6 Ottobre 2018

Cominciano a essere troppi i dischi irrinunciabili del sempreverde – sempre-tetro Mark Lanegan, e chi ne colleziona la discografia, ormai fatica a trovare spazio sulle mensole per includervi ogni sua uscita. Questo è il secondo episodio assieme al polistrumentista britannico Duke Garwood, e sposta il cursore su sonorità completamente differenti da quelle più classicamente celtiche e folk dell’esordio. Il buon Garwood ha infatti messo in piedi degli scheletri di canzoni elettroniche affinché l’ex voce degli Screaming Trees potesse, anche a distanza, probabilmente anche da casa, incidervi sopra le sue proverbiali melodie vocali. Le tracce sono dodici per 39 minuti di musica lenta e spettrale, che sembra suonata da una camera oscura, in cui a stento si intravede la sagoma del Lanegan. Uno, due, massimo tre strumenti, inclusi riverberi e sonagli. Una ricetta semplice che certo non parla di elaborazione e costrutto da chef stellati, ma di tradizioni semplici, radicate sulla materia prima, che in questo caso sono la voce inconfondibile di Mark, che riesce a dare carattere di tipicità alle basi di Garwood. Per intenderci, non siamo lontani dagli ambienti in cui nascevano i suoi migliori dischi solisti degli anni Novanta. Non certo per gli espedienti tecnici, impensabili all’epoca, quanto più per la resa, lo scenario, l’atmosfera, tornano alla mente lavori a cui ogni tanto ci piace ancora tornare come Whiskey for the Holy Ghost, Scraps at Midnight e I’ll Take Care of You che, al contrario di altra roba made in Seattle in the ’90s, si fa ancora ben volere, e che dopo quaranta secondi dall’aver digitato il tasto play, non ti penti di aver messo su. Forse è questo il vero grande successo di Lanegan. Non avrà fatto i milioni di dollari non avendo venduto i milioni di copie quando era il momento per farlo, ma la sua produzione è invecchiata davvero bene. Può risultare complicato mettere su un albo degli Alice in Chains e pretendere che quei contenuti abbiano ancora un significato nella tua vita (per non parlare di quei suoni metallonzi). Possono facilmente darti la nausea i riff di Ten o i chorus innodici di Nevermind, ma certo se senti il bisogno di un po’ di poetica grunge, gli Screaming Trees sembrano ancora qualcosa di sincero o almeno non sputtanato, e soprattutto i lavori del Lanegan solista appaiono di quella stessa maturità che infatti avevano sin dall’inizio, e che per questo non eri del tutto pronto a lodare ai tempi. Invece erano dischi avanti, nati già per chi sarebbe sopravvissuto al grunge e ai suoi idoli.
Ricordo Enrico Silvestrin che potendo ospitare la band di Lanegan in una puntata del suo programma su MTV – era il tour di Field Songs, circa 2002 quindi – al momento di intervistare il nostro, gli domanda “ti conosciamo come un autore introspettivo e misterioso, ma com’eri da ragazzino?”, e Mark che lo fulmina con una risposta del tipo: “I never was a kid”. Ecco, in quel momento penso di aver capito chi era veramente Mark Lanegan. E il suo essere ancora quello di un tempo, fedele a se stesso e al suo carattere, oltre che forte di una voce inconfondibile e immutabile, e nonostante il variare degli strumentisti che lo affiancano, non può che rassicurarti, in tempi in cui di certezze ce ne sono sempre meno.