Gojira – Fortitude

Gojira – Fortitude

Da qualche anno ho sviluppato una mia personale teoria che forse potrà apparire sacrilega a qualche metallaro intransigente: gli anni ’00 hanno rappresentato il miglior momento della storia del metal.

Prima di considerarla campata per aria, pensateci bene: oltre all’epopea post metal di cui abbiamo parlato spesso in queste pagine, bisogna considerare una serie di sperimentazioni notevoli sui sottogeneri più estremi. E tra le formazioni che hanno partecipato a questa fase di grande creatività e rinnovamento vanno sicuramente annoverati i francesi Gojira, capaci di raggiungere in particolare con la doppietta From Mars to SiriusThe Way of All Flesh un impasto micidiale e complesso di death, groove e prog metal. Non temete, nulla a che fare con Dream Theater e sbrodoloni simili: l’attitudine progressiva della band d’Oltralpe consiste più che altro nella capacità di costruire brani tentacolari e cangianti, con l’asse chitarra-batteria dei fratelli Duplantier a guidare le danze.

Inoltre, vanno menzionate le liriche, incentrate su temi di grande importanza, come quello ambientale (ben prima che diventasse di pubblico dominio). La curiosità per loro c’è sempre dunque, e questo Fortitude non fa eccezione. Anzi, in questo caso la curiosità è doppia, perché il precedente Magma aveva cambiato completamente le carte in tavola, proponendo un cantato più melodico e strutture più rock.

Se l’evoluzione è sempre ben accetta, va detto che l’esperimento non era del tutto riuscito, portando ad un’eccessiva semplificazione delle loro caratteristiche più peculiari. Paradossalmente, il disco ha riscosso apprezzamenti verso una nuova fascia di pubblico, alienandosi però le simpatie di alcuni dei loro fan più duri e puri. In questa settima fatica in studio, dunque, i francesi si guardano alle spalle, proponendo un mix dei diversi sound già visti nei dischi precedenti. Si assiste dunque ad una dicotomia: da un lato, vediamo pezzi melodici che rappresentano forse il vero interesse attuale della band, con la ballad “The Chant” esempio più lampante di questo nuovo corso; dall’altra, invece, si prova a riacquistare l’antica aggressività e violenza, come ad esempio in “Sphinx”. I pezzi che compongono l’album sembrano dunque ripercorrere la loro carriera, aggiungendo qualcosa di nuovo nel caso di “Amazonia”, che sembra uscita da Roots dei Sepultura, e nel (quasi) post rock di “The Trails”, che tuttavia convince a metà. Nel complesso si tratta di un disco che accontenta un po’ tutti, e forse proprio per questo non riuscirà ad esaltare nessuno. Se vi aspettavate un nuovo classico, insomma, passate oltre. In caso contrario, godetevi questi 50 minuti di sano metallo, col gran finale di “Grind” come autentica ciliegina sulla torta.