Electro Report 2020, pt. I

In attesa dei ritorni di Actress e Oneohtrix Point Never, ripercorriamo i mesi passati di quest’annata funesta attraverso le uscite electro più rilevanti, nel bene e nel male. Ci siamo permessi di andare più a ritroso del solito per recuperare qualche uscita che sarebbe altrimenti finita nel dimenticatoio. Nella speranza di scovare sempre nuove leve per cui esaltarsi, ecco dieci dischi che sono stati parte integrante dei nostri ascolti.

A. G. Cook – 7G. Drums, Guitar, Supersaw, Piano, Nord, Spoken Word, Extreme Vocals. Sette dischi che sfiorano i cinquanta pezzi complessivi. L’opera prima del fondatore della PC Music – una delle etichette chiave dello scorso decennio – mette in mostra le smisurate capacità del producer, che spazia tra l’IDM più cervellotica e l’ambient pop. Grazie ad un debutto sulla lunga durata così ambizioso si dimostra dunque un nome da tenere d’occhio, insieme a realtà già affermate appartenenti alla casa discografica in questione. s.v./100


Autechre – SIGN. Il duo in perenne sperimentazione torna sulla terra dopo le ultime prove ai limiti dell’umana comprensione. SIGN possiede sfaccettature ambient in totale contrapposizione con le recenti uscite fuori dagli schemi, e anche nei momenti in cui fa vibrare la cassa toracica (si00) lascia intravedere il lato meno glaciale e distaccato dei nativi di Rochdale. Chi si aspettava la resa glitch di una smerigliatrice rimarrà deluso; noi possiamo ritenerci soddisfatti e curiosi verso le nuove vette che il moniker Autechre deciderà di toccare. 81/100


Beatrice Dillon – Workaround. Spalleggiata dalla PAN, la compositrice londinese ci accoglie nel suo universo a base di sperimentazione e percussioni ossessive. Il tempo è fissato sui 150 bpm per l’interezza dell’LP, eppure ci si scorda in fretta di questa peculiarità mentre le tracce si rivelano all’ascoltatore. Dietro le quinte troviamo interpreti di tutto rispetto come Laurel Halo, ma anche nei frangenti in cui la Dillon opera per conto proprio, l’andamento generale non perde di prestigio. Impossibile fuggire al fascino ipnotico dei suoi ritmi dal sapore caraibico. 80/100


Croatian Amor – All in the Same Breath. Dopo l’ottimo ISA, Loke Rahbek si cala nella parte dell’autore altamente prolifico e opta per l’immediata pubblicazione del suo successore. L’impressione è quella di una scelta azzardata, specialmente se ci si addentra nell’album: non a caso a spiccare sono i pezzi che seguono la scia delle sue vecchie composizioni –  “Fires in the Dark”, “Same Light Reflects” – e non quelli più rilassati. Non ce la sentiamo di condannare questa sua veste oltremodo edificante, urge però un cambio di rotta per evitare di sprofondare nell’aurea mediocritas. 65/100


Jessie Ware – What’s Your Pleasure?. Giunta al quarto album in studio, la cantante che tanto aveva collaborato con le nuove leve venute fuori dalla scena UK bass, rilancia sé stessa con un’ottima prova di maturità artistica. Un singolo dietro l’altro di dance pop dalle influenze soul e disco, vocalmente impeccabile, che ha come unico neo un tocco eccessivamente rétro. Certamente non la proposta più innovativa possibile, ma in fondo sappiamo essere spesso e volentieri schiavi della nostalgia, e What’s Your Pleasure? ce lo ricorda egregiamente. 79/100


Kelly Lee Owens – Inner Song. Con l’omonimo debutto la giovane musicista britannica aveva suscitato l’interesse della scena minimal techno con una proposta tendente al pop; il nuovo arrivato Inner Song acquista una dimensione più pacata, quasi eterea, il cui contenuto opta per una direzione tanto interessante nelle intenzioni quanto altalenante nei risultati. Un introspettivo viaggio nell’io comunque più a fuoco dell’esordio, ma che di fatto non smuove nulla: piacerà ai fan, che continueranno ad avere fede nella sua proposta, ma non le consentirà di compiere l’atteso salto di qualità. 70/100


Machinedrum – A View of U. Il producer prosegue la rotta verso i lati mainstream di future bass e footwork, che in passato fecero la sua fortuna. I brani non seguono un reale filo logico, e finiscono per suonare ripetitivi persino nei momenti in cui provano ad abbracciare nuovi territori. Quando questi funzionano sono principalmente frutto di collaborazioni con artisti già affermati nei loro rispettivi settori; quando invece non riescono nell’intento suonano come musica da centro commerciale. Provaci ancora Travis. 57/100


Minor Science – Second Language. Curiosa l’ascesa di Angus Finlayson, prima redattore presso alcune delle webzine più rilevanti della decade appena trascorsa, poi produttore della musica di cui fino a poco tempo prima si era limitato a scrivere. C’erano i presupposti per sperare in un esordio roboante e le attese sono state prontamente rispettate: Second Language dà il suo meglio nelle tracce più spinte, diversamente perde qualcosa negli intermezzi forzatamente progressive. Staremo vigili perché sarà pur vero che una rondine non fa primavera, ma per il momento è un gran bel sentire. 76/100


Oklou – Galore. Forse la sorpresa di questa cupa annata, o forse no, visto che i più attenti potevano tranquillamente aspettarsi un’uscita di tale livello. Chicche come “Fall” e “God’s Chariots” denotano un certo gusto melodico e non sfigurerebbero in uscite più blasonate. Sebbene si tratti solo di un mixtape, a detta di chi scrive questo concentrato di pop d’avanguardia e R&B lascia ben sperare per il futuro di un’artista che sta solo grattando la superficie del suo potenziale. 77/100


Sophia Loizou – Untold. Investire nella propria istruzione è cosa buona e giusta, e Sophia Loizou – attualmente ricercatrice presso la Goldsmiths, University of London – svela il suo genio attraverso un progetto a trecentosessanta gradi che vede coinvolte numerose discipline. Il nucleo rimane la musica, coadiuvata da un sapiente uso del field recording e da ammalianti pulsazioni ambient. Untold è un paesaggio sonoro caratterizzato da una produzione magistrale, dove natura e tecnologia collidono prendendoci per mano verso la loro contemplazione. 83/100