Motorpsycho – Here Be Monsters

Motorpsycho – Here Be Monsters

Negli ultimi anni non siamo mai stati troppo leggeri con i Motorpsycho. Eccezion fatta per il più che discreto Little Lucid Moments (2008), e volendo essere buoni, anche il precedente Behind the Sun (2014), gli ultimi lavori del combo di Trondheim sono palesemente confusionari e insufficienti, soprattutto se confrontati con la produzione del ben più glorioso passato, la quale, nei casi più rappresentativi, rischia di restare solo come un lontano ricordo della freschezza e originalità che hanno lasciato il segno, più che nella storia dell’alt-rock anni ’90, nel cuore di molti di molti adepti a quello che ancora oggi è un vero e proprio culto.

Veniamo dunque al sodo: Here Be Monsters rappresenta l’episodio più riuscito nella discografia dei Motorpsycho degli ultimi otto-dieci anni. Qualche segnale di risveglio lo avevamo già avuto con Behind the Sun, che presentava qualche canzone colma di sincera passione e psichedelia, ma anche qualche momento in cui lo skip era d’obbligo. Invece Here Be Monsters risulta più maturo e consapevole rispetto al resto del nuovo corso dei Motorpsycho, i quali, senza inutili divagazioni tornano a coinvolgere come non avveniva da tempo immemore. Le composizioni di Here Be Monsters sono figlie, oltre che dell’inaugurazione del museo della tecnologia di Trondheim per cui era stata commissionata l’opera, di evidenti richiami psichedelici di Floydiana memoria, in cui le atmosfere sono – finalmente! – a fuoco, e le melodie tutte azzeccatissime.

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Le tracce più lunghe non sono canzoni tirate troppo per le lunghe e colme di intermezzi fini a sé stessi, ma sono componimenti che crescono, evolvono e ipnotizzano. Un grande apporto è stato dato dai synth di Thomas Henriksen, la cui mano pervade l’intero disco, tra momenti di aperture prog e vivide elucubrazioni al limite della fusion. Il basso dinamico e fondamentale di Bent Sæther dirige il trio, mentre Snah abbandona – quasi – le solite manie di muscolosa chitarristica magniloquenza per tornare all’essenzialità e a suonare più col cuore che con la tecnica. Menzione d’onore anche per Kenneth Kapstad, ormai pienamente integratosi nella creatura psychonautica, e il cui groove rappresenta sicuramente un valore aggiunto non trascurabile.

Tutto l’affiatamento del trio viene fuori soprattutto nella conclusiva “Big Black Dog”, epica e perfetta cavalcata psichedelica. Il taurus di Sæther martella il leitmotiv del brano, rendendo l’intera composizione ossessiva e paranoica: i rimandi vanno subito a una certa “The Wheel”, che, nonostante sia molto più liquida di “Big Black Dog”, sarà balzata in mente a tutti i fan di vecchia data impegnati a commuoversi con la migliore canzone dei Motorpsycho degli ultimi 15 anni. Una spirale verso gli inferi percorsa da un pachiderma dissonante e evocativo. Tutta la classe e la sensibilità cristallina dei norvegesi viene fuori anche dalla seconda gemma del disco, “Lacuna/Sunrise”, avvolgente ballad in puro stile Pink Floyd, in cui la melodia vocale rimane impressa, mentre la canzone evolve in un turbine di crescendo e dinamismo che richiama ai migliori momenti di Trust Us.

Il singolo di lancio, “Spin, Spin, Spin”, invece è una cover del brano folk degli HP Lovecraft, riproposta in chiave pop-rock dal ritmo molto catchy e sixties, quasi a voler rinvangare i fasti di Let Them Eat Cake. Sulla stessa scia si muove la strumentale “Running With Scissors”, contemplativa e calda allo stesso tempo con i suoi intrecci di mellotron e chitarre acustiche. L’unico momento sottotono è invece rappresentato da “I.M.S.”, brano collegato al passato recente dei Motorpsycho meno dispersivo dei momenti più pseudo-prog degli ultimi anni, ma fatto di divagazioni space-hard rock che nulla aggiungono a quanto già dimostrato in precedenza. Se al posto di “I.M.S.” ci fosse stata la title-track che è possibile ascoltare nel vinile presente ai live del tour europeo di quest’anno (Here Be Monsters Vol.2, per l’appunto), qua arguiremmo di un clamoroso ritorno dei tre norvegesi. Purtroppo però questo pezzo tutto sommato riuscito, molto atmosferico, toccante e colmo di richiami ai deliri seventies à la Tangerine Dream e di melodie mellotroniche dei King Crimson, non fa parte di questo lotto, costringendoci a abbassare il voto, più di quanto si vorrebbe.

Il timore è che Here Be Monsters sia solo un episodio passeggero e che i nostri tornino a sfornare frutta e ortaggi poco graditi. Anzi, quasi sicuramente lo faranno, ma non possiamo far altro che sperare di trovare altri momenti sinceramente ispirati e a fuoco come quelli presenti in questi 45 minuti che ci hanno sorpreso. È sempre un piacere tornare ad essere avvolti dai quei sinceri mostri che ci hanno cresciuto, in quei piccoli momenti di lucidità in cui i Motorpsycho fanno ciò che gli riesce meglio: essere i Motorpsycho.