1) Parli (o avete parlato) di Capitalismo e Marxismo come fossero ideologie differenti. C'è da sgombrare il campo da equivoci: il Marxismo (quindi la dottrina ideologico-filosofica) in quanto tale ha un rapporto del tutto particolare con la libertà e la si dovrebbe ricercare nelle radici filosofiche di Marx che, a quanto pare, affondano per gran parte nell'hegelismo e sono figlie del suo tempo. Non confondiamo il marxismo con la propria espressione pratica, il comunismo, dove tra l'altro la libertà è garantita dallo stato. La limitazione di cui parli è strutturale e riguarda la burocrazia, ovvero quello strumento che permette l'adeguamento dello Stato come molteplicità, allo Stato come quadro dirigente. Quindi non c'è solo il problema di ritrovare in Marx il nodo filosofico della libertà e del ruolo della burocrazia nell'idea di Stato, ma anche il problema storico di come è stato realizzato l'adeguamento tra ideologia e stato reale. Studi autorevoli della metà degli 'anni 40 del novecento (notevole in Italia il lavoro di Augusto Del Noce e negli Stati Uniti di Eric Voegelin) hanno dimostrato che affermandosi e fondandosi (hysteron\protheron) su un'economia di stampo fordista, il comunismo è un'altra forma di capitalismo ridistributivo.TheCloud wrote:Questo thread sembra ormai abbandonato da tempo, c'è qualcuno ancora interessato a parlare di ideologie politiche?
Ho letto qualcosa di quello che mi ha preceduto e, non so quanto senso abbia ma ormai sono qui, vorrei dirvi semplicemente che è inutile, totalmente inutile, discutere oggi, come è stato fatto, su quale dei due sistemi, tra capitalismo e marxismo, dia un maggior valore alla libertà.
La libertà oggi c'è, la libertà di fatto.
Nell'ideologia marxista, come già fatto notare, essa è limitata e regolata dallo stato.
Nell'attuale mondo capitalista è perpetrata attraverso l'idolatrazione strumentale della tolleranza, che in se è un valore positivo ma che oggi ha assunto i caratteri della vera e cruda repressione, fisica ed intellettuale.
La tolleranza, attraverso la quale si porta avanti oggi nella nostra società la libertà, è in realtà un sentimento che liberandoci ci neutralizza in una maniera tanto nuova e rivoluzionaria quanto efficace e più che repressiva. La società odierna è da essa condannata incosapevole alla sopportazione ed alla passiva accettazione dei nuovi bisogni della struttura capitalista, sempre più numerosi; a seguire l'andamento e le volontà del mercato, che non coincidono col bene dell'uomo; alla commozione forzata ed indotta di fronte ai "grandi temi", ridicolizzati; Al totale e irrimediabile instupidimento dell'omologazione, che soffoca ogni intelletto, acceca ogni occhio e uccide ogni possibilità di rivoluzione e salvezza.
La tolleranza, oggi, e la "libertà" sono in realtà lo strumento per la tutela dell'egoismo e ci portano solamente verso la morte della libertà.
Qualcuno ha voglia di parlarne ancora? Non so se sono sul forum giusto, ma mi hanno detto che la gente qui è in gamba, perdonate in caso l'intrusione
2) Sono persuaso dal fatto che la libertà, oggi come oggi, sia de jure e non de facto. La politica apparentemente di chiusura che l'Unione Sovietica ha portato innanzi fino alla Perestrojka è determinata da due fattori (semplificando): uno ideologico (il repentino passaggio dal comune nemico nazionalsocialista al nuovo scontro di poteri incarnati dallo Stato-Nazione come vessillo di un messaggio universalizzante - da questa fase gli Usa, a esempio, non ne sono mai usciti) . E l'altro storico-economico: il duro embargo che l'Urss ha subito dal blocco occidentale nell'immediato dopoguerra. Ed è inutile spiegare quali siano stati i vizi della macchina politica sovietica visto che le conseguenze (Eltsin, Putin, Medvedev, Abramovich ma anche illustri convertiti quali circolano in divisa negli ex stati cuscinetto) sono sotto gli occhi di tutti. E non posso entrare in discorsi sulla libertà perché usciremmo dal contesto, ma direi che l'egemonia del diritto o della scienza giuridico-costituzionale sia autonoma nelle attuali (benché ingolfato) democrazie rappresentative.
3) Hai un ottimo intuito quando guardi alla tolleranza come un elemento disturbante delle caratteristiche contemporanee. Purché venga premesso che sono rivolgimenti non scindibili dal contesto religioso-etico nel quale nascono. E' prassi consolidata guardare al cinquecento, seicento e settecento come secoli in cui ci sono verificate le premesse storiche e teoriche che ci riguardano. Se me lo chiedi i momenti cruciali stanno sull'asse: Copernico - De revolutionibus orbium coelestium, 1543; Descartes - Discorso sul metodo, 1637; Newton - Philosophiae Naturalis Principia Matematica,1687; Leibniz - Monadologia, 1714; Kant - Critica della ragion pura, 1781 (e successivi). I discorsi sulla tolleranza e su quanto il cristianesimo fosse la religione della tolleranza nascono a monte (e vanno anche rilevati in un processo gnostico di laicizzazione prima dello Stato e poi del Popolo), ma è nel '600 che si sviluppano e proliferano. E la tolleranza subisce una cesura sotto la ghigliottina del kantismo (che la espande a universale svuotandola di ogni significato simbolico fin allora vigente) e dell'imperativo categorico tanto da aver assunto le forme attuali. A mio modo di vedere la tolleranza è un semplice effetto di un più vasto co-involgimento storico e investe un problema fondamentale e irrisolto del sistema democratico così come discende da Aristotele: la rappresentanza politica. La supposta superiorità delle democrazie odierne verrebbero tacciate sia da Platone (che non ritiene la democrazia in assoluto la miglior forma di governo) e da Aristotele (che la ritiene la più utile, passatemi il termine) di essere corrotte. E quindi entra in gioco il fattore di cui sopra: chi e come ci governano? (il perché lo diamo per scontato trovandoci in democrazia). Quale autorevolezza devono incarnare le classi dirigenti
per governare una democrazia inserita in un contesto continentale e internazionale? In che modo la rappresentanza popolare si fa da tramite tra noi singoli e il Leviatano? E' ridiscutibile il contratto sociale che ci lega indissolubilmente a uno Stato? La rappresentanza rappresenta verosimilmente la verità? Qui corre tutta la differenza tra l'ideologia democratica che da etimologia dovrebbe essere governo del popolo e la democrazia effettiva che è il governo della rappresentanza del popolo. Siccome esiste questo scarto tra teoria e prassi la rappresentanza dovrebbe farsi garante del popolo. Lo è fino a che punto? E' possibile che in qualche modo la rappresentanza, per garantirsi la sua propria clientelare discendenza, ci abbia frazionati come popolo affinché non avessimo gli strumenti per ridiscutere certi aspetti anche costituzionali? Aggiungo che c'è sempre un piano astratto dove possiamo parlare dei migliori governanti possibili e rimaniamo in ambito platonico, ma poi ricordate che dobbiamo trasferire tutto su un piano reale e la realtà dice Matteo Renzi.