Fell on Grunge Days: un Weekend a Seattle

Sono un classe 1980, quindi i miei anni da teenager corrispondono agli anni Novanta. E come molti della mia generazione, ho vissuto il periodo delle scuole superiori alla scoperta del brit pop e del grunge, scambiando cassette prima e masterizzando CD poi, fino all’arrivo dell’apparentemente innocua scatolina del modem 56 cacca, che per quanto perdesse la connessione di continuo, mi ha fatto approdare in totale indipendenza alla fase successiva. I consigli per gli acquisti delle riviste specializzate e dei presunti guru di paese potevo subito verificarli da me. 
Se al liceo ero indeciso se schierarmi dalla parte dei Nirvana o da quella dei Pearl Jam, con le prime connessioni a Napster sono riuscito a tirare giù album che nella mia città non erano ancora arrivati, pescati in buona parte dai titoli coi 4 e 5 pallini dell’atlantino sul grunge edito dalla Giunti, che per quanto utilissimo, in realtà di storte ne dava parecchie, ma se non altro alimentava il mito della scena di Seattle, di cui per anni avevo soltanto fantasticato. Poi sono arrivati i Radiohead e i Tool, che del brit pop e del grunge erano le versioni avanzate, e soprattutto la banda larga a portarmi sempre più lontano da quelle band che immaginate tutti e che avevo divorato negli anni Novanta. Dischi che ho ripreso solo successivamente alla laurea, per una revisione più consapevole e distaccata.

Tutta quest’introduzione per dire che poche settimane fa ho avuto la possibilità di visitare Seattle. Un mini tour di degustazioni di vini italiani organizzato da Slow Food mi ha finalmente portato nella città di Kurt Cobain e Jimi Hendrix, dove ho – con mia grande gioia e sorpresa – avuto anche il tempo libero sufficiente per esplorare alcuni dei luoghi di culto dell’era grunge. Con me, ad aiutarmi con la mappa della città e a ricordare aneddoti, titoli e nomi, e a bere il possibile anche al di fuori dalla fiera, un collega coetaneo che ormai si è dato al solo folk essenziale, ma che come me si è formato (anche) su dischi come Superunknown, Above e Gentlemen.

La prima tappa non l’abbiamo mai raggiunta. Abbiamo chiesto a tassisti e passanti di tutte le età, etnie e look, ma non siamo riusciti a trovare la sede della Sub Pop. A nostra parziale discolpa possiamo solo assicurare che l’indirizzo in pieno centro che esce fuori su Google, quello sulla 4a strada, è sicuramente sbagliato. Lì ci sono solo ristoranti e caffetterie (se possibile perfino peggiori di Starbucks, che a Seattle ha iniziato la sua storia). Abbiamo girato l’isolato 3 volte, confrontato porta dopo porta, ma niente. Peccato perché da qualche parte deve essere, visto che Mauro, un amico che ha visitato la città prima di me, mi ha raccontato di aver avuto Bruce Pavitt a fargli da guida all’interno dello stabilimento e che Mark Arm dei Mudhoney oggi lavora alla Sub Pop come magazziniere.

È andata meglio invece all’Easy Street Records Store, dall’altra parte della città, sulle cui mura esterne Jeff Ament ha fatto da poco restaurare il murales con il logo dei Mother Love Bone e dove, oltre a un’infinita serie di gadget della Sub Pop, era in grande evidenza la riedizione di Badmotorfinger dei Soundgarden. Dentro al negozio, oltre a un bar-paninoteca di quelli che se ci fai colazione resti costipato per una settimana, una buona scelta di titoli del periodo d’oro, con particolare spazio per le riedizioni in versione supermegacofanazzo, e anche per tante cose che col grunge non c’entrano nulla, ma che evidentemente vendono bene. Per la cronaca, disco della settimana era il nuovo dei Japandroids.

Il momento più emozionante è stato probabilmente quando il taxi ci ha fatti scendere proprio di fronte all’ingresso per la casa di Kurt Cobain. Sita in una zona residenziale molto verde e silenziosa, con l’acqua della baia che si intravede tra gli abeti del bosco, non è ancora divenuta museo – anzi l’entrata è sbarrata da un cancello a saracinesca che non lascia intravedere nulla tranne un finestrone del piano superiore – ma è comunque meta degli appassionati per via della panchina piena di scritte e ricordi dei fan che sta al suo lato. Quando l’abbiamo notata, osservandola dal basso verso l’alto della piccola duna verde dove risiede, proprio sotto una quercia secolare, il tempo si è fermato. E anche tra di noi, prima di condividere l’emozione e la felicità di averla trovata, per un paio di profondissimi minuti è stato il silenzio. Vi farà sorridere il fatto che appoggiato su una delle stecche di legno che formavano la panca, vi era del fumo sufficiente per rollare un paio di cannoni di quelli importanti. Ma in segno di rispetto ed estrema gratitudine, abbiamo deciso di lasciare il dono a Kurt.

Il celebre teatro Moore, per capirci quello dove i Mad Season hanno registrato il loro celebre concerto, è proprio a due passi dal Fair Market, forse l’angolo più vivo e colorato della città, anche se come prezzi tanto fair non sembra essere più. Da quelle parti ci siamo fermati alla tasting room condivisa di quattro emergenti winemaker dello Stato di Washington, dove ciò che era etichettato come sangiovese sapeva di cabernet franc, ciò che in etichetta doveva essere barbera aveva il colore del petit verdot, e quello che doveva essere un classico taglio bordolese sembrava un nebbiolo incrociato con un pinot nero. Insomma, dove le nostre certezze sono state rese vane al primo sorso. 
Per sgrassarci la bocca siamo andati a prenderci una birra al Crocodile, uno storico pub-pizzeria dove gli artisti si esibiscono dal vivo e dove ogni cocktail e portata è intitolato in ricordo del giorno in cui i personaggi che potete immaginare hanno suonato sul palco del locale. Sulle pareti, gigantografie autografe di Andrew Wood e Layne Staley. Sulla tavola, una pizza che ci risulta difficile deglutire. Quando entri, la sensazione è quella di aver azionato il cavo di apertura di una botola dove tutto è rimasto incastrato in una scena di Singles, il film di Cameron Crowe. Ti sembra di esserci dentro. Per rimettere a posto lo stomaco, il giorno dopo mi sono diretto al Le Pichet, un bistrot francese sulla prima strada dove l’aria è comunque consumata, ma l’atmosfera è perlomeno soffusa e riflessiva il giusto. D’altronde il grunge è anche autocommiserazione.

La colonna sonora di questi giorni è stata una compilation di canzoni meno ovvie dei primi anni Novanta. Nomi arcinoti come Alice in Chains e Temple of the Dog, e altri che anche chi conosceva forse ha dimenticato, come Rein Sanction, Tad e Love Battery. Riportiamo la playlist completa a pie’ di pagina.
Al termine della tre giorni, prima di imbarcarci per Austin, Texas e immergerci nel vibe tutto blues della sesta strada, entrambi ci siamo domandati se ci fosse della buona musica proveniente da Seattle rimasta nascosta, o che valga la pena rivalutare con le orecchie da over 30 di oggi. E onestamente di chicche sconosciute non ne abbiamo trovate. Ci sarebbero giusto questi tre dischi che trovate di seguito, che probabilmente avete già provato e accantonato, ma che potrebbero meritare di essere ripresi.

Truly – Fast Stories… From Kid Coma (1995) Arrivano dopo i fuochi e provano a spostare il cursore verso una psichedelia isterica e drogata, che a tratti pare una versione moderna ed edulcorata dei Doors, in altri strizza l’occhiolino agli Spacemen 3. Il pubblico grunge, nonostante tre mini di buona fattura che gli preparano il terreno, non si accorge nemmeno del loro debutto su LP. D’altronde impiegano cinque lunghi anni – in cui a Seattle succede di tutto – per arrivare al bersaglio grosso, e in pochi ricordano che Hiro Yamamoto e Mark Pickerel erano rispettivamente il primo bassista dei Soundgarden e il primo batterista degli Screaming Trees. Le inutilizzate referenze non aiutano ad emergere, ma il disco d’esordio è realmente interessante, seppur logorroico e proteso verso una soluzione che non arriva. Oltre a quella di un mieloso imitatore australiano che non vale neanche la pena menzionare, la voce del cantante e maggiore compositore Robert Roth è la più vicina a quella di Kurt Cobain che si ricordi, sia quando urla come un ossesso, sia quando si ammorbidisce in cerca di compassione. Il suo è un talento vero però, e riascoltando il materiale dei Truly oggi viene davvero da pensare che ci siamo persi per strada una potenziale altra grande band di Seattle. Non tutti hanno fortuna nell’incontrare i discografici e i produttori giusti, e in questo Roth e soci possono davvero prendersela col destino. Noi che cuore non abbiamo, andiamo su Spotify e ce li ascoltiamo ancora una volta, in attesa che qualcuno si prenda la briga di ristampare i loro CD. Impossibile, ma lo meriterebbero davvero. Il secondo LP, Feeling You Up, è più convenzionale e prevedibile, ma è l’unico che abbiamo trovato tra gli scaffali dell’Easy Street Records Store.

Jerry Cantrell – Degradation Trip Vol 1 & 2 (2002) Se non ci è simpatico il personaggio è perché a parole si è sempre fintamente disinteressato di essere riconosciuto come il vero leader degli Alice in Chains, ma nei fatti si è addirittura permesso di rifondare la band e di fronteggiarla quando ha capito che come solista non avrebbe fatto strada. Non gli si può certo rimproverare di non essere riuscito a salvare l’amico che non voleva più farsi salvare, ma è evidente che Cantrell – che di quella band era il maggiore compositore – ne invidiasse il carisma e il magnetismo oscuro che attraeva il pubblico. Composto già nel 1998, appena dopo la pubblicazione del già validissimo Boggy Depot – altro disco che fosse stato cantato da Staley sarebbe potuto essere di ben altro spessore – Degradation Trip è un albo doppio che viene ridimensionato a un solo CD e pubblicato in fretta e furia a seguito della morte – arrivata anche più tardi di quel che qualcuno pensava – di Staley. Rimesso insieme dalla Roadrunner, che per una volta fa una cosa giusta, si rivela come uno degli ultimi se non l’ultimo in assoluto album totalmente grunge mai pubblicato da un big della scena. Sono venticinque canzoni registrate con soli basso, batteria, voce e chitarre, da una formazione a tre che include anche Robert Trujillo dei Metallica e Mike Bordin dei Faith No More, in cui raramente si soffre di cali di ispirazione (“She Was My Girl” sembra un pezzo dei Nickelback) o demenza posticcia (“Give It a Name” pure). Suono compatto e sostanzioso, registrazione che va all’essenza del Seattle-sound, per un disco più ambizioso di qualunque fuga solista di membri di altre band concittadine (Lanegan fuori concorso). Lasciata da parte l’antipatia, va ammesso che Cantrell è davvero un mostro di creatività con la chitarra. 

The Monkeywrench – Clean as a Broke-Dick Dog (1992) Quando la faccenda grunge si è fatta ben più seriosa di quello che era agli esordi, lo stile scazzato dei Mudhoney non ha più fruttato quanto aveva invece promesso. In questo senso va inquadrato anche il side-project denominato Monkeywrench, in cui Mark Arm e Steve Turner, le due anime del gruppo, si uniscono al talento punk blues del texano Tim Kerr. Ne nasce un album che non ascolta nessuno, probabilmente nemmeno alla Sub Pop, ma che oggi diverte per il suo ibridare con candido non-sense gli Stooges e i Rolling Stones, con spruzzi di countrypunk e il canonico fuzz sullo sfondo (anche se Turner qui è alle prese col basso). Riprendendolo oggi, appare chiaro che coi Black Crowes e i Guns n’ Roses ancora in alto nelle classifiche, nel 1992 non poteva di certo fare furore al di fuori di Seattle. Allo stesso tempo, il tasso di figosità è rimasto davvero elevato.