Fleet Foxes – Crack-Up

Fleet Foxes – Crack-Up

Vi risparmiamo i soliti luoghi comuni sui terzi album di una band, perché non è una questione di prova di maturità, tenuta o ampiezza artistica. Robin Pecknold si è preso ben 6 anni per pubblicare il seguito di Helplessness Blues, e ha dovuto assorbire l’uscita dell’ormai troppo ingombrante talento di Josh Tillman – stage name Father John Misty – nonché le prime critiche alla formula musicale del suo progetto, fin troppo legata, a detta di molte recensioni di quel secondo disco, a un immaginario bucolico che per quanto ben rappresentato stava ormai cominciando ad annoiare. Musica di genere, per un pubblico di genere, conciato secondo la moda hipster.

Invece Crack-Up rinuncia al filtro seppia-vintage che ha illuminato gli esordi, e rilancia i Fleet Foxes quali grandi performer di canzoni folk dal sapore avventuroso e poetico, e di fatto tra i potenziali big nei cartelloni dei festival dei prossimi anni, andando a sostituire nomi ormai obsoleti o scoppiati. Vista la conferma di Phil Ek in cabina di missaggio (The Shins, Built to Spill, e appunto Foxes sin dal debutto), il risultato sembra più il frutto di un accurato re-direct del titolare del marchio, e della naturale evoluzione degli strumentisti della line-up, che certo non perde niente sul fronte ritmico visto l’ingresso di Matt Barrick dei Walkmen alle pelli, e grazie al lavoro di rodaggio in sala prove con Neil Morgan, ovvero il batterista di Joanna Newsom e Bill Callahan

Ci sono, e non possono non esserci, le sovraincisioni vocali di Pecknold al sapore di riverbero, vero benchmark del suono dei Fleet Foxes, ma sono spesso spezzati, affiancati e sostituiti da idee e linee vocali differenti, difficili da memorizzare coi primi ascolti, e che quindi allungano la vita a melodie che in passato sembravano stucchevoli in quanto troppo facili. Prendete “Cassius”, un pezzo che sembra piazzato male in scaletta, ma che poi si apre in una progressione in cui riconosci i caratteri dominanti della band di Seattle, e riesci ad apprezzarli anche di più del solito, nel gioco di pieni mezzi pieni e vuoti dei suoi quattro minuti e cinquanta. Sono poi molto interessanti le tracce che contengono più spartiti differenti tra loro, e che mostrano quanta creatività e libertà di pensiero abbia il Pecknold, a questo punto degno di essere elencato tra i migliori autori della sua generazione, assieme forse a Kevin Parker, Sufjan Stevens e Justin Vernon.

“Third of May / Ōdaigahara”, per esempio, sembra parare su sentieri tutt’altro che sconosciuti, fino a che non si ferma e diventa altra musica, strumentale e diversamente evocativa. Una gemma che prepara il terreno al secondo lato, che inizia con “If You Need to, Keep Time on Me” – forse il brano più diretto del lotto – e che prosegue con ulteriori prove di ingegno intorno alla forma folk. Non ci si annoia mai, perché al di là degli arrangiamenti ricchi eppure mai ridondanti, nessuna canzone è simile alla precedente, e perché spesso all’interno di una ce ne trovi un’altra di pari intensità. Non cercate riempiticci o momenti di stanca, non ne troverete. C’è perfino qualche ricordo di Radiohead nelle parti sinfoniche che accompagnano voce e chitarra di “I Should See Memphis”, cosa volere di più? Se non è un capolavoro del moderno indie folk questo, allora possiamo chiudere baracca e burattini e rinunciare ad ascoltare altro di contemporaneo. Sono invece lavori come Crack-Up, Carrie & Lowell o Dream River alcuni dei titoli da indicare a chi crede che non ci sia più la musica di una volta. 

Più che della maturità, questo sembra solo il miglior disco che potranno mai fare i Fleet Foxes da Seattle.