, e il nuovo For My Crimes, per quanto ci possiamo ricordare dei precedenti, ci sembra uno dei più facilmente fruibili. Forse perché al di là della narrazione e dei preamboli di introduzione all’opera, che spesso volendoti spiegare cosa accade, te ne rovinano l’assaggio e quindi l’interpretazione, stavolta c’è un maggiore gusto melodico rispetto al passato. Un sapore in grado di avvicinare Marissa a Hope Sandoval, cioé ad ascolti anni Novanta a cui oggi torniamo con nostalgia canaglia. Ci sono anche dei riferimenti southern che fanno tanto America d’un tempo, quella che forse non saremo mai pienamente in grado di apprezzare, ma che può ugualmente trovare consensi presso chi fantastica di qualcosa che ha vissuto di riflesso grazie alla letteratura e al cinema. Ecco, per quanto confessionale – ma non così oscuro come l’artwork sembra promettere – questo è un albo che sa molto di prosa, e che sembra rivolto a chi vive il rock anche in base a un background e a un immagionario letterario ben definito, e sicuramente lontano dallo spirito del mero pop da intrattenimento pomeridiano. Per il resto, è un disco folk come migliaia di altri. 60/100 Daniele Sassi


J Mascis – Elastic Days. 2008-2018. La decade in questione poco ha aggiunto al discorso Dinosaur Jr. Dopo l’insperato ritorno alla base del bassista Lou Barlow e del batterista Murph – che nel 2005 hanno raggiunto Mascis per riunire il terzetto delle origini, quello degli anni d’oro ’85-’91 – sono arrivati una manciata di buoni dischi che hanno fatto la gioia di ascoltatori affezionati. Beyond (Fat Possum Records), Farm, I Bet on Sky e Give a Glimpse of What Yer Not (Jagjaguwar) ci hanno in parte restituito quelle sensazioni descritte dal nostro Luca Momblano, senza tuttavia eguagliare i livelli dell’era proto grunge. Le sorprese migliori sono forse arrivate dalla carriera del frontman, che ha ripreso il discorso cominciato nel 1996 on Martin + Me, per dare avvio a una vero e proprio percorso solista di tutto rispetto: Elastic Days è la terza stazione di questo tracciato. Per chi ha ascoltato i due capitoli precedenti queste dodici canzoni non sortiranno di certo un effetto sorpresa. Prendete i Dinosaur Jr, spogliateli quasi completamente e metteteli davanti a uno specchio: via il basso, via quasi del tutto i suoni distorti che hanno fatto grande la Jazzmaster del nostro eroe, via il drumming incendiario di Murph e dei suoi supplenti; al centro la voce di Mascis e le sue celebri schitarrate, intrise di un maggior senso di introspezione e di un intimismo mai banale e patetico. Tornare indietro per provare a tornare grandi. Gli ingredienti insomma sono più o meno i medesimi di Several Shades of Why e Tied to a Star, la presenza della batteria si fa un pelo più imponente, ma di fatto non stravolge quasi mai l’ossatura, se non in “Cut Stranger”, uno dei pezzi migliori dell’intero lotto insieme a “Picking Out the Seeds” e alla titletrack. Dodici brani che forse non raggiungono i picchi di Tied to a Star, ma che di certo non deluderanno le aspettative di chi stava aspettando JM. Bentornato Joseph Donald Mascis Jr! 68/100 Emilio Giannotti.